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 2014  ottobre 26 Domenica calendario

SERRA, ROCKSTAR SPERICOLATA

Scena prima, mattina, ore 10. Gennaro Migliore assiste in piedi al dibattito del tavolo per le «aree metropolitane» coordinato da Dario Nardella, e spiega le prime due idee di sinistra che vorrebbe portare a Renzi, «una legge sulla rappresentanza sindacale, cosa per cui si batteva la Fiom, meno la Cgil; e l’abolizione delle 44 forme di contratti precari previste dalla legge 30». C’è spazio per farlo, in questo mondo? «Sono certo di sì, sennò non sarei qui».
Scena seconda, le 11 e un quarto, poco prima di iniziare la discussione, davanti al tavolo sulla finanza. Davide Serra, proprietario del Fondo Algebris e finanziatore principe del renzismo, racconta: «Ieri in media 40 aziende hanno chiuso, e 500 persone sono state messe in disoccupazione, così c’era lo sciopero degli operatori aeroportuali. Per venire da Londra a Firenze ho avuto sei ore di ritardo. Parlavo con due imprenditori inglesi che erano con me e mi fanno ’Sai che ti dico Davide? Magari andiamo a investire in Spagna’. Qui in Italia domani sciopera un pompiere, un carabiniere, tu (dice rivolto a un giornalista), a random (testuale)...». Si appassiona e calca la mano: «Lo sciopero mica è un diritto! È un costo!». Qualcuno dei presenti fa timidamente osservare qualche remoto decennio di conquiste dei lavoratori, allora Serra si corregge un po’: «Siete in duemila? Volete scioperare? Benissimo, esercitate questo diritto, io me ne vado altrove. Già sta succedendo».
A quel punto vanno altrove anche alcuni dei militanti che erano lì intorno; ma errato sarebbe giudicare col sopracciglio alzato ciò che afferma l’uomo di finanza: è soltanto uno che dice ciò che pensa, fin quasi all’inverosimile. Dopo un po’ tutti lo correggeranno, Renzi, Graziano Delrio, Debora Serracchiani, ma Serra è come il fool che grida in faccia al mondo la verità (secondo lui) del gruppo cui appartiene. Ha i soldi, li ha fatti da solo, e ce lo ricorda.
Questo, unito a una presenza scenica da attore hollywoodiano (degli anni cinquanta, alto, le basette scolpite, i capelli con la sfumatura, i lineamenti molto regolari, la sciarpa bordeaux così alla Cary Grant), ne fa una star totale, qui. E a lui piace. Dice di condividere il Jobs Act, «anche se lo volevo un pelo più aggressivo». Ama raccontarsi e annuncia: «Prenderò la tessera del Pd alla sezione di Londra». Al tavolo spiega anche - con disegnini curiosamente dalemiani - perché è molto meglio un fondo di private equity che una banca, per finanziare l’economia. «E ai miei figli dico: potete non essere i primi in inglese, ma dovete essere i primi in matematica».
È un peccato che un’esibizione tale finisca per oscurarne altre di diverso tipo - come la foto nazionalpopolare di Renzi con Fabio Volo - o il tavolo sulle riforme della «Mari», la Boschi, venerata come le lezioni di Deleuze dagli studenti della Sorbona, tutti in circoli concentrici intorno. Oppure le tante buone idee che vengono dalle discussioni, Ivan Scalfarotto che propone di abolire gli stage non pagati, «è schiavitù»; Caterina Perniconi che al tavolo sulla comunicazione propone di fare un vero database digitale degli elettori delle primarie, sul modello dei big data obamiani che tutti citano senza davvero usarli, per coinvolgere elettori, specie i giovani; i tanti imprenditori o manager rilevanti (alla fine è venuto anche Andrea Guerra), per esempio Vincenzo Novari, ad di H3g, spina dorsale di un capitalismo di sistema ormai pro Renzi (aziende oltre i 300 dipendenti, da Bertelli a Cucinelli o Farinetti). Con Renzi che ha dovuto tornare a fare lui il dj dal palco perché la conduzione suonava un po’ moscia.
È un peccato anche che il circolo stretto - Luca Lotti, Marco Carrai - sia poco incline alla prima sala, e se ne stia sempre dietro le quinte. Il che non impedisce di incontrare Lotti nei corridoi. Naturale, nel giorno dello show di Serra, domandare della Fondazione Open: «La differenza tra noi e, per esempio, quella di Letta, è la trasparenza totale, c’è tutto scritto». Mancano i nomi di tanti finanziatori. «Sono loro che hanno voluto così». Un sorriso e il Frank Underwood della Leopolda saluta gentile e se ne va.