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 2014  ottobre 26 Domenica calendario

CARO ALI TI VOGLIO BENE

Il cuore di tenebra si sbriciolò di notte, quaran’anni fa. Cadde a terra, e fece un rumore pazzesco. Quello del secolo. Spazzò via le linee d’ombra sul fiume Congo. Era il 30 ottobre, a Kinshasa, Zaire. Quel cuore diventò più nero e africano. Per la prima volta un ring fece meglio e più di Shakespeare: illuminò una tragedia, spiegò uomini e continenti, rivoluzionò sport e società. È passato alla storia come “Rumble in the Jungle”. Ali-Foreman era il campionato del mondo dei pesi massimi. Fu molto di più. Guerra estetica, esistenzialista, religiosa (per Norman Mailer). Inno alla negritudine. Per la prima volta i protagonisti erano tutti neri: dal paese, all’arbitro, all’organizzatore, ai contendenti, agli spettatori. Un total black mai visto. E molto azzardato per i tempi. Ali, trentadue anni, tornato a combattere da quattro stagioni, era lo sfidante. Il titolo non lo aveva perso sul ring, ma gli era stato tolto nel ‘67 per il suo rifiuto ad arruolarsi contro il Vietnam. George Foreman, venticinque, era il campione giovane, imbattuto, e grande favorito. Aveva uno sguardo torvo che è diventato gioviale. Oggi Big George ha sessantacinque anni, molte vite, affari, cinque mogli, dieci figli, tanti milioni in banca, e una bella circonferenza. Veste da businessman. Ha fatto fortuna vendendo bistecchiere che eliminano il grasso. È sceso dal ring nel ‘97. Con altra fama e rispetto da quando c’era salito. Lui quella notte perse tutto. E non ci era abituato. Quei ventiquattro minuti lo hanno fatto barcollare per vent’anni. E poi gli hanno insegnato a stare di nuovo in piedi.
Com’era Kinshasa nel ‘74?
«Stavo in albergo, mi allenavo, non andavo in giro. Ero ignorante: non sapevo fosse l’ex Congo belga, che la città prima si chiamasse Leopoldville, né che Mobutu avesse preso il potere nel ’65. Ero all’oscuro delle carestie, del fatto che il 65 per cento della popolazione fosse analfabeta. Non ero il solo. Qualcuno provò a mandarmi un pacco da Washington e l’impiegato chiese: lo Zaire è un’isola nel mar del Giappone?».
Spike Lee, il regista, dice che a quei tempi dire africano era un insulto.
«Be’ non era un complimento. A chiamare
africano un nero rischiavi il pestaggio. I neri erano scimmie che dovevano tornare in Africa, nella foresta. Lo pensavano in molti. Africano equivaleva a primitivo e selvaggio. Gli americani avevano il progresso, invece l’Africa era una giungla. A me lì mancavano soprattutto i miei amati cheeseburger. Kinshasa era stata ripulita. Scrissero che Mobutu aveva radunato nel nostro stadio i peggiori criminali e ne aveva fatti fuori parecchi. Eliminò anche chi aveva sbagliato a stampare il suo nome nei biglietti, una oal posto della u, e zac, niente più vita. Don King, l’organizzatore, dovette cambiare poster pubblicitario. Il primo recitava: “Dalla nave degli schiavi al mondiale”».
LEI scese dall’aereo a Kinshasa accompagnato da un pastore tedesco.
«Era un volo Pan-Am. Il cane si chiamava Dago. Viaggiò con me in prima classe, seduto accanto, me lo permisero. Invece quando andai a Kingston, in Giamaica, per l’incontro con Frazier, non me lo fecero portare».
Quei cani non erano un bel ricordo.
«Ancora? Hanno scritto che erano i cani della polizia belga e che la gente ne era terrorizzata. Non è vero, Dago giocava con gli africani, nessuno ne aveva paura. E io che avrei dovuto dire quando Mobutu mi regalò un leone?».
Ali si acclimatava, lei si tuffava nell’aria condizionata.
«E che male c’era? Avevo già combattuto in Giamaica, non al Polo Nord. E da un anno mi svegliavo alle tre del mattino per ricreare la stessa situazione del match. In allenamento il mio sudore lasciava macchie di due metri sul pavimento. Ali fu più abile di me: lui sembrava il nero, io il bianco. Eppure il mio staff era nerissimo, il suo invece bianco. Il suo allenatore Dundee e Pacheco, il medico, non avevano mica la pelle scura. Io però non ero un bel tipo: sempre scontroso, minaccioso, arrabbiato».
