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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Svetlana Aleksievic, Tempo di seconda mano, Bompiani 2014, pp. 777, 24 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2299359Vedi biblioteca in scheda: mancaMerda «Non è la mente ma la merda della nazione» (Vladimir Lenin, riferendosi agli intellettuali che si opponevano ai bolscevichi)

Notizie tratte da: Svetlana Aleksievic, Tempo di seconda mano, Bompiani 2014, pp. 777, 24 euro.

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Merda «Non è la mente ma la merda della nazione» (Vladimir Lenin, riferendosi agli intellettuali che si opponevano ai bolscevichi).

Impiccare «Impiccare (assolutamente impiccare, perché il popolo veda bene) non meno di 100 kulaki inveterati, ricconi... requisire loro tutto il grano, designare degli ostaggi... Fare in modo che per centinaia di verste intorno il popolo veda e tremi...» (dal telegramma inviato da Lenin, nel 1918, ai compagni del governatorato di Penza con le istruzioni per soffocare la rivolta contadina).

Fame Nel 1919 il professor Kuznecov scrisse a Trockij: «Mosca sta letteralmente morendo di fame». Risposta: «Non è fame. Durante l’assedio di Tito a Gerusalemme, le madri ebree hanno mangiato i propri figli. Quando avrò costretto le vostre madri a mangiare i loro figli, allora potrà venirmi a dire: “Siamo alla fame!”».

Poesie Stalin quand’era giovane scriveva liriche romantiche in georgiano. Quando era seminarista, nel 1894, leggeva traduzioni da Shakespeare, Goethe e Whitman.

Dekulakizzazione Dekulakizzazione, in russo raskulačivanie, fu nell’ambito della collettivizzazione agraria forzata, tra il 1929 e il 1932 (sotto Stalin), la “liquidazione dei kulaki come classe”; mediante l’esproprio di terre e beni e la deportazione in terre disabitate dei “contadini agiati” e famiglie o l’internamento nei lager; lo sterminio programmato riguardò milioni di persone.

Sotto zero Nella lettera del 4 aprile 1933 a Stalin, lo scrittore Michail Šolochov denuncia, per esserne stato testimone oculare nella propria stanica (villaggio cosacco), le atroci modalità della collettivizzazione dei contadini: tra l’altro, famiglie con donne e bambini lasciati in strada con 20° sotto zero fuori dalle proprie case espropriate, con la proibizione ai vicini di ospitarli, pena essere espropriati a loro volta.

Cereali Fino agli anni Cinquanta nei kolchozy (cooperative agricole dove i contadini lavoravano collettivamente la terra) la giornata lavorata veniva registrata, senza di norma essere pagata subito né con denaro né in natura, con asticelle o spunte sul libretto del lavoratore; alla fine dell’annata i crediti venivano computati e compensati, a seconda dei raccolti, con 400-600 gr di cereale per giornata lavorata.

Un canale Nella Russia staliniana e sovietica gli apparecchi radiofonici per uso domestico non esistevano. C’era un sistema via cavo, al riparo dalle emissioni dal resto d’Europa, che consentiva di sintonizzarsi sull’unico canale radiofonico autorizzato.

Distintivo Svetlana Aleksievic, 66 anni, mamma ucraina, papà bielorusso, entrambi insegnanti nelle scuole dei kolkoz, è stata ottobrina (le bambine-ragazze e bambini-ragazzi inquadrati nelle organizzazioni del partito comunista dell’Unione Sovietica: rispettivamente dai 7 ai 9 anni, dai 9 ai 14 e dai 14 fino ai 28). Portava il distintivo col bambino riccioluto, formato da una stella color rosso rubino a cinque punte con al centro il ritratto di Vladimir Lenin bambino.

Verità vera Dopo la perestrojka per «la maggior parte della gente la libertà era fonte di irritazione»: «Ho comprato tre giornali e ognuno raccontava la sua verità. Ma dov’è la verità vera? Un tempo, la mattina leggevi la Pravda e venivi a sapere ogni cosa. Capivi quel che c’era da capire» (un russo intervistato dalla Aleksievic).

Libertà e salame La Aleksievic ha chiesto a tutti quelli che ha incontrato: “Cos’è la libertà?” «Padri e figli hanno risposto in modo diverso. Quelli che sono nati in Urss e quelli che sono nati dopo l’Urss non condividono la stessa esperienza. Provengono da pianeti diversi. I genitori: la libertà è quando non si vive nella paura; i tre giorni di agosto nei quali abbiamo sconfitto il putsch (il tentativo, fallito, nei giorni dal 19 al 21 agosto 1991, di una svolta restauratrice rispetto alle riforme avviate dalla perestrojka), se uno può scegliere in negozio tra cento diverse qualità di salame è più libero di un altro che deve scegliere tra dieci, dopo di che è insensato sperare nell’avvento di ipotetiche generazioni che non conosceranno il bastone; l’uomo russo non capisce la libertà, quel che gli ci vuole è il cosacco e la frusta. I figli: la libertà è l’amore; la libertà interiore è il valore assoluto; quando i tuoi desideri non ti fanno paura; possedere molto denaro vuol dire avere tutto; libertà è quando puoi vivere senza dover pensare alla libertà. La libertà è qualcosa di normale».

Studenti Da una conversazione della Aleksievic con un professore universitario: «Alla fine degli anni Novanta, quando parlavo dell’Unione Sovietica gli studenti ridevano, erano convinti di avere davanti un futuro tutto nuovo. Ora le cose stanno diversamente... Gli studenti di adesso hanno avuto modo di conoscere e comprendere fino in fondo il capitalismo: l’ineguaglianza, la povertà, la ricchezza sfacciata. Hanno sotto gli occhi la vita dei loro genitori che dal saccheggio del paese hanno avuto solo da perdere. E hanno idee radicali. Sognano di fare una loro rivoluzione. Indossano magliette rosse con i ritratti di Lenin e Che Guevara».

Culto di Stalin «Nella società si è manifestata una forte “domanda” di Unione Sovietica. Ha ripreso vigore il culto di Stalin. La metà dei giovani dai 19 ai 30 anni considerano Stalin “un grandissimo uomo politico”. Un nuovo culto di Stalin nel paese in cui Stalin ha sterminato non meno gente di Hitler?! È tornato di moda tutto ciò che è sovietico. Ci sono per esempio caffè “sovietici” con nomi sovietici dove servono piatti sovietici. Sono tornati in commercio cioccolatini “sovietici” e salame “sovietico” dall’odore e sapore che conosciamo da quando eravamo bambini. E, naturalmente, anche vodka “sovietica”. Alla televisione ci sono decine di trasmissioni, e su internet decine di siti, dedicati ai nostalgici del “sovietismo”. Potete fare del turismo nei lager staliniani, alle isole Solovki o a Magadan. Ci sono pubblicità che vi promettono, per un’emozione più intensa, abbigliamento e piccone da detenuto. E vi mostreranno le baracche restaurate. E per finire una battuta di pesca» (Svetlana Aleksievic).

Salma Lenin, la cui salma imbalsamata giace tuttora in un sarcofago
trasparente nel Mausoleo, dal 1929 in granito e marmo, eretto al centro della piazza.

Idee vecchio stampo «Rinascono idee di vecchio stampo; quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa... È stato recuperato l’inno sovietico, abbiamo di nuovo il Komsomol, ma si chiama Naši [“I Nostri”], c’è il partito del potere che imita il partito comunista. Il presidente ha altrettanto potere del segretario generale di prima. Un potere assoluto. E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia...» (Svetlana Aleksievic).

Tempo di seconda mano «Sono passati cent’anni e di nuovo il futuro non è al suo posto. Siamo entrati in un tempo di seconda mano» (Svetlana Aleksievic).

Cucina russa La cucina russa degli anni Sessanta, nove metri quadri (dodici quando andava bene), col gabinetto contiguo dietro una paretina sottile. «Pianificazione sovietica. Sul davanzale della finestra cipolle in vecchi barattoli di maionese e un vaso da fiori con un’aloe contro il raffreddore. Da noi la cucina non è soltanto il posto dove si prepara da mangiare, ma funge anche da sala da pranzo, salotto, studio e tribuna. È il luogo in cui si svolgono sedute psicoterapeutiche collettive. Nel XIX secolo l’intera cultura russa viveva nelle tenute nobiliari e nel XX nelle cucine. Anche la perestrojka. Tutta la vita degli anni Sessanta è legata a questo ambiente. Grazie, Chruščëv! È stato quando c’era lui che abbiamo potuto lasciare gli appartamenti di coabitazione e farci delle cucine solo nostre, dove si poteva parlar male del potere e soprattutto senza aver paura, perché si era tra di noi. Nascevano così idee, fantasiosi progetti. Si raccontavano barzellette...» (Svetlana Aleksievic).

Kommunalka La kommunalka, appartamento in cui abitano più famiglie, di norma con una stanza a disposizione ciascuna e la cucina e il bagno in comune; nascono nel 1917 con la politica bolscevica di esproprio e “compattamento” (uplotnenie) degli spazi abitativi cittadini e l’assegnazione ai non abbienti. La vita in coabitazione permane anche nel postcomunismo, e vede la privatizzazione di singoli locali (con l’assenso degli altri inquilini).

Stufa russa La grande stufa russa contadina, in muratura, oltre a riscaldare l’unico grande locale dell’isba viene utilizzata per cucinare e anche per dormire, su un ripiano attrezzato che sfrutta il tepore del focolare.

Domovoj 1 Domovoj: nel folclore russo è il genio della casa (dom) e suo guardiano, un piccolo dio domestico che vive nascosto dalle parti del focolare dell’isba; vecchio barbuto e peloso, incline ai dispetti, i contadini sanno che lo devono temere e rispettare.

Domovoj 2 Vecchia usanza russa: lo sposo porta la sposa tra le braccia come fosse un bambino per non farsi vedere dallo spirito della casa. Il domovoj non ama gli estranei, li scaccia.

