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 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

LA PRIMA VOLTA


[Roberto Amodei]

Il 1924 è un anno fertile per l’iniziativa e l’ingegno giornalistici. È l’anno che ha dato i natali a Eugenio Scalfari e Livio Zanetti, a Piero Ottone e Piero Forcella, a Giorgio Fattori e Rossana Rossanda. Lasciamo stare Marcello Mastroianni e Mike Bongiorno, che pure agli organi d’informazione hanno fornito tanta ciccia, e rimaniamo ai giornali. Nel 1924 hanno emesso i primi vagiti due testate che avrebbero assunto un ruolo chiave nella storia dell’editoria. Il 12 febbraio un giornalista sardo e capellone di 33 anni, discretamente politicizzato, Antonio Gramsci, diede vita all’Unità, organo del Partito comunista, poco tempo prima di finire in carcere. E il 20 ottobre uno sportivo culturista veronese e un meccanico di Modena, con in testa meno capelli, ma lo stesso bagliore dei predestinati negli occhi, inaugurarono il Corriere dello Sport.
Beh, l’intero movimento giornalistico-editoriale deve molto a quella probabilmente irripetibile stagione, anche se per altri versi fu un annus horribilis che, attraverso elezioni più che taroccate, proiettò un cavaliere ante litteram, Benito Mussolini, verso la demolizione del nostro Paese. Vabbè, pace all’anima sua e soprattutto a quella delle sue vittime: qui parliamo di giornali e giornalisti (sì, lo so, anche il Cav. Uno era iscritto all’albo, ma ne ha fatte sicuramente più di Farina, di Feltri e di Sallusti senza subire le stesse sanzioni) e, essendo stato già onorato il genetliaco e, ahimè, la scomparsa dalle edicole del quotidiano politico, mi dedico a celebrare il 90esimo compleanno del mio amato Corriere dello Sport chiedendo al lettore preventiva comprensione. Sarà questo un articolo scritto con i battiti del cuore e le pause della nostalgia, perché il CdS mi riconduce ai migliori anni della nostra vita, quelli fra i venti e i trenta, e perché alla famiglia Amodei devo la prima spinta verso la professione dei miei sogni, consentendomi, dopo il mio cambiamento di rotta, di tornare di quando in quando a intingere la penna nel vecchio calamaio. Bene, asciughiamoci le lacrime e andiamo avanti. Anzi, indietro, perché vi assicuro che vale la pena ricomporre i tasselli del mosaico CdS fin dalle origini.
Accennavo poco fa agli ideatori del progetto un po’ folle di andare a sfruculiare il gigante rosa (ma all’inizio le sue pagine erano verdi), ovvero La Gazzetta dello Sport, padrona dell’editoria sportiva, nel senso che da trent’anni spargeva solitaria lungo tutto lo Stivale i suoi fogli salmonati. Colui che ho definito il culturista veronese risponde al nome di Alberto Masprone, aveva 40 anni, ma le suonava ancora a molti in quasi tutti gli sport, dal calcio alla lotta alla ginnastica ai salti. Vice presidente del Coni, ex centravanti di Hellas Verona e Inter. Provetto aviatore (pure!), aveva progettato con D’Annunzio il celebre volo su Vienna durante la Prima guerra mondiale. Il suo compare meccanico, più giovane di quattordici anni, aveva fatto gavetta nell’officina del padre alla periferia di Modena. Diciannovenne, era emigrato a Torino come collaudatore di autocarri, poi era stato collaudatore e pilota alla Cmn (Costruzioni Meccaniche Nazionali). Nel 1921 si costruì un’automobile da corsa e cominciò a gareggiare, tre anni dopo entrò nella scuderia Alfa Romeo. Si chiama Ferrari: vi dice niente questo nome? Enzo Ferrari. Sì, lui. Un giorno Roberto Amodei andò a trovarlo a Maranello e gli disse che stava cercando la prima pagina del primo numero del CdS perché voleva regalargliela. Il ‘Drake’ aprì un cassetto e gliela mostrò: “Eccola, ce l’ho io”.
La redazione del primo CdS era a Bologna e quella prima pagina che ora campeggia dietro la scrivania di Amodei era fitta di testo sotto un unico titolo che per leggerlo tutto dovevi riprendere fiato: “Antonio Ascari vince il Gran Premio d’Italia compiendo 800 km in 5 ore 2’ 5””. Il direttore era Roberto Pezzoli e veniva dal Resto del Carlino. L’incipit del suo editoriale di presentazione avrebbe fatto la felicità della Gialappa’s: “Il Corriere dello Sport non ha bisogno di presentazioni”. E giù una colonna di piombo, che più che un saluto ai lettori assomigliava a un anatema: “Crediamo che ogni giovane che si riesce a portare la domenica o sui monti o sui campi sportivi sia un uomo salvato dalle inevitabili tare della vita delle grandi città, alimentatrici di vizi e di mali”.
