Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 26 Domenica calendario

T-SHIRT, SCARPE E BORSE: JULIAN COME IL CHE. ECCO IL BRAND ASSANGE

In principio fu il verbo. Alla fine fu la t-shirt. La rivoluzione di Julian Assange, del fondatore di WikiLeaks che scosse le cancellerie e i palazzi del potere, passa dalla rivelazione dei segreti altrui alla vendita di maglie, borse, pennette usb, scarpe e tutto ciò che il suo nome e il suo volto possano vendere. Naturalmente, e ufficialmente, per la Causa.
La transizione da martire della trasparenza a “brand” per negozi di souvenir, a marchio per fare merchandising globale come un Michael Jordan, un Leo Messi, un Paul Newman, una Jessica Simpson o una Coca Cola qualsiasi, non è stata — ricostruisce il New York Times che ha prodotto la fuga di notizie sul profeta della fuga di notizie — idea sua. L’ha avuta un astuto uomo d’affari islandese, Ólafur Vignir Sigurvinsson, che già aveva collaborato con lui affittandogli un server per i dati.
Sigurvinsson, che doveva avere letto, come certamente Beppe Grillo in Italia, un fondamentale saggio del 1997 intitolato La commercializzazione del dissenso, nel quale si spiegava come anche le pulsioni e gli eroi antisistema diventino poi perfetti veicoli di vendita e di profitti dentro il sistema, ha avvicinato Assange nel suo esilio londinese presso l’ambasciata ecuadoregna. Con l’esempio luminoso della foto del “Che” con il baschetto, il santino di Ernesto Che Guevara scattato dal fotografo Albert Korda nel 1960 e riprodotta su milioni di indumenti, dai giubbotti ai bikini, l’islandese ha spiegato ad Assange la fantastica commerciabilità del suo volto e del suo, appunto, “brand”. E Assange, secondo il New York Times , si è facilmente lasciato convincere.
Il meccanismo della cooptazione dell’antisistema nel sistema si deve però fondare sul gradimento del rivoluzionario da maglietta e del guerrigliero da zainetto. Assange, che per primo fece diffondere messaggi segreti, cablogrammi imbarazzanti, immagini rubate ai computer del governo americano, demolendo la propaganda di Washington più di mille attentati, ha un indice di gradimento e di riconoscibilità altissimo. Con l’eccezione comprensibile degli Stati Uniti, la percentuale di fan dell’australiano è attorno all’80 per cento e potrebbe essere eletto senatore australiano in contumacia. Un dato troppo ghiotto per non solleticare l’appetito dei “marketer”, dei moschettieri di mercanzia su licenza.
La gamma dei prodotti che porteranno il volto stilizzato di un ben pettinato Julian Assange e il suo appello a “Tell the Truth”, a dire la verità, è vertiginosamente infinita. Tutto il catalogo dei “tchotchkes”, come nello yiddish alla newyorkese si chiamano le cianfrusaglie e i capi inutili che ballano per casa, si presta allo sfruttamento commerciale del marchio. Già oggi si vendono bene magliette con il marchio di WikiLeaks stritolato da un panzer, zatteroni con tacchi altissimi per signore della inglese Russel & Bromley per 200 euro, borse della spesa per ben 250. Ma nessuno dei prodotti con il nome o il volto, del profeta della trasparenza fruttava un solo centesimo ad Assange e l’intervento dell’affarista islandese metterà fine a que- sto scandalo.
Un volume di 46 pagine, con tutte le indicazioni grafiche, i criteri, i colori da utilizzare per Wiki-Leaks e Assange, e naturalmente le commissioni da versare, è stato approvato da Julian. Un contratto è già stato firmato con un gigante indiano delle produzioni di paccottiglia su licenza, la Bradford Licensing India, che controlla il diritti per i marchi di Penthouse e della lega basket americana, la Nba, poi con la Paris Arabesque, detentrice di tutto il merchandising attorno a Marilyn Monroe ed Elvis Presley. «WikiLeaks può diventare una delle Top 100 brand del mondo» gongola l’islandese, spalla a spalla con le regine del marketing come MacDonald’s, Coca, Pepsi, Apple, Playboy, Disney.
Mischiare la purezza rivoluzionaria di WikiLeaks e di Assange con le orecchie di Topolino o le conigliette di Hugh Hefner potrebbe turbare i fondamentalisti, se non fosse per la Causa. Ma le leggi del consumismo che si crede anti-sistema hanno ampiamente dimostrato come non sia necessario essere comunisti per venerare i santini del “Che” né avere visitato i tempi di Disney per comperare peluche in un Disney Store.
Basterà che milioni di clienti, soprattutto nella fascia più appetita, quella fra i 16 e i 40 anni, vogliano sentirsi parte di un movimento globale per la “verità” e manifestino i propri palpiti rivoluzionari comperando uno zainetto o una felpa. Le insidiose contraddizioni ideologiche fra la sfacciata commercializzazione capitalistica di prodotti fabbricati in India e le intenzioni disvelatrici degli orrori capitalistici di WikiLeaks non distoglieranno i clienti più di quanto non li turbi portare sulle mutande dei bikini il volto austero del Che.
Non è stato rivelato quale percentuale andrà nelle tasche di Julian Assange, afflitto da costosi procedimenti penali per molestie sessuali in Svezia con richiesta di estradizione e atteso dalla minaccia di processo per spionaggio semmai mettesse piede negli Usa. Ma ai futuri consumatori di t-shirt, di cappellini e di altri prodotti autorizzati (occhio alla mercanzia taroccata) poco importano i rischi di incoerenza. Come coloro che indossano la biancheria autorizzata da Micheal Jordan si sentono per un istante giganti del basket, così i compratori della “Linea Assange” potranno avvertire, all’atto dell’acquisto, l’inoffensivo brivido della trasgressione contro il Grande Fratello. Arriva la rivoluzione e finalmente ho qualcosa da mettermi.