Pane e sale Il tradizionale omaggio dei popoli slavi a un ospite gradito, in Russia chleb da sol’ o chlebosol’, una pagnotta e una tazzina di sale (l’augurio di abbondanza e lo scongiuro per tener lontane le forze avverse).

Gorko In russo il coro dei commensali che invitano gli sposi novelli
a baciarsi è “Gor’ko! Gor’ko!”, cioè: “È amaro!”, e va addolcito col bacio.

Chruščëv Il 16 febbraio Nikita Chruščëv, Gensek del partito dopo la morte di Stalin, dette lettura di un “rapporto segreto” con la parziale denuncia dei crimini di Stalin, ribadita in due congressi successivi: dai gulag uscirono milioni di detenuti, iniziò il “disgelo” in campo culturale; la svolta fu epocale, paragonabile solo alla perestrojka dei successivi anni Ottanta.

Kukuruza Chruščëv, soprannominato “kukuruznik” (da kukuruza, granoturco) per aver promosso la massiccia estensione, anche alle “terre vergini”, di quella coltura, a scapito di cereali più nutrienti.

Perestrojka Perestrojka: “ricostruzione”, “ristrutturazione”, fu il tentativo da parte dell’allora segretario generale del Pc dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv tra il 1987 e il 1989 di riformare il partito comunista e lo stato sovietico; fallì definitivamente col tentato putsch dei collaboratori di Gorbačëv dell’agosto 1991 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Capitalismo Con la perestrojka «si è scatenato il capitalismo... Novanta rubli sono diventati dieci dollari» (una russa intervista dalla Aleksievic).

Intellettuali «La maggioranza della gente non era antisovietica, voleva soltanto avere una vita migliore. Poter acquistare dei jeans, la ‘tele’ e – sogno supremo! – un’automobile. Tutti avevano voglia di indossare qualcosa di vistoso, di mettere in tavola qualche buon piatto. Quando ho portato a casa l’Arcipelago Gulag di Solženicyn, mia madre era finita nel panico: ‘Se non porti subito via quel libro, ti caccio di casa.’ Il marito di mia nonna, Vasilij, era stato fucilato proprio alla vigilia della guerra e lei diceva: ‘Vas’ka se l’è cercata. Hanno avuto ragione ad arrestarlo. Aveva la lingua troppo lunga.’ Quando poi le ho domandato: ‘Nonna, perché non mi hai mai raccontato niente?’ lei mi ha risposto: ‘Bambina mia, voglio che la mia vita crepi con me, senza che voi ne abbiate a soffrire.’ Così sono vissuti i nostri genitori. E i genitori dei nostri genitori. Vite spianate dal rullo compressore. Non è stato il popolo a fare la perestrojka, l’ha fatta un solo uomo, Gorbačëv. Gorbačëv e un pugno di intellettuali...» (una russa intervista dalla Aleksievic).

Jeans e pellicce Una russa: «Il paese si è riempito di banche e bancarelle. Sono apparsi indumenti e altri articoli mai visti. Non più scarpe mastodontiche e vestiti da vecchia, ma le cose che avevamo sempre sognato: jeans, giubbini foderati di pelliccia... biancheria intima femminile e belle stoviglie... Tutto colorato ed elegante... La nostra roba sovietica era grigia, ascetica, di tipo quasi militare. Biblioteche e teatri si sono svuotati... Al loro posto hanno fatto il pieno mercati e negozi privati... A tutti è venuta voglia di essere felici, godendo subito di quella felicità a portata di mano. [...]».

Soldi Una russa: «Io un tempo disprezzavo il denaro, perché non sapevo cosa fosse. Nella nostra famiglia non era consentito parlare di soldi. Lo si riteneva vergognoso. Siamo cresciuti in un paese nel quale si può dire non esistesse il denaro. Io ricevevo, come tutti, i miei centoventi rubli al mese e li facevo bastare. I soldi sono arrivati con la perestrojka. Con Gajdar. Soldi veri. Invece del vecchio slogan ‘Il nostro futuro è il comunismo’ il messaggio, da cartelloni appesi ovunque, era: ‘Comperate... comperate...’ Se vuoi – viaggia. Puoi vedere Parigi... O la Spagna... Fiesta... combattimenti di tori...».

Calzini razionati Un russo: «Erano anni bellissimi e ingenui... Abbiamo prestato fede a Gorbačëv, adesso ci penseremo due volte prima di credere a qualcuno. Molti russi emigrati rientravano in Patria... C’era un tale entusiasmo! Pensavamo di riuscire davvero a buttar giù la baracca e a costruire qualcosa di nuovo. [...] Quanto più si diceva e scriveva: “Libertà! Libertà!”, tanto più rapidamente sparivano dai banchi di vendita non solo il formaggio e la carne, ma anche il sale e lo zucchero. I negozi erano vuoti. Era terribile. Avevamo tessere di razionamento per ogni articolo, come durante la guerra. Ci ha salvato la nonna, che passava le sue giornate, da mattina a sera, in giro per la città a spendere e a scambiare i buoni. Il balcone era pieno di scatole di detersivi e in camera da letto ci si aggirava tra sacchi di zucchero e grano mondato. Quando hanno introdotto il razionamento anche per i calzini, mio padre è scoppiato a piangere: “È la fine dell’Urss”».

Code Alisa Z., manager pubblicitaria, 35 anni: «Con le tessere davano
mensilmente due chili di farina, un chilo di carne a testa e duecento grammi di burro. C’erano code, code dappertutto e distribuivano i numeri per le attese».

Matti «Gli anni Novanta... Non direi che sia stata una bella epoca... pessima è l’aggettivo più adatto. Ha prodotto nelle menti un rivolgimento di centottanta gradi... Alcuni non hanno retto e sono usciti di senno. Gli ospedali psichiatrici ne erano pieni. Sono andato a trovare un amico ricoverato e c’era uno che gridava: ‘Io sono Stalin! Io sono Stalin!’ e un altro ‘Io sono Berezovskij!’ Di Stalin e Berezovskij ne avevano un intero reparto... (un russo)

Sparatorie «In strada c’erano continue sparatorie. Un sacco di gente ammazzata. Ogni giorno c’era un regolamento di conti» (un russo sugli anni Novanta).

Chiesa «La gente ha avuto paura e ha cominciato a frequentare la chiesa. Quando credevo nel comunismo non avevo bisogno della chiesa» (un russo).

Mezzo chilo di salame Marina Tichonovna Isajčik: «Con quello che costa adesso una bottiglia di vodka, un tempo ci compravi il cappotto. E per mangiare? Mezzo chilo di salame costa la metà della mia pensione».

Svalutazione Se nel 1988 un dollaro si acquistava con 6,5 rubli, nel 2008 ce ne volevano 36,45.

I cantieri del comunismo Marina Tichonovna Isajčik: « Mio marito e io siamo andati in Siberia. Nei cantieri del comunismo. [...] Costruivamo la tratta ferroviaria Abakan-Tajšet. Ci avevano trasportati laggiù su dei vagoni merce: due file di tavolacci a castello, senza materassi né lenzuola, come cuscino il proprio pugno. Nel pavimento un foro e per il bisogno grosso un secchio, schermato, quando serviva, reggendo un drappo. Quando il convoglio si fermava in mezzo ai campi, si raccoglieva più fieno che si poteva: il nostro giaciglio! Nei vagoni non c’era illuminazione, ma abbiamo cantato canzoni komsomoliane per tutto il viaggio! A squarciagola... Abbiamo viaggiato sette giorni... E siamo arrivati! La tajga più remota, la neve alta come noi. Presto ci siamo presi lo scorbuto, con tutti i denti che dondolavano. I pidocchi. Ma la norma... caspita se la completavamo! (la norma, cioè la quota di produzione assegnata al lavoratore nella giornata, ndr). Gli uomini, quelli che sapevano cacciare, andavano per orsi. Così avevamo della carne in pentola, altrimenti pappe e ancora pappe di semola. [...] Vivevamo in baracche senza docce né bagni. D’estate andavamo in città e ci lavavamo nelle fontane... (Ride.)».

Putsch 1 Il tentativo, fallito, nei giorni dal 19 al 21 agosto 1991, di una svolta restauratrice rispetto alle riforme avviate dalla perestrojka; fu attuato dai più stretti collaboratori di Gorbačëv, e contrastato da El’cin e un ampio movimento di popolo che nessuno osò soffocare con la forza. Ne conseguirono: la presidenza El’cin, lo scioglimento del partito comunista e la dissoluzione dell’Urss.

Putsch 2 Una russa sui giorni del putsch: «Una mattina mamma mi sveglia: ‘Abbiamo i carri armati sotto casa! Pare ci sia un colpo di Stato!’ Le ho risposto nel dormiveglia: ‘Mamma, saranno esercitazioni.’ Col cavolo! Sotto le nostre finestre si erano piazzati dei veri carri armati, non li avevo mai potuti vedere così da vicino. Alla televisione stavano trasmettendo il balletto Il lago dei cigni... [...] L’annunciatrice ha letto la Dichiarazione che proclamava lo stato d’emergenza... L’amica di mamma sussultava a ogni parola: ‘Oddio! Oddio!’ Mio padre sputava verso il televisore... [...] ‘Andiamo alla Casa Bianca?’‘Andiamo!’ Mi sono appuntata il distintivo con Gorbačëv. Ho preparato dei panini imbottiti. Nella metropolitana la gente non aveva voglia di parlare, tutti si aspettavano il peggio. Carri armati... carri armati dappertutto... Quelli seduti sulle blindature non erano assassini ma ragazzi impauriti dall’aria un po’ mogia. Delle vecchiette davano loro da mangiare uova sode e frittelle. Ci siamo sentiti sollevati quando davanti alla Casa Bianca abbiamo visto decine di migliaia di persone! Il morale era alle stelle. Ci sembrava di poter finalmente decidere della nostra vita. Scandivamo: ‘El’cin, El’cin! El’cin!’».