Era la prosa di un’epoca enfatica e cupa, in cui la gente acquisiva meriti proporzionalmente alla perdita delle proprie libertà. Tre anni dopo il debutto, del CdS si appropriò il Partito nazionale fascista, operazione voluta da Benito Mussolini e realizzata da Leandro Arpinati, capo della federazione di Bologna, inventore dei Giochi Littori e artefice del grande stadio della città felsinea. Entrambi erano convinti – non a torto – che lo sport fosse il più efficace strumento di aggregazione e di propaganda. E per meglio veicolare il messaggio, sostituiscono la testata Corriere dello Sport con un più incisivo Il Littoriale. Fino al 1944, quando la Liberazione liberò anche lo stampatore Umberto Guadagno, il quale l’aveva rilevata boccheggiante, tornando all’originale CdS.
Pietro Petroselli fu direttore per un breve periodo prima dell’interregno di Ennio Cencelli, un domatore di giornalisti pronto a riporre la frusta e sbattere i tacchi davanti ai superiori. Aziendalista fino al midollo, Cencelli fu l’ideale traghettatore fra la convulsa era fascista e una ripartenza in prima classe. Già, il colpo da maestro di Guadagno fu di togliere l’acqua ai pesci del nemico per far nuotare meglio i propri. Il passaggio di Bruno Roghi dalla direzione della Gazzetta dello Sport a quella del quotidiano romano fece scalpore perché oggetto della rapina era stato l’indiscusso numero uno del giornalismo sportivo italiano, a 52 anni saldamente sulla breccia. La sua prosa aulica e coinvolgente aveva catturato migliaia di appassionati, i racconti delle sfide fra Coppi e Bartali rimarranno per sempre negli annali.
Con Guadagno, Roghi stabilisce un patto: continuare a far base a Milano, dove Roghi intende coltivare le proprie abitudini, gli affetti e le passioni: la scrittura e la musica lirica. A casa, conserva in bella mostra il diploma conseguito al Conservatorio di Milano. Visita la redazione romana un paio di volte al mese, al resto provvede il fido Cencelli.
Il Corriere riprende quota, il suo editore pigia sull’acceleratore. Porta a dodici le edizioni locali, vara il CdS edizione della sera a 15 lire per far fronte all’offensiva di Momento Sera, che allarga sempre più le sue pagine allo sport. Roghi è un direttore fantasma, ma incombe con la sua enorme personalità sulla redazione ed è un artista della scrittura. A registrare e trascrivere i suoi pezzi è delegato soltanto il capo degli stenografi, Pino Bonsignori, il quale a compito finito declama l’‘opera’ davanti a una folla rapita di impiegati e redattori.
All’ombra di Roghi emergono giornalisti di altissimo livello. Ezio De Cesari, prima firma del calcio, livornese dalla voce tuonante, amante del gioco e delle belle donne. Vittorio Finizio, fine dicitore dalla memoria autistica, un almanacco vivente. Mario Pennacchia, ex Gazzetta dello Sport anch’egli, piccolo e sgusciante, curioso come una scimmia. Franco Dominici, penna raffinatissima, che viene e va in tram da Torpignattara. Alberto Marchesi, fiumarolo verace, detto ‘Il Comandante’ per i suoi trascorsi nella Decima Mas. Leone Boccali, ex direttore del Calcio e ciclismo illustrato, Giorgio Fattori, futuro direttore dell’Europeo e della Stampa.
Una redazione quasi tutta romana che a tarda sera si ritrova all’Hosteria da Checchino a Testaccio o Dal Buiaccaro con i vertici dell’azienda: Guadagno, il figlio Gino con l’amico Franco Amodei, il capo dell’amministrazione Elio Urbini.
Il CdS è padrone della diffusione dal Lazio in giù. Sulle sue pagine scrivono personaggi dello spettacolo e della cultura. Nel numero del 27 ottobre 1957 compare l’unico articolo mai scritto per un giornale sportivo da Alberto Sordi, allora trentasettenne e già all’apice della popolarità (erano passati sugli schermi successi come ‘Un americano a Roma’, ‘Nel segno di Venere’, ‘Souvenir d’Italie’, ‘Il conte Max’), ma senza dimenticare le origini del “compagnuccio della parrocchietta”. Il giorno del derby Roma-Lazio, sotto il titolo ‘Uno a uno non fa male a nessuno’, Albertone scriveva: “Roma-Lazio: Ammazz che partita! Una marea di folla comprendente laziali, romanisti, antilaziali, antiromanisti, napoletani antilaziali, juventini antilaziali e antiromanisti, e romanisti antiromanisti di quelli che sono in polemica con i dirigenti, tutti all’Olimpico: mamma mia, che impressione!”. Non avrebbe azzeccato il pronostico, ma senza presumibilmente dolersene perché la ‘sua’ Roma vinse per 3-0.