E ai Giochi del ’68 aveva sventolato le bandierine americane dopo i pugni neri di Smith e Carlos.
«Mi diedero del servo. Avevo appena vinto l’oro e volevo dire che amavo il mio paese. Erano anni di contestazione per i diritti civili. Giusto e sacrosanto protestare. Ma ci deve essere la libertà per tutti. E io non ho fatto sport per diventare agitatore politico. E nei ghetti i ragazzi non giocano a basket e football per dare voce alle critiche sociali. Lo fanno per divertirsi, non per le buone azioni. Non mi pento di quel gesto, anzi ne sventolerei sei di bandierine. Ma passare per uno che non ha conosciuto povertà e ingiustizie, questo è troppo. Mia madre era sola, faceva la cuoca per mantenere noi sette figli, al lavoro non gli era permesso mangiare il cibo che cucinava».
Sua madre Nancy gliele dava?
«Sì, per farmi rigare dritto. Cinghiate, si sedeva sopra di me e mi teneva fermo con la lotta. Ero alto e grosso, immobilizzarmi non era facile. Povera mamma, non voleva bugie. E io non ero uno stinco di santo. A Houston, avevamo un buco a Fifth Ward, il ghetto che tutti chiamavano Bloody Fifth. Drogati, spacciatori, assassini. Mi ubriacavo, spaccavo vetri e taglieggiavo chiunque passasse da quelle parti. Non mi servivano armi. Bastavo io. Il mio idolo era Sonny Liston. Volevo essere come lui. Cattivo, sbagliato, spregevole».
Ci è riuscito.
«Fino a quella notte. Sono salito sul ring assolutamente convinto di essere invincibile. L’avrei pestato e ammazzato a quello, ne ero sicuro. Mai sfiorato dal dubbio. Avevo appena massacrato Frazier per ko, l’avevo spedito al tappeto sei volte in 275 secondi. Ero il campione del mondo. Tanto che quando Ali disse che stava raccogliendo soldi per un ospedale risposi di non preoccuparsi: ce l’avrei mandato io. Ken Norton aveva appena fratturato la mascella di Ali, a me nessuno aveva mai fatto male. Lui era vulnerabile, io no».
Ali era musulmano, lei si allenava con i gospel.
«Sì, ma non leggevo la Bibbia, anche se l’avevo portata, per me erano solo stupidaggini. Ascolti, ora le canto What a Friend You Have in Jesus di Aretha Franklin. Dio, che bella canzone. C’è quella strofa che fa: who will all our sorrows share? » Se la cavava bene anche a cazzotti.
«Mi bastava un colpo per abbattere. Un vandalo con i guantoni. Prepotente e devastante. In allenamento sparavo cinquanta pugni al minuto. Per una ripresa di tre minuti fanno centocinquanta pugni consecutivi. Adesso mi chiederà se quel coro: “ Ali, boma ye!”, “Ali uccidilo”, mi ha fatto male dentro. La verità è che non l’ho udito. Allo stadio c’erano cinquantamila persone. Io ero come autistico, allora. Però quando lo picchiavo con tutto quello che avevo l’ho sentito sfottermi: “Tutto qui, George?”. Era la settima ripresa. Io ero stanco, lui sfiancato, ma provocava».
Ali invase l’Africa, lei la subì.
«All’ottava ho pensato: lo faccio venire avanti, appena si scopre, lo metto ko. Il suo destro mi ha preso in contropiede, sono finito a gambe all’aria, e quando ho sentito l’arbitro dire “otto” era troppo tardi. Ali ha parlato di strategia. Per me ne aveva solo una: sopravvivere. Non inseguo più altre interpretazioni. Ali è una persona e un uomo straordinario. Il più grande di tutti. Ho perso da un campione immenso. Nel ’96 agli Oscar l’ho aiutato a salire i gradini. È stato un onore, non una vendetta per la sua sciagura fisica».
Come fu il suo dopo?