Putsch 3 Anna Il’inična, che scese in piazza a difendere Gorbačëv, come migliaia di russi, nei giorni del putsch: «Persone disarmate di fronte ai carri armati e pronti a morire. Io ero su queste barricate e ho visto questa gente venuta da ogni parte del paese. Certe vecchiette moscovite, fragili e trepide, portavano polpettine e patate calde avvolte in asciugamani. Rifocillavano tutti indistintamente... anche i carristi: ‘Mangiate, ragazzi. Però non sparate. Davvero sparerete?’ I soldati non ci capivano più niente... Quando avevano aperto gli sportelli per uscire dai carri, erano rimasti sbalorditi. C’era tutta Mosca nelle vie! [...] E quando hanno annunciato che i putschisti erano stati arrestati, abbiamo cominciato ad abbracciarci, eravamo al colmo della felicità! La nostra parte aveva vinto!».

Cavoli e cipolle Una russa: «Quando nel 1956 avevano restituito a nonna e mamma il padre liberato da un campo di lavoro forzato in Kazakistan, questi era un sacco d’ossa [...] Mia nonna temeva più di ogni altra cosa un nuovo Stalin e la guerra. Ha passato l’intera vita a prepararsi all’arresto e alla fame. Coltivava cipolle in cassette sul davanzale della finestra e marinava grandi quantità di cavoli in pentoloni. Faceva provviste di zucchero e olio. Avevamo i soppalchi di casa stipati di semole e granaglie. Orzo perlato. Mi raccomandava continuamente: ‘Taci! Taci! Non dire niente a scuola... Non dire niente all’università...’ Sono cresciuta così, con queste persone... Non avevamo motivo di amare il potere sovietico. Eravamo tutti per El’cin!».

Bambini nei barili Anna M., architetto, cresciuta ai tempi di Stalin «in un lager in Kazakistan, il Karlag, e dopo il lager al confino. Sono vissuta in un orfanotrofio e poi in un ostello e infine in un appartamento di coabitazione. [...] Nel lager sono vissuta con mia madre fino ai tre anni. La mamma mi avrebbe poi raccontato che molti bambini piccoli morivano. In inverno mettevano i bambini morti in grandi barili e ce li lasciavano fino alla primavera. In balia dei ratti. In primavera si provvedeva... alla sepoltura... di quel che rimaneva. A tre anni i bambini venivano tolti alle madri e sistemati nelle baracche per i bambini. [...] La mattina attraverso il filo spinato vedevamo le nostre mamme: le contavano e accompagnavano al lavoro. Le mandavano in una zona dove ci era proibito andare...».

Orfanotrofio Anna M., architetto, sulla vita in orfanotrofio ai tempi di Stalin: «In classe ci insegnavano prima di tutto ad amare il compagno Stalin. La prima lettera della nostra vita era indirizzata a lui, al Cremlino. Avevamo appena imparato le lettere dell’alfabeto, ci hanno distribuito dei fogli bianchi e ci hanno dettato una lettera alla nostra buona, alla nostra amata Guida. L’amavamo molto ed eravamo sicuri che ci avrebbe risposto e ci avrebbe mandato dei regali. [...] Tutte le sere lo stesso ordine: ‘Mani giunte sotto la guancia e voltarsi sul fianco destro.’ Dovevamo eseguire l’ordine tutte insieme nello stesso istante».

Karaganda A Karaganda (Kazakistan), una steppa vuota che si estende per centinaia di chilometri, d’estate tutta bruciata, sotto Stalin erano stati costruiti decine di lager: «Lì erano stati portati centinaia di migliaia di zek... I detenuti... gli schiavi sovietici. Quando è morto Stalin, le baracche sono state distrutte, il filo spinato è stato tolto ed è diventata una città» (Anna M).

Ossa tra le patate Con i mattoni delle baracche dei lager a Karaganda la gente poi «si è costruita delle rimesse, delle saune. I terreni sono stati venduti per costruirci delle dacie. Con il filo spinato hanno delimitato gli orti. Mio figlio ha un piccolo appezzamento qui... Ma, capirà, non è molto piacevole... In primavera, con le piogge e con lo scioglimento delle nevi, in mezzo alle patate riaffiorano le ossa» (un vecchio)

Ritratto Stalin solito ripetere: «Non sono io a decidere, è il Partito». A suo figlio diceva: «Credi che Stalin sia io? No! Stalin è lui!». E mostrava il suo ritratto sulla parete.

Libri Elena Jur’evna S., terzo segretario di un comitato regionale del partito, 49 anni: « [...] all’inizio della perestrojka, non lo dimenticherò mai. Erano pronti a linciare i comunisti, a deportarli... I libri di Majakovskij e di Gor’kij finivano nei cassonetti della spazzatura... Consegnavano per il macero le opere complete di Lenin. [...]».

Tessere 1 Elena Jur’evna S. a proposito dei giorni che seguirono il putsch dell’agosto 1991: «Di punto in bianco, quelli che ormai si proclamavano comunisti hanno cominciato a dichiarare di aver sempre detestato il comunismo fin da quando erano in fasce. Hanno restituito le tessere... Alcuni ce la lasciavano sul tavolo senza una parola, altri se ne andavano sbattendo la porta. Ma c’era anche chi la gettava sul marciapiede davanti all’edificio del rajkom, nottetempo... [...]È anche vero che qualcuno non si sbarazzava del proprio libretto rosso ma lo nascondeva, serbandolo per ogni evenienza. Recentemente in una famiglia mi hanno mostrato un busto di Lenin tirandolo giù dal soppalco. Lo conservano. Non si sa mai, può ancora servire a qualcosa... Se dovessero tornare i comunisti loro sarebbero i primi a esibire un fiocco rosso».

Tessere 2 Elena Jur’evna S.: «Una donna semplice, una mungitrice, quando è arrivata nel mio ufficio ha cominciato a piangere: ‘Cosa devo fare? Lei cosa mi consiglia? Sui giornali scrivono che bisogna gettar vie le tessere.’ Si giustificava dicendo che aveva tre figli e temeva per loro. Circolavano delle voci secondo le quali i comunisti sarebbero stati processati. Deportati. E che in Siberia stavano già riattando le vecchie baracche... Che la milizia aveva ricevuto una fornitura di manette... qualcuno aveva visto che le scaricavano da autocarri col cassone coperto».

Ultimi anni del socialismo Elena Jur’evna: «Gli ultimi anni sovietici... Cosa ricordo? Un insormontabile senso di vergogna. Vergogna per quel Brežnev tappezzato di medaglie e decorazioni e per il soprannome dato dalla gente al Cremlino di ‘casa di riposo per anziani comfort assicurato’. Vergogna per i negozi vuoti. I piani economici venivano completati e superati ma i banchi dei negozi continuavano a restare vuoti. Dov’era il nostro latte? La carne? Neanche adesso riesco a capire dove andasse a finire tutta quella roba. Un’ora dopo l’apertura dei negozi, il latte era già esaurito. Da mezzogiorno le venditrici se ne stavano a girarsi i pollici accanto ai banchi appena lavati. Sugli scaffali c’erano solo barattoli da tre litri di succo di betulla e pacchetti di sale, chissà perché sempre bagnati. E acciughe in scatola. E nient’altro! Quando lanciavano sul mercato del salame, andava a ruba, e spariva in men che non si dica. Wurstel e ravioli erano considerati delle specialità gastronomiche. Al comitato regionale eravamo sempre lì a ripartire le disponibilità: alla tal fabbrica dieci frigoriferi e cinque pellicce, al tal kolchoz, due assortimenti iugoslavi di mobili e dieci borsette da signora polacche. Dividevamo pentole e biancheria intima femminile... collant... Una società del genere avrebbe potuto reggersi solo sulla paura. Sullo stato d’emergenza: con sempre più esecuzioni, sempre più gente in galera. Ma con le Solovki e il Belomorkanal (“Canale Mar Bianco-Mar Baltico”, lungo 230 km, costruito tra il 1931 e il 1933, in 20 mesi da quasi 300.000 detenuti, uomini e donne; ne morì un terzo, ndr) il socialismo era finito. Ci voleva una qualche altra forma di socialismo».

Tè coi tramezzini Elena Jur’evna S. : «Anche da noi... certo... al comitato regionale abbiamo sempre parlato molto di Stalin. C’è al riguardo tutta una mitologia del partito, che si tramanda da una generazione all’altra. E tutti rievocavano volentieri la vita ai tempi del Padrone. C’erano determinate regole, ad esempio ai capidipartimento spettava il tè coi tramezzini, e ai conferenzieri tè senza niente. Quando è stata introdotta la mansione di vicecapodipartimento, è sorto il problema di come fare. E si è deciso di servire loro tè senza tramezzini, ma su un tovagliolo bianco. Era un segno di distinzione...».

Lager Elena Jur’evna S., a proposito del padre che dopo la campagna di Finlandia fu messo ai lavori forzati, per sei anni, in un lager a Vorkuta (nei lager della Vorkuta, regione degli Urali artici, finirono nel 1940 decine di migliaia di ex prigionieri sovietici rilasciati dai finlandesi dopo la fine della guerra): «Davano loro tre volte al giorno una scodella di sbobba e come pane una pagnottona ma da dividere in venticinque. Dormivano con un tronchetto sotto la testa, e delle assi stese per terra invece del materasso. [...] Nel lager per qualche tempo l’avevano adibito al trasporto dei cadaveri. C’erano da dieci a quindici morti al giorno. I vivi rientravano dal lavoro nelle baracche a piedi e i morti in slitta. C’era l’ordine di svestire i cadaveri che erano distesi tutti nudi sulle slitte, come conigli spellati. Lo dico con le parole di papà...».