Guadagno si ammala, invoca la successione del figlio Gino. Roghi manifesta segni di stanchezza, ma proprio le cattive condizioni del suo editore lo inducono a rimanere in sella almeno sino alle Olimpiadi romane. La sua generosità gli consente di arricchire la galleria degli articoli da collezione con la cronaca della corsa notturna a piedi nudi dell’etiope Abebe Bikila verso la medaglia d’oro nella maratona fra reperti storici illuminati a giorno e due ali ininterrotte di folla. L’incipit è un componimento lirico che in sei parole spreme il succo dell’impresa: “Sotto l’arco di Costantino passa il fratello di Aida”.
Compiuto l’ultimo capolavoro. Roghi getta la spugna. Alla fine dei Giochi che hanno restituito a un’Italia ancora polverosa gloria, ammirazione mondiale e persino un bel po’ di soldi, il poeta dello sport getta la spugna. Accetterà di guidare fugacemente Tuttosport, poi, stanco e ammaccato, salirà sui colli della Brianza per chiudere gli occhi con le dita sulla tastiera il 1° febbraio del 1962.
Il giornale lo firma ora, pro tempore, il giovane Gino Guadagno affiancato dal condirettore Giuseppe Melillo. In redazione comincia ad affacciarsi il piccolo Roberto Amodei, che alla soglia dei dieci anni già annusa l’odore euforizzante delle linotype. Le famiglie Guadagno e Amodei sono molto amiche, Gino è stato padrino di battesimo di Roberto, Franco dirige il ramo tipografico della Vegua (Vecchioni & Guadagno).
Quando Guadagno non è più in grado di lavorare, Gino non se la sente di accollarsi il peso di un giornale e di uno stabilimento tipografico. La voce gira e a cogliere al balzo l’occasione sono Edilio Rusconi e Pietro Paolazzi, editori di destra, che con la mediazione di Franco Amodei e la benedizione della corrente democristiana di Tambroni il 18 maggio 1961 firmano il contratto d’acquisto, chiamando sul ponte di comando Antonio Ghirelli, strappato a Tuttosport, uomo dichiaratamente di sinistra. Vabbè, ma tanto lo sport non ha colore. Sbagliato, ce l’ha il colore, eccome. Rosso, rosso come la bandiera dell’Unione Sovietica che alle spalle degli astronauti sovietici campeggia sulla prima pagina. Ghirelli intendeva portare il giornale verso nuove frontiere, le imprese spaziali – scrive – sono anche imprese sportive. Nessuna intenzione di far politica, figuriamoci, lui che dal Pci uscì sbattendo la porta dopo i fatti d’Ungheria del 1956. È un Masaniello di 39 anni che vuole rivoluzionare un giornalismo sportivo impigrito.
Gli editori democristiani, però, questa non la digeriscono e dopo solo 150 giorni Ghirelli diventa un ex direttore. In sua vece si insedia il suo preciso opposto, un giovanotto trentenne di nome Luciano Oppo che di sinistra tollera a malapena la guida. Si è fatto le ossa nelle riviste rosa, è totalmente digiuno di sport, al pari del suo vice Marcello Sabatini. Quattro anni di gossip, foto gigantesche e titoloni urlati (“Romaaaaaaa!” alla vittoria giallorossa contro i campioni dell’Inter; “Tac-Tac-Tac-Taccone!” quando il ciclista abruzzese vinse quattro tappe consecutive al Giro d’Italia) portano il CdS vicino al naufragio. Lo dico con rammarico perché è stato Oppo a regalarmi il contratto da praticante.
Sospinti dall’alto, Rusconi e Paolazzi mollano gli ormeggi. E per due lire. Franco Amedei si arrischia a prendere, con lungimiranza, la patata bollente. Romano, schivo, riservato, concreto, Amodei chiama all’avventura un amico fidato, Fernando Romeo, con esperienza amministrativa all’Ente Provinciale per il Turismo, al quale assegna la presidenza del consiglio di amministrazione. E la prima mossa è il ritorno del direttore dei sogni: Antonio Ghirelli.