«Terribile. Peggio di un funerale. Tutto che quello che volevo e avevo non c’era più. Essere campione del mondo era l’unica mia identità e ora non ero più nessuno. Ero senza pace. Andai a Parigi, provai con il sesso, con le donne. Comprai tigri, leoni, ville, sfarzo, ma non funzionò. Tornai a casa per scoprire che anche mio zio e mio cugino mi avevano puntato contro. La mia famiglia aveva scommesso contro di me. L’attore Bob Hope, che prima mi aveva invitato in molte trasmissioni, fece finta di non conoscermi e non mi chiamò più. Mi accorsi di essere inviso. Comprai una Rolls, perché mi seccava rientrare nel mio quartiere senza gloria. Ma il colpo più duro me lo diede mia sorella Gloria: “Non ti sei accorto che sei diverso da noi?” Le chiesi in che senso. “Non ci assomigli perché il tuo padre biologico è un altro. Si chiama Leroy Morehood, è un veterano di guerra”. Andai a conoscere il mio vero papà, giusto in tempo prima che morisse».
Non c’è mai stata la rivincita con Ali.
«La volevo, eccome se la volevo. L’ho inseguita per anni. Ma Ali non me l’ha mai data. È il più grande, mica il più matto. Non sto dicendo che abbia avuto paura, Ali non è quel tipo, e la sua storia lo dimostra, anche se sta male resta un eroe importante per l’America. Però conveniva che era meglio non affrontarmi ».
Nel ’77 lei ha avuto una visione.
«Sì, Dio mi è apparso. In uno spogliatoio di Portorico, avevo appena perso ai punti con Jimmy Young. La mia testa perdeva sangue. Sono morto e risorto. Mi sono messo a baciare tutti sulla bocca, pensavano che non ci fossi più con la testa ».
Allucinazioni per forte disidratazione, disse il medico.
«Dio mi dava la pace e mi indicava la strada. Bisognava avere fede. L’ho avuta e mi sono messo a predicare. Ho venduto la Rolls, la villa a Beverly Hills, ho regalato le mie quindici tv, ho aperto una casa per la gioventù, mi sono preso cura dei ragazzi. E ho lasciato la boxe. Preferivo il titolo di reverendo».
Dieci anni dopo è tornato sul ring.
«A quarantasei anni. Avevo contro tutti. Dicevano che ero troppo vecchio, lento, grasso. Come un destino all’incontrario ho rivissuto il match con Ali, ma stavolta nei suoi panni c’ero io. Invece nel ’94 batto Michael Moorer, che poteva essere mio figlio, e divento campione mondiale dei massimi. Venti anni dopo Kinshasa. Indossavo gli stessi calzoncini di velluto rosso di allora. È stato bellissimo. Avevo più grazia, ero meno animale, più consapevole. Come se avessi imparato da Ali a ballare un po’ anch’io. Mi sono inginocchiato, ho pregato, ho pensato a quella notte africana che mi aveva fatto soffrire così tanto. Non esisteva più, tutto quel dolore per niente. Era stata solo una grande occasione che io non avevo capito. Se l’avessi fatto, avrei abbracciato Ali e gli avrei detto che quella notte era un’alba che ci apriva un grande futuro. Per questo gli voglio bene. Non è più un nemico. Condannandomi, mi ha fatto rinascere. Non rinnego quel Foreman pieno di odio e di rabbia, è un altro me, ma mi trovo meglio ora. Certo, quando vedo i miei figli che non riescono nemmeno a pronunciare bene la parola poor, povero, e quando sento che si ritengono tali perché hanno un solo cellulare, penso che non si rendono conto della vera miseria in cui sono cresciuto io».
I suoi cinque figli maschi si chiamano George.
«Eh sì, anche se hanno soprannomi, c’è sempre un po’ di confusione quando si pronuncia quel nome. Anni fa scherzando dissi che era più comodo per quando avrei perso la memoria, in realtà credo sia dovuto al trauma di aver saputo che mio padre era un altro. Voglio che non abbiano dubbi, è sempre Big George ad averli generati».
L’Africa non ha più avuto una notte così.
«Nemmeno io. E forse nemmeno il secolo.
Nella mia carriera ho una sola sconfitta per ko.
Quella. In ottantuno incontri sono stato dominato solo una volta. Quella. È stata la mia salvezza. E voglio festeggiarla. Chiamerò Ali e gli dirò grazie».