Comunisti «I comunisti non sono più quelli di prima. Abbiamo dei comunisti con un reddito di centinaia di migliaia di dollari all’anno. Dei milionari! Con un appartamento a Londra... un palazzo a Cipro... Che comunisti sarebbero? In che cosa credono?» (Elena Jur’evna S.).

Nemici del popolo Nel 1937 c’era un piano che fissava il numero dei «nemici del popolo da smascherare ed estirpare», assegnandone le quote sul territorio.

Grande Terrore Gli anni Trentasette e Trentotto rappresentano il culmine di quello che è stato denominato il “Grande Terrore” con l’imprigionamento e l’esecuzione di centinaia di migliaia di cittadini (in due anni 600.000 solo in base ai dati dell’Nkvd, che non tengono conto delle morti nei campi di lavoro forzato e nei luoghi di deportazione).

Corvo nero Corvo nero, in russo cërnyj voron: furgoni per il trasporto dei detenuti, anche divisi in minuscole gabbie individuali; durante il “Grande Terrore” per non allarmare la restante popolazione con l’eccessivo andirivieni di questi “uccelli del malaugurio” si cominciò a mascherarli da furgoni per il trasporto di merci con le scritte “Pane”, “Carne”, ecc.

Stalinista Margarita Pogrebickaja, medico: «Amavo Stalin... L’ho amato a lungo. Anche quando hanno incominciato a scrivere che era basso di statura, rosso di pelo, con una mano rattrappita. E che aveva ammazzato la moglie. Anche quando ne hanno distrutto il mito. E hanno buttato lui fuori dal mausoleo. Ho continuato comunque ad amarlo. Sono stata a lungo una piccola stalinista. Molto a lungo. Proprio così! Lo sono stata io, e con me molti come me... E senza quella vita di allora, sono rimasta a mani vuote. Senza più niente... una miserella!»

Ucraini Margarita Pogrebickaja, medico: «Erano gli anni Trenta... la collettivizzazione... In Ucraina c’era una grande carestia – in ucraino Holodomor. Sono morti a milioni... interi villaggi... Non c’era più nessuno per seppellire le vittime... Gli ucraini venivano ammazzati perché si rifiutavano di entrare nei kolchozy. Li hanno fatti morire di fame. Adesso lo so... [...] Avevano loro tolto ogni cosa, fino all’ultima briciola... Li avevano circondati con le truppe, come in un unico, immenso campo di concentramento... Adesso lo so... In ufficio ho fatto amicizia con una collega ucraina che ha sentito raccontare queste cose da sua nonna... Nel loro villaggio una madre aveva fatto a pezzi con l’accetta uno dei suoi figli per cucinarlo e sfamare gli altri. Il proprio bambino... Sono cose realmente accadute... Si aveva paura a lasciar allontanare i bambini dall’aia. Perché non venissero acchiappati. Come i cani o i gatti. E i piccoli scavavano la terra dell’orto di casa per trovare i lombrichi e mangiarli. Chi poteva, si trascinava in città, verso la ferrovia. Speravano che qualcuno buttasse loro dai finestrini una crosta di pane... I soldati li respingevano a pedate o col calcio dei fucili».

Lituani Un russo: «Io sono comunista... Nel 1989 sono stato mandato a Vilnius per lavoro. Prima della partenza mi ha convocato nel suo ufficio l’ingegnere-capo della fabbrica, il quale era già stato da quelle parti non molto tempo prima. Intendeva mettermi in guardia: ‘Non rivolgerti a loro in russo. Se parli russo non riesci neanche a farti dare una scatola di fiammiferi in un negozio. Il tuo ucraino non l’hai dimenticato, vero? Ecco parla piuttosto in ucraino. Io non gli ho creduto – che cosa mi stava raccontando? Ma lui ha insistito: ‘Sta’ attento anche quando vai alla mensa, ti possono avvelenare o metterti nel cibo del vetro macinato. Quelli ormai ti considerano un occupante, hai capito?’ Ma io ero ancora fermo all’amicizia tra i popoli e roba del genere. La fraternità sovietica. Sono rimasto scettico, almeno finché non sono arrivato alla stazione di Vil’nius. Non appena ho calcato la banchina, fin dal primo istante e dalle mie prime parole in russo, mi hanno fatto capire che ero arrivato in un altro paese, che ero uno straniero e un occupante. Venuto da una Russia sporca e arretrata. Un Ivan russo. Un barbaro».

Patriota «Io sono un patriota... Stiamo vivendo l’epoca più vergognosa della nostra storia. Siamo una generazione di vigliacchi e traditori. Sarà questa la sentenza che pronunceranno contro di noi i nostri figli. Diranno: ‘I nostri genitori hanno venduto un grande paese per dei jeans, delle Marlboro e della gomma da masticare.’ Non abbiamo saputo difendere l’Urss – la nostra Patria. È un crimine spaventoso. Ci siamo svenduti tutto! Non mi abituerò mai al tricolore russo, avrò sempre davanti agli occhi la bandiera rossa» (un russo).

Pappa di semola N., che aveva un incarico nell’apparato del Cremlino: «Il Cremlino aveva un suo cuoco. Tutti i membri del Politburo gli ordivano aringa marinata, lardo, caviale nero, ma Gorbačëv puntava sempre alla pappa di semola. Le insalatine. Chiedeva espressamente di non servirgli il caviale: ‘Col caviale ci sta bene la vodka e io non bevo.’ Lui e Raisa Maksimovna si attenevano a delle diete con digiuni intermittenti. In generale anche nella vita privata era completamente diverso dai segretari generali che l’avevano preceduto, il suo stile non era quello solito sovietico. Amava teneramente sua moglie. Passeggiavano tenendosi per mano. Invece El’cin, per dire, si faceva il suo bicchiere di vodka accompagnato da un cetriolo già al mattino. Questo sì che era russo!».

Berretti di topo muschiato N., che aveva un incarico nell’apparato del Cremlino: «... Prima di Gorbačëv il popolo vedeva i nostri leader solo in piedi sulla tribuna del mausoleo: berretti di topo muschiato e facce di pietra. C’è una battuta in propositi: ‘Come mai sono spariti i berretti di topo muschiato?’ – ‘Perché la nomenklatura si moltiplica più in fretta dei topi muschiati.’ (Ride.) Da nessuna parte si raccontavano tante barzellette come al Cremlino. Barzellette politiche... antisovietiche...».

Accelerazione N., che aveva un incarico nell’apparato del Cremlino: «La perestrojka... Non ricordo esattamente ma mi sembra proprio di aver sentito per la prima volta questa parola all’estero, da qualche giornalista occidentale. Da noi si preferiva parlare di ‘accelerazione’, di ‘via leninista’. Ma all’estero era iniziato il boom di Gorbačëv e il mondo intero era in preda alla ‘gorbymania’. Hanno cominciato a etichettare come perestrojka tutto quello che succedeva da noi. Ogni cambiamento. Quando passava il corteo di macchine di Gorbačëv, migliaia di persone si assiepavano sui marciapiedi per vederlo sfilare. Commozione, sorrisi. Me ne ricordo bene. Hanno cominciato a volerci bene. Il Kgb non faceva più paura come prima e soprattutto era stata dichiarata la fine della follia nucleare... E per questo il mondo ci era grato. Per decenni avevamo vissuto tutti, anche i bambini, nella paura di una guerra atomica. Ci eravamo abituati a scrutarci dalle rispettive trincee. Attraverso un mirino... (Pausa.) Nei paesi europei hanno incominciato a studiare la lingua russa... e a servire pietanze russe nei ristoranti: boršč, pel’meni...».

Segretario termale N., che aveva un incarico nell’apparato del Cremlino: «I sostenitori di Gorbačëv, i quali condividevano le sue idee, erano numerosi nel paese, ma non nella nomenklatura. Sia a livello del Comitato centrale, sia nei comitati regionali... Lo chiamavano ‘Segretario termale’ perché l’avevano fatto venire a Mosca da Stavropol’, capoluogo di una regione ricca di centri di cura e villeggiatura dove i segretari generali e i membri del Politburo amavano passare le acque. Gli altri soprannomi di ‘Segretario minerale’ e quello che tirava in ballo sua madre e i succhi di frutta se li era meritati con la campagna contro gli alcolici».

Lusso N., che aveva un incarico nell’apparato del Cremlino: « Gorbačëv amava vivere nel lusso... A Foros s’era fatto costruire una villa con marmi provenienti dall’Italia, piastrelle dalla Germania... la sabbia per la spiaggia dalla Bulgaria... Nessun leader politico occidentale di allora aveva niente del genere. Confronto alla villa di Gorbačëv la residenza estiva di Stalin in Crimea ricorda un pensionato studentesco».

Barattoli di cicche Un russo: «La perestrojka... [...] Di lì a un anno è stato chiuso il nostro ufficio di progettazione e mia moglie e io ci siamo ritrovati senza lavoro. Come abbiamo fatto a tirare avanti? Abbiamo venduto per strada tutto quello che si poteva vendere. Cristalleria, oro sovietico e quello che avevamo di più prezioso: i nostri libri. Per settimane e settimane abbiamo mangiato unicamente purè di patate. Poi mi sono trovato un business. Vendevo al mercato ‘cicche’ di sigaretta, cioè mozziconi di sigarette fumate a metà. Barattoli di cicche da un litro... da tre litri... erano questi i formati... I genitori di mia moglie (ex insegnanti) le raccoglievano per strada e io le vendevo. E gli acquirenti non mancavano. Le fumavano. E io stesso le fumavo. Mia moglie faceva le pulizie negli uffici. Per un certo periodo abbiamo servito ravioli espressi nel chiosco di un tagiko. Abbiamo pagato a caro prezzo la nostra ingenuità di allora. Noi tutti... Adesso mia moglie e io alleviamo polli, lei piange in continuazione. Ah, se potessimo tornare indietro... E non lanciatemi le pietre... Non è nostalgia per quel salame grigiastro a due rubli e venti copechi».