Impiega pochi giorni il vulcanico napoletano a rimotivare una redazione in ginocchio e a restituire vigore al giornale. E anche a ribaltare certe gerarchie interne. Parla schietto, semina allegria e adrenalina, crede nei giovani, insegna il mestiere. I suoi mattinali sono libri di testo. Un occhio sempre puntato sull’attualità e sulle esigenze dei giovani. Il terreno è fertile, alla fine degli anni Sessanta i fermenti giovanili invadono le piazze. I Beatles fanno da colonna sonora alla contestazione, il Pci di Berlinguer giunge a un passo dalla Dc. Ghirelli inventa ‘Forza ragazzi’ all’interno del giornale, lancia in orbita Giorgio Tosarti, caporedattore di ferro a 27 anni, e altri under 30 fra i quali generosamente mi include. Nell’articolo scritto dieci anni fa sul libro commemorativo dell’ottantesimo anniversario del CdS, leggo pavoneggiandomi: “A Franco Recanatesi devo i più bei titoli del mio settennato”. Citandone uno per tutti: “Si spalanca l’Universo”.
Quel titolo campeggiò sulla prima pagina del 21 luglio 1969, giorno dell’allunaggio dell’Apollo 11 e della passeggiata lunare di Neil Armstrong. A Houston Ghirelli aveva spedito Sergio Neri, inviato di passo svelto e penna educata. Sulle prime pagine di Ghirelli, assieme alle imprese sportive, occhieggiavano articoli fatti per pensare, non solo per tifare: le interviste di Alberto Marchesi con Bob Kennedy, di passaggio a Roma poco prima di venire assassinato, e con Oriana Fallaci dopo la battaglia in piazza delle Tre Culture alle Olimpiadi di Città del Messico; il viaggio attraverso i paesi dell’Est di Cesare Lanza dopo una riunione di atletica a Praga.
Le vendite premiano le innovazioni. Nel 1970 il CdS supera le 150mila copie giornaliere, 300mila il lunedì. Il giorno dopo Italia-Germania 4 a 3 ai Mondiali del Messico vanno esaurite mezzo milione di copie.
In redazione si sgobba e si fa festa, anche se il Ghirelli imbufalito è spietato. Ho visto gente uscire in lacrime dalla sua stanza. Ma don Antonio si accompagnava a cena con i redattori, si sedeva in casa loro per un pokerino, assisteva alle loro partite di calcio del torneo dei Giornali (c’era anche il diciottenne Roberto Amodei sui campi dell’Acqua Acetosa), prestava attenzione ai loro problemi privati trovando spesso una soluzione.
Qualsiasi redattore dell’epoca lo considera un maestro impareggiabile. E ognuno di noi avrebbe rinunciato a un anno di stipendio pur di non sentire, nell’aprile del 1972, l’annuncio delle sue dimissioni. Per primo Franco Amodei, che inutilmente fece capriole nel tentativo di fermarlo. A Ghirelli lo sport stava stretto, era attratto dalle sirene di un giornale politico. L’offerta del Globo, quotidiano della Confindustria, mise fine alla stagione più felice nella storia del CdS. Lo stesso Ghirelli l’avrebbe evocata con nostalgia fino agli ultimi suoi giorni: “Ti ricordi quella riunione? Ti ricordi quel titolo? Ti ricordi quello scoop?”.
Amodei vorrebbe che Tosatti rilevasse il suo posto nel segno della continuità, ma l’onesto Giorgio non si sente ancora pronto. Accetta di fare il secondo a Mario Gismondi, barese che ama circondarsi di baresi. Ne porta in redazione cinque o sei, ha la sindrome dell’accerchiamento, vuole proteggersi. Fa un discreto giornale, ha la sfortuna di succedere a un gigante che avrebbe schiacciato qualsiasi antagonista.
Tosatti ha atteso quattro anni dietro le quinte, ora è pronto. Il 7 agosto del 1976 firma l’editoriale di insediamento. Tenta di ricalcare lo spartito ghirelliano, con un po’ di cuore in meno ma più numeri, più tecnica. Sono cambiati i tempi, i campioni, il pubblico, la società. Tosatti ha un progetto accattivante. Mi chiede di rientrare, ma quattro mesi prima ero sceso di due piani planando nella sottostante redazione di Repubblica per una scommessa intrigante.
Tosatti rimane meritatamente al comando per un decennio. Sarà l’uomo dei record: di durata sulla plancia di comando del CdS. Di copie vendute in un giorno: 1.696.966 il 12 luglio 1982 dopo la vittoria della Nazionale sulla Germania nella finale del Mondiale. Della tiratura media quotidiana nello stesso anno: 268mila copie, 530mila il lunedì.