Odore di sugo Un russo: «Erano gli anni sovietici, comunisti... Ci educavano nel culto di Lenin, dei rivoluzionari ardenti, [...] Non tutti avevano i frigoriferi e i barattoli col latte si tenevano sul balcone. E dagli sportelli soprafinestra dondolavano le reticelle con i polli. Tra i doppi vetri si mettevano delle mele belle rosse e del cotone cosparso di lustrini per bellezza. Odore di gatto dalle cantine... E poi chi non ricorda quell’inimitabile odore, di strofinaccio e cloro, delle tavole calde sovietiche? Sembrano tutte cose non legate tra loro ma per me sono confluite in un’unica percezione. Un senso. Invece la libertà ha altri odori... altre immagini... tutta un’altra cosa... Dopo il suo primo viaggio all’estero... già ai tempi di Gorbačëv... un mio amico mi ha detto appena ci siamo rivisti. ‘La libertà ha l’odore di un buon sugo.’ Io stesso non potrò mai dimenticare il primo supermercato che ho visto a Berlino – centinaia di tipi diversi di salumi e formaggi. Qualcosa di inimmaginabile».

Mutandate Un russo: «Gli anni gorbacioviani... Libertà e tessere di razionamento... Buoni e bollini per qualsiasi cosa... dal pane alla semola, ai calzini. Te ne stai in piedi a far la coda anche cinque o sei ore, ma almeno sei in compagnia di un libro che prima non potevi acquistare e sai che alla sera daranno in televisione un film, che prima era proibito e che per dieci anni è rimasto a impolverarsi su una mensola. Uno sballo! [..] Poi è accaduto qualcosa... Siamo tornati coi piedi per terra. Quella sensazione di felice euforia si è dissipata. Completamente, senza traccia. Ho capito che quel nuovo mondo non era, non poteva essere il mio. Era fatto per
gente di tutt’altro tipo. Dàgli ai deboli, prendili a calci in mezzo agli occhi! Quelli che erano in basso si sono ritrovati in alto... In una parola, un’altra rivoluzione... Ma con degli scopi terra-terra: un cottage e una macchina per tutti. Non è un po’ meschino come ideale? [...] Mia madre lavorava come sarta capo in una fabbrica di abbigliamento. Presto... molto presto... la fabbrica ha chiuso... mamma è rimasta a casa a confezionare biancheria intima femminile. Come tutte le sue amiche ed ex colleghe. [...] Per i costumi da bagno... da tutti i vecchi indumenti, propri o di conoscenti ai quali si chiedeva il favore, venivano staccate le etichette, preferibilmente di griffe straniere e applicate ai capi ‘di casa’. Poi le donne formavano dei gruppi e percorrevano la Russia coi loro sacchi di mercanzia, queste spedizioni si chiamavano ‘mutandate’».

Bucce di patate Un russo sugli anni gorbacioviani: «Allora stavo preparandomi al dottorato. (Con allegria.) Ricordo... un vero circo... la biblioteca universitaria e l’ufficio del preside erano ingombri di botticelle e bigonci di cetrioli e pomodori marinati, funghi... cavoli. Li si vendeva per pagare lo stipendio ai docenti. Oppure, di punto in bianco, la facoltà veniva sommersa di arance. Si sono viste anche paccate di camicie da uomo... La grande intellighenzia russa sopravviveva come poteva. Si riesumavano le ricette della nonna... Negli angoletti fuori mano dei parchi pubblici... sulle scarpate erbose della ferrovia si seminavano le patate... Quando ci si nutre per settimane e settimane di sole patate, si può parlare di carestia? O di soli crauti?... Dal disgusto non li ho più potuti vedere neanche da lontano per tutta la vita. Abbiamo inventato il modo di preparare delle chips dalle bucce di patate e messo in circolazione la miracolosa ricetta: scottare le bucce in olio di girasole bollente e ben salato. Non c’era latte ma vendevano gelati alla crema e così facevamo cuocere la pappa di semola nel gelato. Non so se oggi la mangerei».

Sua Maestà il Salame Vasilij Petrovič N., membro del partito comunista dal 1922: «Mi sento come un reperto archeologico dimenticato nei depositi di un museo. Un cranio impolverato. Avevamo un grande impero che si estendeva da un oceano all’altro, dal circolo polare artico ai tropici. Che fine ha fatto? È stato sconfitto, senza bisogno della bomba... senza un’Hiroshima. È bastata Sua Maestà il Salame! Ha vinto l’Abbuffata generale. E la Mercedes-Benz. All’uomo non serve altro, non offritegli niente più di questo, non è il caso, solo pane e spettacoli!».

Matrimoni komsomoliani Vasilij Petrovič N., membro del partito comunista dal 1922: «Organizzavamo i matrimoni komsomoliani, senza candele e senza corone nuziali. Senza preti. Invece delle icone i ritratti di Lenin e Marx. La mia fidanzata aveva dei lunghi capelli e li ha tagliati per il matrimonio. Disprezzavamo il bello. Naturalmente era sbagliato. Quello che si dice una deviazione estremista... [...] Quando ci è nato un figlio l’abbiamo chiamato Ottobre. In onore del decimo anniversario della Grande Rivoluzione d’Ottobre. Volevo anche una figlia. ‘Se vuoi da me un secondo bambino vuol dire che mi ami davvero,’ diceva scherzando mia moglie ‘e come vogliamo chiamarla questa bambina?’ A me piaceva il nome Ljublena, composto da ‘io amo’ e ‘Lenin’. Mia moglie ha elencato su un foglio tutti i nomi femminili che le piacevano: Marxana, Stalina, Engelsina... [...] I nomi allora più in voga. Conservo tuttora quel foglio in fondo a un cassetto...».

Bolscevichi Vasilij Petrovič N., membro del partito comunista dal 1922: «Il primo bolscevico che ho visto... è stato nel mio villaggio...Un giovane studente infagottato in un pastrano militare. Teneva un discorso sulla piazza della chiesa. ‘Adesso alcuni vanno in giro con gli stivali di cuoio e altri coi calzari di corteccia. Quando ci sarà il potere sovietico, tutti diventeranno uguali.’ I contadini gridavano: ‘E come può essere?’, ‘Verrà un tempo in cui le vostre mogli potranno indossare abiti di seta e scarpette coi tacchi. Non ci saranno ricchi e poveri e tutti saranno felici.’ Mia madre avrà un abito di seta, e la mia sorellina le scarpette coi tacchi... Io potrò studiare... Vivremo tutti come fratelli, saremo tutti guali. Come non appassionarsi a un tale sogno? I poveri, tutti quelli che non possedevano niente, hanno creduto ai bolscevichi. E li hanno seguiti anche i giovani. Sfilavamo in corteo per le strade e gridavamo: ‘Giù le campane, facciamone trattori!’(negli anni Venti e Trenta le campagne di rottamazione di campane, arredi e suppellettili, oggetti per le funzioni utili a ricavarne metallo, era con la chiusura delle chiese, una pratica che doveva impegnare tutti gli ambienti e istituzioni sociali, ndr) Riguardo a Dio, sapevamo una cosa sola: che non esiste. Schernivamo i preti, facevamo a pezzi con le accette le icone nelle case. Invece delle processioni dietro la croce, le manifestazioni con le bandiere rosse...».

Ebrei venduti ai tedeschi Un ebreo a proposito della Russia ai tempi della Seconda guerra mondiale: «Gli ebrei fuggivano a centinaia dai ghetti e vagavano per i boschi. I contadini li catturavano e li vendevano ai tedeschi in cambio di un pud di farina o un chilo di zucchero».

Giudei Un ebreo a proposito della Russia ai tempi della Seconda guerra mondiale: «La parola ‘giudeo’ l’ho sentita la prima volta all’inizio della guerra... I nostri vicini di casa erano venuti a bussare alla nostra porta, gridando: ‘Siete finiti, giudei! Pagherete per Cristo!’ Io ero un ragazzo sovietico di dodici anni. Avevo appena terminato il primo ciclo scolastico. Non riuscivo a capire di cosa parlassero. Perché usavano certe parole? Neppure ora lo capisco... La nostra era una famiglia mista. Mio padre era ebreo e mia madre russa. Festeggiavamo la Pasqua cristiana, ma alla nostra maniera: mamma diceva che era il compleanno di una brava persona e cuoceva una torta. E per Pesah (quando il Signore aveva avuto pietà degli ebrei) mio padre ci portava il matzah (pane azzimo) preparato dalla nonna.

Stella gialla Un ebreo a proposito della Russia ai tempi della Seconda guerra mondiale: «La mamma aveva cucito per tutti delle stelle gialle... Per alcuni giorni non eravamo potuti uscire di casa. Ci vergognavamo... Io sono vecchio, ma ricordo ancora quella sensazione... Come ci vergognavamo... In tutta la città erano comparsi dei volantini: ‘Liquidate i commissari e i giudei!’, ‘Salvate la Russia dal potere dei giudeo-bolscevichi!’».

Ghetto Un ebreo a proposito della Russia ai tempi della Seconda guerra mondiale: «Ricordo perfettamente il giorno del nostro trasferimento nel ghetto. Gli ebrei attraversavano a migliaia la città... Con i loro figli, i cuscini... È ridicolo, ma avevo preso con me la mia collezione di farfalle. Adesso può sembrare ridicolo ma allora... I cittadini di Minsk si erano riversati sui marciapiedi: alcuni ci guardavano con curiosità, altri con una gioia maligna, ma tra loro c’era anche gente che piangeva. Non mi guardavo quasi intorno, temendo di vedere dei ragazzi che conoscevo. Provavo vergogna... Ricordo un costante senso di vergogna... ».

Case depredate Un ebreo a proposito della Russia ai tempi Seconda guerra mondiale: «Dei contadini muniti di grandi sacchi vegliavano davanti al ghetto. Giorno e notte. Aspettavano l’ennesimo pogrom. Quando portavano via gli ebrei per fucilarli, veniva consentito alla gente di depredare le loro case abbandonate. La Polizei le setacciava in cerca di qualche oggetto prezioso e i contadini infilavano nei sacchi tutto ciò che restava. ‘Tanto a voi non serviranno più,’ ci dicevano».

Bambini nelle fosse Un ebreo a proposito della Russia ai tempi Seconda guerra mondiale: «Avevano scelto quelli di noi che erano più in forze e avevano ordinato loro di scavare due fosse. Profonde. E noi altri stavamo lì ad aspettare. Hanno cominciato col gettare in una fossa per primi i bambini più piccoli... E poi l’hanno ricoperta di terra... I genitori non supplicavano, né piangevano più. [...] Quando un uomo viene assalito da un lupo, non può certo pregarlo, né supplicarlo di risparmiargli la vita. [...] I tedeschi guardavano la fossa ridendo e ci lanciavano dentro dei cioccolatini. Gli agenti della Polizei erano ubriachi fradici... Avevano le tasche piene zeppe di orologi... Hanno sotterrato i bambini. [...] Ho ripreso conoscenza quando qualcuno mi ha colpito con forza sulla gamba con un oggetto appuntito. E ho gridato dal dolore. Ho sentito bisbigliare. ‘Qui ce n’è uno ancora vivo.’ Dei contadini stavano scavando nella fossa con le pale per sfilare stivali e scarpe ai cadaveri... Li spogliavano di tutto ciò che potevano portar via... Mi hanno aiutato a risalire in superficie. Mi sono seduto sul bordo della fossa e ho aspettato, aspettato... La terra era tiepida. Hanno tagliato per me un pezzo di pane: ‘Scappa, piccolo giudeo. Forse puoi ancora salvarti.’».

Vivere alla tedesca Una russa: «Sotto i tedeschi vivevamo meglio che sotto il potere sovietico. I tedeschi avevano riaperto le chiese, liquidato i kolchoz e distribuito la terra: due ettari a persona e un cavallo ogni due proprietari. Avevano introdotto un’imposta in natura uguale per tutti: in autunno consegnavamo il grano, i piselli, le patate e un maialetto a famiglia. E ci restava ancora qualcosa. Eravamo soddisfatti. Sotto il potere sovietico vivevamo in miseria. Il brigadiere segnava con un’asta nel quaderno le giornate lavorate. In autunno per queste giornate non avevi diritto a un fico secco! E invece ora avevamo carne e burro. Era tutta un’altra vita! Le persone erano contente di essere libere. I tedeschi avevano introdotto le loro regole... Se non avevi dato da mangiare al cavallo venivi preso a staffilate. Se non avevi spazzato davanti a casa... Ricordo che la gente diceva: ci siamo abituati ai comunisti, ci abitueremo anche ai tedeschi. Impareremo a vivere alla tedesca».

Bagni d’oro Una russa: «Ho cinquant’anni... Cerco di non comportarmi da sovok, ma non mi riesce. Lavoro per un imprenditore privato e lo detesto. Sono contraria alla spartizione della torta sovietica, alla ‘privatizzazione da rapina’. Non mi piacciono i ricchi che vanno a vantarsi in televisione dei loro palazzi, delle loro cantine piene di vini... Se ne stiano pure ammollo nelle loro vasche colme di latte materno nei loro bagni d’oro. Ma perché devono mostrarceli? Non so vivere accanto a loro. È mortificante. Ormai non cambierò più. Ho vissuto troppo a lungo sotto il socialismo. Forse la vita oggi è migliore, ma è senz’altro più disgustosa».

Idea russa Un russo: «Abbiamo un’unica via d’uscita: tornare al socialismo, ma a un socialismo di tipo ortodosso. La Russia non può vivere senza Cristo. Per i russi la felicità non coincide con il possedere tanto denaro. È ciò che distingue l’‘idea russa’ dal ‘sogno americano’».

Natura da schiavi «Il nostro problema non sono Elc’in, né Putin, ma la nostra natura da schiavi. La nostra animuccia servile! Il nostro sangue da schiavi! Prendi i ‘nuovi russi’... Scendono dalle loro Bentley, i soldi gli escono dalle tasche, ma sono schiavi. Sopra tutti c’è sempre un boss che ordina: ‘Andate nella stalla!’ E tutti ci vanno».

Ingiusto «Da noi il capitalismo è ingiusto» (un russo)

Legge di Darwin Una russa: «Ai tempi del socialismo mi avevano promesso che tutti avremmo avuto un posto sotto il sole. Ora dicono il contrario: che bisogna vivere secondo le leggi di Darwin e che allora ci sarà l’abbondanza. L’abbondanza per i più forti. Ma io appartengo alla schiera dei deboli. Non sono una combattente... Avevo il mio schema ed ero abituata a vivere secondo quello schema: prima la scuola, poi l’università e la famiglia. Io e mio marito risparmiavamo per comprare un appartamento in una cooperativa e dopo l’appartamento il televisore... Ma hanno distrutto quello schema. Ci hanno gettati nel capitalismo... Sono laureata in ingegneria, lavoravo in un istituto di ricerca, lo chiamavano l’‘istituto femminile’ perché eravamo tutte donne. Stavo seduta tutto il giorno a riordinare carte, a me piaceva fare in modo impeccabile il mio lavoro, che le pile fossero ben dritte. Sarei rimasta lì tutta la vita. Ma hanno cominciato a licenziare... Gli uomini non li toccavano, erano pochi, e così le ragazze madri e quelli a cui mancava solo un anno o due alla pensione. Hanno affisso le liste, ho visto il mio nome... Come
avrei fatto a tirare avanti? Ero sgomenta. Nessuno mi ha mai insegnato a vivere secondo le leggi di Darwin».

Protestare «Quando sono nata l’Unione Sovietica non esisteva più. Se c’è qualcosa che non mi piace, scendo in piazza a protestare. Non mi limito a discuterne in cucina prima di andare a letto» (una ragazza russa)

Armena Margarita K., profuga armena, 41 anni, nata e cresciuta a Baku (ora vive a Mosca): «A Baku vivevamo in una grande casa... C’era un grande cortile e nel cortile cresceva un gelso che faceva delle more di colore giallo. Le sue more erano così squisite! Vivevamo tutti insieme, come una sola famiglia, azeri, russi, armeni, ucraini e tatari... Tutti avevano la stessa nazionalità, quella sovietica, tutti conoscevano il russo».

Festa armena Margarita K., profuga armena: «La festa più bella e più amata era il Navruz. Il Navruz Bajram, il giorno dell’arrivo della primavera. Aspettavamo questa festa tutto l’anno e la celebravamo per sette giorni. Per sette giorni lasciavamo aperti i cancelli e le porte di casa... Non chiudevamo né serrature, né chiavistelli... I falò ardevano sui tetti e nei cortili. Tutta la città era piena di falò! Gettavamo nel fuoco della ruta profumata per propiziare la felicità, recitando formule magiche: ‘Sarylygin sene, gyrmyzylygin mene’ (Tutte le sventure a te, tutta la gioia a me). Tutti si scambiavano delle visite e ovunque gli ospiti venivano accolti con del plov al latte, con cannella e cardamomo e tè rosso. E il settimo giorno, il più solenne della festa, tutti si riunivano insieme... attorno a un’unica tavola... Ciascuno portava nel cortile la propria sedia e si formava una sola tavola lunga lunga. Sul tavolo c’erano, i tipici ravioli di carne georgiani, i chinkali, i boraki, cannelloni di carne armeni, la basturma, carne di manzo salata ed essiccata secondo la ricetta armena, i bliny russi, l’ečpočmak e altre torte con ripieno di carne alla tatara, i vareniki ucraini e carni farcite di castagne alla maniera azera... Zia Klava portava la sua famosa aringa in pelliccia e zia Sara il suo pesce farcito. Si bevevano vino e cognac armeno. E poi arrivava finalmente il momento dei dolci con la pachlava, un millefoglie speziato farcito di noci, e i šekerčurek, soffici pasticcini spolverati di zucchero a velo... Tuttora per me non c’è niente di più buono al mondo!».

Pogrom contro gli armeni 1 Quando nel 1990 a Baku comiciarono i pogrom degli azeri contro gli armeni, «un’amica mi ha portato nella sua casa e io ho vissuto da loro in soffitta... Ogni notte aprivano la soffitta e mi davano da mangiare e poi risalivo e loro inchiodavano la porta. Se mi avessero trovato, mi avrebbero ammazzato! Quando sono uscita di lì la mia frangia era incanutita...[...] Dalla soffitta scendevo solo di notte... c’erano tende pesanti come coperte. Un mattino hanno aperto la soffitta: ‘Vieni fuori! Sei salva!’ In città erano arrivate le truppe russe...»
(Margarita K., profuga armena).

Pogrom contro gli armeni 2 «In una casa hanno ucciso tutti... Ma la bambina più piccola si è arrampicata su un albero... L’hanno fatta fuori come un uccellino... Di notte è difficile vedere, a lungo non sono riusciti a colpirla. Si accanivano... hanno centrato il bersaglio e lei è caduta ai loro piedi» (Margarita K., profuga armena).

Pogrom contro gli armeni 3 «Mia nonna era sopravvissuta al pogrom contro gli armeni del ’15. Me lo ricordo. Quand’ero piccola mi raccontava: ‘Quando avevo la tua età, hanno sgozzato il mio papà, la mia mamma e la zia. E tutti i nostri agnelli...’ Gli occhi della nonna erano sempre tristi. ‘Hanno sgozzato anche i vicini... E prima avresti detto che erano persone normali, persino brave persone. Durante le feste sedevamo tutti alla stessa tavola...’» (Margarita K., profuga armena).