Durante la sua gestione, il gruppo editoriale lievita. L’11 settembre del ’77 avviene la fusione con Stadio. L’anno dopo viene inaugurato il nuovo, avveniristico stabilimento tipografico alla Magliana. L’operazione Stadio viene condotta in prima persona da Roberto Amodei, a 25 anni oramai pienamente inserito negli ingranaggi dell’azienda.
Quando Tosatti lascia per diventare il più importante commentatore sportivo della televisione, a tentare di fare argine c’è soprattutto il giovane Amodei. Ha scavalcato i 30 anni, è figlio unico. Suo padre vuole renderlo partecipe di tutti i rami dell’azienda. Roberto si dedica con la serietà e l’applicazione del padre. Alla fine degli anni Ottanta è un dirigente a tempo pieno. E quindi del resto della storia del Corriere dello Sport degli ultimi 25 anni, cioè dell’era moderna, sarà bene parlarne con lui.


Roberto, da dove cominciamo, dalla tua prima nomina di un direttore? “Come corri. Ho cominciato a mettere piede in redazione che portavo i pantaloni corti”. Volevi fare il giornalista?
Roberto Amodei – È, o era, il sogno di quasi tutti i bambini. Avevo nove o dieci anni quando entrai per la prima volta in una tipografia. E avevo superato di poco i dieci quando, nella redazione di via IV Novembre, Luciano Oppo mi regalò la sciarpa e un distintivo del Botafogo.
Franco Recanatesi – Ne avevi 16-17 quando ti aggregavi a noi giornalisti-pallonari per giocare le sfide sui campi dell’Acqua Acetosa. Tuo padre ci teneva quanto noi che il suo Corriere vincesse i tornei riservati alla stampa. Per le partite importanti, a spese del giornale arrivava Bruno Bernardi, corrispondente da Torino, alloggiato all’hotel Plaza. Che tempi...
R. Amodei – Me lo ricordo Bernardi, detto ‘Farfallino’, gran talento calcistico. Io giocavo a pieno diritto, non perché ero il figlio dell’editore: collaboravo già alle pagine del Corriere, con il mio amico e compagno di liceo Giulio Dalla Chiesa scrivevo per ‘Forza Ragazzi’, l’inserto inventato da Ghirelli curato da Mario Pennacchia e Pierangelo Piegari.
F. Recanatesi – Poi hai cambiato strada. Lasciasti la macchina da scrivere per dedicarti all’apprendistato da editore.
R. Amodei – Eh no, non conosci un passaggio. Con altri soci avevo creato una camiceria a Pomezia. Mi piaceva quell’avventura. Non ero certo di voler seguire le orme di mio padre. Intanto mi sono laureato in giurisprudenza, il 1° luglio del 1975, con una tesi sul diritto del lavoro. Ero emozionato, mi feci accompagnare dalla mia fidanzatina. Con me si doveva laureare anche Giuseppe Pistilli, più grande, già redattore del Corriere. Era il primo della lista. La commissione scambiò i primi due nomi, per cui quando Pistilli cominciò a illustrare la sua tesi fu bloccato bruscamente: “Ma lei di che cosa sta parlando?”. Si bloccò, impallidì, si alzò e mi venne accanto. Poi l’equivoco fu chiarito, tornò sui suoi passi e passò a pieni voti. Appena presa la laurea papà mi chiamò da parte e mi disse con aria severa: ora devi deciderti, sei figlio unico, devo sapere chi verrà dopo di me.
F. Recanatesi – L’azienda era già adulta. E in pieno sviluppo.
R. Amodei – Tre anni prima il Corriere dello Sport era andato a stampare alla Stec, nel palazzo della Confindustria di piazza Indipendenza. Otto piani più quattro sotterranei, le linotype allo 01, le rotative allo 04. L’ingegner Costa, armatore, presidente degli industriali, chiese a mio padre se voleva comprare. “Cosa?”, gli chiese. “Tutto”, rispose Costa, “tipografia, palazzo di vetro, tutto”. L’accordo fu stabilito rapidamente su una cifra, se non ricordo male, di tre miliardi e mezzo. Costa chiamò poi Attilio Monti per vendergli Il Giornale d’Italia e Moratti che comprò Il Globo. Il primo si trasferì sulla via Appia, l’altro rimase da noi in affitto. Sì, la nostra azienda era in grande espansione.
F. Recanatesi – Cosa rispondesti a tuo padre?
R. Amodei – Non credo che avrei potuto dare una risposta diversa. Nel 1976, con l’arrivo di Repubblica, entrai a pieno regime. E l’anno dopo e anche di più lo trascorsi a Bologna per guidare e avviare la fusione con Stadio. Tornato a Roma affiancai papà in veste di procuratore della società.