Documenti falsi «Ce ne siamo andate con dei documenti falsi... con passaporti su cui erano segnati cognomi azeri... Abbiamo impiegato tre mesi per riuscire a comprare i biglietti. Le liste di attesa erano interminabili! Quando siamo salite sull’aereo, le casse di frutta e le scatole di cartone con i fiori erano più dei passeggeri. Gli affari! Gli affari prosperavano. Davanti a noi sedevano dei giovani azeri che per tutto il tragitto hanno bevuto vino, dicendo che emigravano perché non volevano uccidere. Non volevano andare in guerra a morire. Il ’91... Nel Nagorno-Karabach infuriava la guerra... Quei ragazzi lo dicevano candidamente: ‘Non vogliamo finire sotto un carro armato. Non siamo pronti.’ A Mosca era venuto a prenderci un mio cugino... [...] La sera si sono riuniti i parenti... Tutti mi esortavano: ‘Parla, parla, non avere paura. A stare zitti, si finisce con l’ammalarsi.’ Un mese dopo ho cominciato a parlare, anche se avevo pensato che non avrei più potuto e che avrei taciuto per sempre» (Margarita K., profuga armena).

Matrimonio azero Tradizione matrimoniale azera: la prima volta a casa della fidanzata si presentano i sensali con la proposta per essere ascoltati, il secondo ottengono già un consenso o un rifiuto. E poi si brinda col vino. L’acquisto dell’abito bianco e dell’anello spetta al fidanzato che li porta a casa della fidanzata rigorosamente di mattina, in una giornata di sole, per propiziare la felicità e scacciare le forze oscure. La fidanzata accetta il dono e ringrazia il fidanzato e lo bacia davanti a tutti. Lei ha sulle spalle uno scialle bianco, simbolo di purezza. Il giorno delle nozze le due parti portano molti regali, che vengono sistemati su grandi vassoi adorni di nastri rossi. Si gonfiano centinaia di palloncini colorati che continuano a librarsi sulla casa della fidanzata per giorni e giorni e più a lungo restano in aria, meglio è perché significa che l’amore è profondo e reciproco.

Morti avvolti nei giornali Una russa: «Fino al compimento del mio quattordicesimo anno d’età, fino alla perestrojka, abbiamo vissuto serene. Senza problemi finché non è cominciato il capitalismo e in televisione non si sono messi a parlare di ‘mercato’. Non si capiva bene cosa fosse e nessuno ce lo spiegò mai. Il primo segnale era stato che si poteva dire male di Lenin e di Stalin. [...] A casa la nonna diceva: ‘Al posto dei comunisti ora avremo i trafficanti.’ [...] ‘Abbiamo barattato il socialismo con le banane, con il chewinggum...’[...]». Dopo la perestrojka «vivevamo con la pensione della nonna. Ci nutrivamo solo di grigi maccheroni... La nonna conservava tutti i suoi risparmi di una vita, cinquemila rubli, alla cassa di risparmio, e avrebbero dovuto bastarle fino alla morte, per i ‘giorni neri’ e per i funerali. Ma ormai valevano quanto un biglietto del tram [...] Da un giorno all’altro i soldi di tutti erano diventati carta straccia. Avevano rapinato il popolo... Il più grande timore della nonna era che la seppellissimo in un sacco di plastica o avvolta in fogli di giornale. Le bare avevano raggiunto dei prezzi folli e seppellivano i morti come capitava... Un’amica della nonna, zia Fenja, che era stata infermiera al fronte, era stata seppellita dalla figlia... avvolta nei giornali... in vecchi giornali... Le sue medaglie le avevano infilate così nella fossa...»

Compleanni Negli anni Novanta «era normale regalare per il compleanno un pezzo di sapone, del dentifricio...» (una russa).

Banditi «Gli anni Novanta... I banditi giravano per strada senza neppure nascondere le pistole. Chi poteva si faceva installare delle porte blindate» (una russa).

Stipendi «Negli anni Novanta un chilo di carne costava trecentoventi rubli e lo stipendio mensile di zia Olja era di cento rubli, lavorava come maestra» (una russa).

Un vestito Alisa Z., manager pubblicitaria, 35 anni: «Sono venuta da Rostov... I miei genitori insegnano a scuola: papà è un chimico e mia madre insegna lingua e letteratura russa. Si sono sposati che erano ancora studenti, papà aveva un unico vestito decoroso, ma in compenso era pieno di idee e allora questo era sufficiente a far girare la testa a una ragazza. Amano rammentare che per tanto tempo hanno vissuto con un solo completo di lenzuola, un guanciale e un paio di pantofole. Si recitavano versi di Pasternak per notti intere».

Polpette Alisa Z., manager pubblicitaria, 35 anni: «A scuola facevamo
lezione di economia domestica, i ragazzi chissà perché imparavano a guidare l’auto, mentre le ragazze imparavano a friggere le polpette».

Tutto Alisa Z., manager pubblicitaria, 35 anni: «Ho tutto: una grande casa, un’auto costosa, dei mobili italiani. E una figlia di cui sono entusiasta. Ho una cameriera, non sono io a cuocere le polpette, posso comprare tutto ciò che voglio... montagne di cose futili...».

Svaghi da ricchi 1 Alisa Z., manager pubblicitaria, 35 anni, sui ricchi russi: «Tutto è alla loro portata. Portarsi a letto la modella più bella [...] rompere gli specchi, finire con il muso dentro il caviale nero... far fare il bagno alle ragazze nello champagne... ma tutto gli è venuto a noia. Sono stufi. Le agenzie turistiche di Mosca offrono a simili clienti degli svaghi speciali. Per esempio, due giorni da trascorrere in prigione. La pubblicità li reclamizza così: ‘Volete provare a vivere per due giorni come Chodorkovskij?’ Li trasportano su un’auto della milizia con la grata a Vladimir nella prigione più spaventosa, gli fanno indossare una divisa da prigioniero, li inseguono per il cortile con i cani e li picchiano con dei manganelli di gomma. Veri! Li ficcano come aringhe in una cella fetida, puzzolente con il bugliolo. E loro si sentono felici. Provano emozioni nuove! Per tre, cinquemila dollari si può anche giocare a fare i ‘barboni’: gli aspiranti barboni si travestono, si truccano e vagabondano per le vie di Mosca a mendicare. A dire il vero, dietro l’angolo ci sono le loro guardie del corpo e quelle dell’agenzia. Esistono anche proposte più hard,
per tutta la famiglia: la moglie si trasforma in prostituta e il marito nel suo pappone».

Svaghi da ricchi 2 «Vi sono poi dei passatempi di cui non si fa neppure menzione nelle pubblicità turistiche... Assolutamente segreti... Si può organizzare anche una caccia all’uomo notturna. A uno sventurato barbone danno mille dollari: ecco, prend i ‘verdoni’, sono tuoi! Lui non ha mai visto in tutta la sua vita una somma simile! E adesso fai la preda! Se ti salvi, vuol dire che era destino, se ti ammazzano, non prendertela».

McDonald’s Nel 1990 aprì in Russia il primo McDonald’s sulla Piazza Puškinskaja.

La leva nell’esercito sovietico Aleksandr Laskovič, imprenditore, che a 18 anni fu chiamato alla leva militare nell’esercito sovietico: «Non avrei voluto fare il soldato, la guerra non mi ha mai interessato. Papà aveva detto: ‘Devi finalmente diventare uomo. Altrimenti le ragazze penseranno che tu sia impotente. L’esercito è una scuola di vita. Devi andare a imparare a uccidere...’ [...]Mio fratello era partito con la testa imbottita di sogni romantici ed era tornato terrorizzato dal servizio militare. Ogni mattina lo prendevano a pedate sul viso. Lui stava disteso sulla branda di sotto e i veterani su quelle di sopra. Un anno intero coi calcagni di un estraneo piantati sul muso! Prova un po’ a conservarti com’eri! Per non parlare d’altro... Di cose come essere costretti a succhiarsi il proprio membro, mentre tutti ridono. E se qualcuno non ride, toccherà a lui succhiarselo... O lustrare il gabinetto con uno spazzolino da denti o con un rasoio. ‘Deve brillare come le palle di un gatto.’».

Addestramento «L’addestramento di una giovane recluta: marciare, imparare il Regolamento a memoria, saper smontare e rimontare un kalašnikov a occhi chiusi... sott’acqua... Dio non esiste! Il tuo Dio, il tuo zar e il tuo capo è il sergente!» (Aleksandr Laskovič)

Piedi fatti male «L’incubo numero uno erano gli stivali atramati... Quando io ero sotto le armi si portavano ancora. Per far brillare la tela catramata bisognava lucidarla con la crema per stivali e poi passare su e giù uno straccetto di lana. La corsa campestre voleva dire percorrere dieci chilometri in stivali catramati. Con trenta gradi di caldo... Un inferno! Incubo numero due: le fasce mollettiere. Erano di due tipi: invernali ed estive. L’esercito russo è stato l’ultimo a bandirle... nel XXI secolo... A forza di sfregare avevo i piedi sanguinanti e pieni di calli. Le pezze andavano avvolte a partire dalla punta del piede, ma ‘all’esterno’ e non dentro. Ci siamo messi in riga. ‘Soldato... perché zoppica? Non esistono stivali stretti, ma piedi fatti male.’» (Aleksandr Laskovič).

Mensa «La mensa dei soldati: un vero prodigio... Due anni di kaša, cavolo marinato, pasta e zuppa a base di carne, di quella conservata nei magazzini militari in caso di guerra. Quanto tempo sarà rimasta lì? Cinque dieci anni... Tutto condito con un miscuglio unto, contenuto in grandi bidoni da cinque litri, di colore arancione. Per Capodanno la pasta la condivamo con il latte condensato, una vera raffinatezza! Il sergente Valerian: ‘I biscotti li mangerete a casa e li offrirete alle vostre troie...’ Secondo il Regolamento ai soldati non è consentito usare né le forchette, né i cucchiaini da tè. Il cucchiaio è l’unica posata permessa» (Aleksandr Laskovič).