F. Recanatesi – Fino al ’76 c’ero anch’io. Poi cedetti alle sirene di Repubblica, ma scesi solo due piani e continuai a frequentare la stessa tipografia e gli stessi compagni del Corriere. Ricordo che quando Scalfari scendeva allo 04 con il codazzo di pretoriani, i tipografi tremavano: non per paura di ‘Barbapapà’, ma per doversi confrontare con i suoi giornalisti totalmente digiuni di impaginazione. Quando Sandro Viola tagliò il proprio pezzo cancellando dalla bozza una parola qua due parole là, mezza riga qua mezza riga là, il proto Elio Manna, un abruzzese fumantino, gli disse: “A dotto’, questo è un cimitero. Le righe sono di piombo, mica di gomma”. Ho saputo solo di recente che tuo padre non digerì la mia scelta.
R. Amodei – Andò su tutte le furie. Ti chiamò traditore, ingrato. Voleva bene ai suoi giornalisti, li considerava una squadra.
F. Recanatesi – In parte aveva ragione. Se Tosatti fosse arrivato quattro mesi prima a sostituire Gismondi, forse ci avrei pensato su. Possiamo dire che Repubblica fece fare un gran balzo alla vostra azienda?
R. Amodei – Sicuro. Con l’avvento del quotidiano di Scalfari acquistammo due rotative Albert di quattro gruppi con un investimento a rischio di centinaia di milioni. A rischio perché nel contratto siglato ad agosto ’76 fu inserita una clausola per cui se il giornale avesse chiuso dopo i primi tre anni di vita non ci doveva più una lira. Andò bene, anzi benissimo. Abbiamo costruito alla Magliana il più grande e moderno centro tipografico d’Italia, abbiamo moltiplicato sia i centri stampa – ora sono quattro di nostra proprietà, uno a Roma, uno a Monza, due a Bologna, e tre in coabitazione: a Benevento con Luca Colasanto, a Catania con Mario Ciancio, a Cagliari con Sergio Zuncheddu – sia le edizioni locali. Nell’82 venni nominato amministratore delegato, nell’84 papà si ammalò: mi son trovato sulle spalle, a soli 32 anni, un gruppo in pieno sviluppo, ma non pensavo di arrivare dove siamo arrivati. Per fortuna avevo spalle già larghe, grazie a due grandi maestri: mio padre e Antonio Ghirelli.
F. Recanatesi – Ghirelli?
R. Amodei – Era amico di papà, veniva spesso a cena da noi con sua moglie. Stavo ad ascoltarlo per ore. Un ispiratore non solo per i suoi redattori ma anche per me. Nel mio lavoro ho cercato di seguire la sua filosofia di innovatore.
F. Recanatesi – Inutile chiederti qual è stato il miglior direttore del Corriere...
R. Amodei – Senza far torto a nessuno, Ghirelli è stato il numero uno del giornalismo sportivo, non solo al Corriere ma nella storia d’Italia.
F. Recanatesi – Ti avevo chiesto all’inizio di questa nostra conversazione qual è stato il primo direttore che tu hai nominato.
R. Amodei – Domenico Morace, ottobre 1986. Dopo dieci anni con Giorgio Tosatti. Stavamo raddoppiando la tipografia per le esigenze di Repubblica che faceva tirature mostruose. Con Tosatti sorsero delle divergenze di carattere editoriale. Era stato un ottimo direttore, nel solco tracciato da Ghirelli. Ma dirigere un giornale sportivo logora, genera ansia, crea nuove ambizioni. Tosatti è stato il direttore che più mi è dispiaciuto perdere, ma credo che dieci anni di questo lavoro siano un limite.
F. Recanatesi – Morace era redattore capo al Corriere, poi Italo Cucci, due volte, già direttore di Stadio, Xavier Jacobelli che veniva da Tuttosport appena acquistato dal gruppo, Alessandro Vocalelli che al Corriere era approdato da poppante, infine Paolo De Paola anch’egli sceso dal vostro quotidiano torinese. In mezzo alla cronologia dei tuoi direttori c’è solo l’interregno Sconcerti. Sembra essere una missione del gruppo quella di pescare in casa propria.
R. Amodei – Credo che la conoscenza delle persone, del dna dei prodotti e della filosofia editoriale, cioè la continuità, possa agevolare il lavoro di un nuovo direttore. Hanno avuto tutti successo. Forse solo Jacobelli non è riuscito a integrarsi con la redazione nella maniera giusta. Sconcerti è un’eccezione fino a un certo punto. Mario era stato tanti anni al Corriere prima di fare altre esperienze e diventare un giornalista di primissima fila. Peccato che sia andato via troppo presto.