Uccidere animali «Imparavamo a uccidere gli animali, ci portavano appositamente cani, gatti randagi, perché ci abituassimo e la nostra la mano non tremasse alla vista del sangue umano. Macellai! Non riuscivo a controllarmi... E la notte piangevo...» (Aleksandr Laskovič).

Suicidarsi «Almeno cinque volte ho desiderato suicidarmi... Ma come? Forse impiccandosi? Saresti costretto a stare appeso nella tua merda, con la lingua penzoloni... nessuno te la ricaccerebbe dentro [...] Gettarsi dall’alto di una torretta? Ci si trasformerebbe in un pasticcio di carne! Prendere il mitra mentre si è di guardia e spararsi alla testa? Andrebbe in mille pezzi come un cocomero. Mi rincrescerebbe per la mamma. Il comandante ci ha pregato: ‘Vi chiedo solo di non spararvi. È più facile depennare gli uomini dalle liste che non le munizioni.’» (Aleksandr Laskovič).

Emigrati a Chicago 1 Una russa emigrata a Chicago: «Negli anni Novanta in Russia si viveva in modo allegro, favoloso... Guardavi dalla finestra e a ogni angolo c’era una manifestazione. Ma ben presto non è più stato né allegro, né favoloso. Volevate il libero mercato: eccovelo! Io e mio marito siamo ingegneri, da noi la metà della popolazione ha fatto studi di ingegneria. Con noi non hanno fatto cerimonie: ci hanno gettato nella spazzatura. Ed eravamo stati noi a fare la perestrojka, a seppellire il comunismo e ora non servivamo più a nessuno. Meglio non rievocare... La nostra bambina ci chiedeva da mangiare e in casa non c’era niente. Per tutta la città si vedevano annunci con scritto: Compro... Compro... ‘Compro un chilo di cibo’: non di carne, di formaggio, ma di qualunque cibo. Un chilo di patate ci faceva contenti, al mercato vendevano i panelli di colza come durante la guerra».

Emigrati a Chicago 2 Un’altra russa emigrata a Chicago: « Ho deciso di emigrare quando Gorbačëv è tornato da Foros dicendo che noi non rinnegavamo il socialismo. Se è così, senza di me! Non voglio vivere sotto il socialismo! Era una vita monotona, dall’infanzia sapevamo che saremmo stati ottobristi, poi pionieri e komsomoliani. Il nostro primo stipendio era di sessanta rubli, in seguito sarebbe diventato di ottanta, e alla fine della nostra vita sarebbe stato di centoventi... (Ride.)».

Emigrati a Chicago 3 «Ah-ah-ah... Anziché la libertà ci hanno dato dei voucher. E si sono spartiti il grande paese: il petrolio, il gas... Non so, come esprimerlo a parole... A qualcuno sono toccate le ciambelle intere e a qualcun altro solo i buchi delle ciambelle. Questi voucher, bisognava trasformarli in azioni di imprese, ma erano pochi quelli che erano in grado di farlo. Sotto il socialismo non avevamo imparato a fare i soldi. Mio padre ci portava a casa la réclame dell’‘Immobiliare Mosca’, della ‘Petroli-Diamanti-Invest’, della ‘Nichel di Noril’sk’... Ne discutevamo con la mamma in cucina e alla fine li abbiamo venduti a un tizio nel metrò. Mi hanno comprato una giacca di pelle all’ultima moda. Questo hanno fruttato. Con questa giacca sono arrivata in America...» (un russo emigrato a Chicago)

Emigrati a Chicago 4 Una russa emigrata a Chicago: «Oggi in America ci sono tanti ragazzi russi che indossano magliette con il ritratto di Stalin. Sulla capote delle loro auto disegnano falce e martello. E odiano i negri...».

Emigrati a Chicago 5 Un russo emigrato a Chicago: «Io sono una persona razionale. Tutti questi sentimentalismi riguardo alla lingua dei nonni e delle nonne, sono soltanto emozioni. Ho proibito a me stesso di leggere libri russi e navigare nell’internet russo. Voglio eliminare da me stesso tutto ciò che è russo. Voglio smettere di essere russo...».

Emigrati a Chicago 6 «La Russia, la mia Russia... La mia amata Pietroburgo! Come vorrei tornare! Ora mi metto a piangere... Evviva il comunismo! A casa! E le patate di qui sono una porcheria. La cioccolata russa poi è semplicemente magnifica!»

Tagiki 1 Gafchar Džuraeba, presidente della Fondazione Tagikistan di Mosca: «Due giovani tagiki sono stati portati dal cantiere in ambulanza all’ospedale... Per tutta la notte sono rimasti lì abbandonati nella fredda sala d’attesa senza che nessuno andasse da loro. I medici non si curavano neppure di nascondere i loro sentimenti: “Che siete venuti a fare qui, dannati culi neri?” ... Agenti delle forze speciali dell’Omon hanno trascinato fuori di notte dalla cantina quindici portinai tagiki, e dopo averli fatti stendere sulla neve, hanno cominciato a picchiarli. Si sono messi a correre sui loro corpi con i loro stivali chiodati. Un ragazzo di quindici anni è morto... Una madre ha ricevuto il cadavere del figlio dalla Russia. Privo degli organi interni... A Mosca ormai al mercato nero si possono comprare tutte le parti del corpo di un uomo: reni, polmoni, fegato, pupille, valvole cardiache, pelle...».

Tagiki 2 Gafchar Džuraeba, presidente della Fondazione Tagikistan di Mosca: «È venuto da me anche un ragazzo molto giovane... I poliziotti l’avevano fermato fuori Mosca e si erano impadroniti dei suoi soldi, ma erano pochi. Si sono infuriati. L’hanno portato nel bosco e l’hanno massacrato di botte. Era inverno. Il freddo era intenso. Gli hanno lasciato addosso solo le mutande... Gli hanno strappato tutti i documenti... È stato lui a raccontarmelo. ‘Come hai fatto a salvarti?’ gli ho chiesto. ‘Pensavo che sarei morto, sono corso via a piedi nudi sulla neve e a un tratto, come nelle fiabe, ho visto una piccola isba. Ho bussato alla finestrella ed è uscito un vecchio. E questo vecchio mi ha dato una pelle di montone perché mi riscaldassi, mi ha versato del tè e mi ha offerto della confettura di frutta. Mi ha dato dei vestiti e l’indomani mi ha accompagnato in un grosso villaggio dove ho trovato un camion che mi ha portato fino a Mosca.’ Questo vecchio... anche lui è la Russia...».

Tagiki 3 Gafchar Džuraeba, presidente della Fondazione Tagikistan di Mosca: «Secondo gli usi musulmani il corpo dev’essere sepolto il più presto possibile, è auspicabile che la sepoltura avvenga nel giorno stesso in cui Allah accoglie l’anima. Nella casa del defunto si appende a un chiodo un pezzetto di tessuto bianco per quaranta giorni. L’anima scende in volo di notte, posandosi su questo pezzo di tessuto. Ascolta le voci care, si rallegra e vola via da dove è venuta».

Tagiki 4 Un russo sui tagiki: «Sono stati loro a volersi separare. Hanno voluto la libertà. L’ha forse dimenticato? Si ricorda quando nel Novantuno accoltellavano i russi? E saccheggiavano e violentavano? Li cacciavano da tutti gli angoli. Si sentiva bussare alla porta nel cuore della notte e facevano irruzione: chi con i coltelli, chi con i mitra. ‘Andatevene dalla nostra terra, russi! Avete cinque minuti per fare i bagagli... E un passaggio gratis fino alla stazione più vicina.’ La gente si precipitava fuori dai propri appartamenti in ciabatte... Ecco che cosa succedeva...».

Tagiki 5 Un russo: «Non conviene girare per la città con un cartello con la scritta ‘Amo i tagiki’. Tempo un attimo e ti ritrovi col muso fracassato».

Tagiki 6 Un russo: «Vicino a noi c’è un cantiere. È pieno di ‘culi neri’ che scavano come topi. A causa loro andare al negozio di sera è pericoloso. Per un telefonino da niente possono anche ammazzarti...»

Tagiki 7 «Ho stretto amicizia con un tagiko. Il suo nome è Said. È bello come un dio! A casa sua faceva il medico, qui lavora in un cantiere. Sono cotta di lui. Che cosa possiamo fare? Quando ci incontriamo, passeggiamo insieme nei parchi o andiamo da qualche parte fuori città per non incontrare nessuno dei miei conoscenti. Ho paura dei miei genitori. Mio padre mi ha avvertito: “Se ti vedo con un muso nero sparo a tutti e due” Che lavoro fa mio padre? È musicista. Si è diplomato al conservatorio... “Se un muso nero va con una delle nostre ragazze, bisogna castrarlo».

Attentato in metro 6 febbraio 2004, un gruppo ceceno colpisce la metropolitana di Mosca: 39 i morti, 122 i feriti. Una donna che era sulla metro: «Stavo andando al lavoro, il vagone, come sempre, era strapieno. Non ho sentito l’esplosione, ma a un certo punto tutto si è tinto di arancione, il corpo mi si è paralizzato, volevo muovere il braccio, ma non riuscivo. Pensavo di essere stata colpita da un infarto e di colpo ho perso conoscenza... Quando mi sono ripresa, c’erano persone che mi
camminavano sopra, tranquillamente, come se fossi morta. Ho avuto paura che mi facessero a pezzi e ho alzato le braccia. Qualcuno mi ha sollevato. Sangue e brandelli di carne dovunque. Era questa la scena...»

Barzelletta russa: Un russo: «Vi racconto una barzelletta che spacca... I terroristi vanno in giro ad ammirare le bellezze dell’Italia. Arrivano davanti alla Torre di Pisa e scoppiano a ridere: ‘Dilettanti!’».