F. Recanatesi – Dopo cinque anni di successi attraverso i quali il giornale aveva ripreso quota. Perché? So che ambiva a uno sviluppo delle iniziative che non potevi dargli.
R. Amodei – Un giornalista del suo livello, dinamico e riformista, pretende giustamente sempre qualcosa di più e di nuovo. Ma non è stato questo l’ostacolo: Sconcerti era deciso a esplorare nuovi territori, nulla gli avrebbe impedito di accettare l’offerta ricevuta da Vittorio Cecchi Gori di assumere la carica di direttore generale della Fiorentina. Non è finita bene. Mi dispiace, io lo avevo sconsigliato. Mi fa piacere che sia riemerso nel suo mondo ai massimi livelli.
F. Recanatesi – Chi sarà il prossimo?
R. Amodei – Il tandem De Paola con Barigelli condirettore sta portando avanti benissimo il piano di sviluppo del Corriere, dalla gestione quotidiana del giornale all’integrazione fra cartaceo e web. Io spero che durino il più a lungo possibile.
F. Recanatesi – L’acquisto del gruppo Conti e poi di Tuttosport, unitamente al varo di Sport Network, la concessionaria di pubblicità che fattura oltre 50 milioni l’anno, ha creato il gruppo editoriale sportivo più importante d’Italia. Ti fermi qui o in pentola bolle qualcos’altro?
R. Amodei – Non solo il più importante, direi l’unico. Fermarsi mai, andrei contro gli insegnamenti di papà e di Ghirelli oltre che contro la mia natura. Ho creato un gruppo dirigente giovane sempre in movimento sul piano delle idee e della progettualità. Stiamo creando una piattaforma multimediale all’avanguardia, siamo pronti a esaminare ogni opportunità. Per esempio, abbiamo stretto un accordo commerciale con il Milan per iniziative che riguardano dvd e altri prodotti di taglio editoriale e abbiamo da poco inaugurato un’edizione milanese del Corriere con la prima pagina e uno sfoglio interno dedicato per ora al Milan ma a breve anche all’Inter.
F. Recanatesi – Nella tana della Gazzetta? Se ci mettiamo anche l’acquisto della tipografia monzese, ecco la notizia: il Corriere dà l’assalto al Nord.
R. Amodei – Non diamo l’assalto a nessuno, la Gazzetta è una fortezza inespugnabile.
F. Recanatesi – A proposito, cosa pensi di GazzaBet?
R. Amodei – Anni fa ricevetti una proposta analoga, ma non mi sembrava corretto che un quotidiano sportivo aderisse alle scommesse sportive. Ogni venerdì noi accompagniamo il Corriere con un supplemento scommesse, ma sono quote di altri, è un servizio che regaliamo ai lettori. Ma ognuno può pensarla a suo modo.
F. Recanatesi – Low profile, è il tuo stile, era quello di tuo padre. Lavorare sodo, lavorare in silenzio. Ma i risultati arrivano. E gli appetiti crescono. Il prossimo piatto?
R. Amodei – Posso dirti il prossimo desiderio, non so se realizzabile o meno: un giornale generalista. O meglio, un secondo dorso generalista con il Corriere dello Sport. Ne parlava spesso anche papà con Ghirelli.
F. Recanatesi – La Gazzetta lo fa da tempo.
R. Amodei – Lo fa timidamente, all’interno delle sue pagine. Io lo immagino proprio come un secondo giornale. Ma ripeto, è un sogno.
F. Recanatesi – Ci sei dentro ormai da tanti anni in questo folle mondo dello sport e del calcio in particolare: quali personaggi hai conosciuto da vicino?
R. Amodei – Questo lavoro mi ha consentito di fare amicizie importanti nel mondo sportivo e imprenditoriale. A cominciare dall’avvocato Agnelli, che ho incontrato in più di un’occasione. Persona di grande carisma ma imprevedibile. Una volta, a un’anteprima di un film sul calcio di Pupi Avati, c’era Luca di Montezemolo con Edwige Fenech, Romiti e c’era lui, l’avvocato. Che a metà proiezione si alzò e lasciò la sala: durante il rinfresco, l’autista si avvicinò a Romiti e gli disse: “L’avvocato ci ha fregato la macchina”. Con Luca siamo amici di vecchia data. Ho rapporti di amicizia anche con i fratelli Della Valle, con Urbano Cairo e tanti altri. Mi piacerebbe averne anche col presidente della Roma, James Pallotta, che non ho ancora avuto il piacere di incontrare. Con Aurelio De Laurentiis ho condiviso diverse vacanze alle Maldive. C’era anche Cristian De Sica, uno spasso. In vacanza nel mio resort alle Maldive è venuto anche Totti con la famiglia. Conosco bene Ferrero, il nuovo presidente della Sampdoria. Non so che dire... Mi diede appuntamento da Doney a via Veneto e dopo mezz’ora che non riuscivamo a scambiare una parola perché stava incollato al cellulare, mi disse con tante scuse che doveva andar via.
F. Recanatesi – Sembra Claudio Lotito. Un altro tuo amico, se non sbaglio. Ma la tua redazione lo attacca quasi ogni giorno.
R. Amodei – Diciamo che fa poco per evitarlo. Non ha l’animo sanguigno del tifoso, ma gli riconosco il merito di avere rimesso a posto il bilancio e di avere messo la faccia, solo lui, nel tentativo di promuovere delle riforme. Sai, io sono laziale, mio padre era laziale, la famiglia Amodei ha una tradizione laziale. Certo che dopo i fasti di Cragnotti per Claudio è dura.
F. Recanatesi – Tavecchio (neo presidente della Federcalcio: ndr) è una sua creatura.
R. Amodei – Non lo so, si dice.
F. Recanatesi – Chissà quante lamentele riceverai da presidenti, giocatori, arbitri...
R. Amodei – Fra Corriere dello Sport e Tuttosport non poche. Il Moggi juventino, persino Sensi che mi conosceva da bambino. Dino Viola mi telefonava quando il giornale muoveva qualche critica alla Roma e cominciava sempre così: “Tu che sei laziale…”.
F. Recanatesi – polemiche a non finire, insulti anche pesanti, risultati modesti in campo internazionale. Che calcio è questo?
R. Amodei – Lo sport è lo specchio del Paese. Oggi il calcio attraversa la stessa fase precaria dell’Italia. Il calcio è un’industria, questo i tifosi spesso non lo accettano. Un’industria naturalmente in crisi. Il nostro serbatoio giovanile è quasi a secco perché i presidenti puntano sugli stranieri che costano di meno e fanno incassare di più. Le società dovrebbero investire sui vivai. Mi piace la proposta di limitare la presenza in campo degli stranieri. Non l’accesso in Italia, ci mancherebbe, solo la presenza nelle formazioni che vanno in campo.
F. Recanatesi – Qual è lo stato di salute della tua corazzata, il Corriere dello Sport?
R. Amodei – Molto buono, considerato l’andamento attuale del mercato editoriale. Grazie a una redazione fantastica che lavora in simbiosi e con grande entusiasmo. Il nostro è un mercato sempre in oscillazione, in balìa dei risultati delle nostre squadre. Intendo di Roma e Lazio, Napoli e Juventus soprattutto. Per fare degli esempi: la vittoria della Roma ci dà un 30% in più, quella della Lazio, con un tifo meno fegatoso, un 20%. Abbiamo una buona tiratura anche al Nord, popolato da molti tifosi del Sud.
F. Recanatesi – Tuo padre ti ha insegnato tanto, ma che padre è stato?
R. Amodei – Non molto presente. Stavo per dire una meteora nella mia infanzia. Il nostro rapporto è migliorato da quando abbiamo potuto frequentarci. Sul lavoro. Non dava soddisfazione ma apprezzava il mio impegno, la mia dedizione. Devo dire che io non ho fatto di meglio né con le due figlie. Diletta e Francesca, né con mio figlio Marco. A 62 anni mi accorgo di non essermi reso conto del tempo che passava e delle persone che mi circondavano. Lo dico amareggiato, ma consapevole che questa professione tutto ciò lo rende inevitabile.
F. Recanatesi – Di cosa vai orgoglioso, allora?
R. Amodei – Di quel che ho realizzato e di come sono riuscito a realizzarlo, creando un’azienda variegata ma lasciando a ogni componente del gruppo la propria autonomia, societaria e direzionale. Dando fiducia ai giovani, a cominciare da mio genero Marco Arduini che mi affianca da cinque anni, e soprattutto adottando la politica di reinvestire sempre nell’azienda i profitti che la stessa ha generato. Come papà, mi auguro che il risultato di tanta fatica e di tante assenze possa essere raccolto dai miei figli: le due ragazze appena liberate dall’impegno stringente dei bambini, mio figlio Marco, appena conclusi gli studi universitari. Ha 21 anni ma è già quasi pronto. Ho la garanzia che quando sarà il momento, l’azienda cadrà nelle giuste mani.
Intervista di Franco Recanatesi