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 2014  ottobre 25 Sabato calendario

«CHE FELICITA’ RACCONTARE LA PAURA»

A 74 anni la frangetta si è ritirata dalla fronte, la faccia ha attenuato gli spigoli, lo sguardo si è fatto meno allucinato. Ma quasi fosse un brand, Dario Argento è rimasto più o meno lo stesso dei primi film, L’uccello dalle piume di cristallo o Il gatto a nove code, quelli della fama planetaria, incassi milionari e sulle locandine le false frasi di lancio attribuite a Hitchcock: «Questo italiano comincia a preoccuparmi...». «Non mi applicavo mica per avere un aspetto strano. Ma negli aeroporti ero sempre quello che veniva fermato. Una volta, all’ingresso del miglior ristorante di Zurigo, mi scacciarono malamente. Ero in jeans e capelli lunghi, abbastanza straccione. Mio padre ebbe un accesso di collera. Io, già famoso, non mossi un muscolo, c’ero abituato». Il fisico entra ed esce molto nell’autobiografia di Argento, pubblicata da Einaudi e intitolata seccamente Paura: film, amori, paternità («con Asia c’è grande affetto e molto conflitto. Non ci siamo parlati per due anni quando nel 2004 rifiutò di lavorare nel mio film Il Cartaio») ma soprattutto i punti slegati della sua vita uniti in un disegno, cercando di capire perché la paura ne ha preso possesso, fino a diventare un’ossessione splendente. «Ho sempre provato una felicità assoluta non tanto nel fare paura, ma nel raccontarla.

Avevo una dote: far galleggiare la mia parte oscura, darle un corpo». E magari, attraverso lo spettacolo sontuoso della morte cinematografica, contenerla. Perché se non c’è nessun trauma familiare visibile, tutto nasce da dentro, pericolosamente. Genitori uniti, un fratello e una sorella. Il padre promuove il cinema italiano all’estero, la madre è una Luxardo, lo studio fotografico in cui passano tutte le dive italiane. «Ero sempre lì, un ragazzino, dunque inesistente: davanti a me femmine bellissime si spogliavano sfilando velocemente i vestiti dalla testa…».

«Il sentirsi diverso da tutti» comincia presto: «Secco, Smilzo, Mathausen erano i soprannomi che mi appioppavano i compagni di scuola. Ci sono state anche aggressioni da parte di quelli che usura e consuma le forze: «Intorno a me tutti avevano interessi normali. Io no, solo fissazioni divoranti: prima i libri, soprattutto Edgar Allan Poe, e poi la sala buia, lo schermo gigante del cinema che annulla la grigia realtà. È sempre stato così. Quando faccio un film è come se fossi in una stanza con le finestre chiuse, ed è la mia vita reale. Poi apro gli scuri e vedo un panorama abbagliante, popolato di ombre: e quella è la mia vita vera». Ci vuole molta attrazione verso se stessi, molta solitudine. «Tra tutte le persone che conosco credo di essere una delle più solitarie».

Anche in amore: «L’euforia totale l’ho provata solo quando si chiudeva una relazione. La libertà riacquistata, il non dover più rendere conto di quello che fai o sei. Ricordo la fine con Daria Nicolodi, la madre di mia figlia Asia. Mi avevano trovato una casa vicina alla scuola di Fiore, la mia primogenita. Non avevano allacciato nemmeno l’elettricità. Tutta la sera abbiamo guardato un televisorino a batteria, da soli. E in quel momento l’ho pensato: è il giorno più bello della mia vita». Perciò, ci sono state tante donne nella storia di Argento, ma non sembrano loro la chiave che apre le porte di casa, non sono loro a reggerne le fondamenta. A parte l’iniziazione con due prostitute che lo ospitano a Parigi, dopo l’abbandono scolastico, a 15 anni («Mi avevano adottato e mi davano anche lezioni di sesso»), c’è Marisa, la prima moglie; poi il rapporto burrascoso con Marilù Tolo, una delle attrici più desiderate del tempo; e Daria Nicolodi, conosciuta sul set di Profondo rosso. Sembra la volta giusta. «Ma a un certo punto cominciammo a vivere in modo diverso. Ci sono sempre nuovi incontri che ti separano da una relazione. E se cerchi di riprenderla è peggio».
La tendenza a tagliare di netto e senza sforzo è più generale, illumina brevemente cose e abitudini. L’hashish: «Uno dei piaceri della vita, dai 30 ai 70 anni ne ho fatto uso quotidiano. Non è stato difficile smettere per ragioni di salute, però che peccato!». La cocaina: «A Hollywood la offrivano su enormi vassoi d’argento durante i party. Un mio amico regista ormai viveva recluso in cantina a distillarla. Io l’ho usata, poi stop. Non ho mai capito la dipendenza».

Anche con le persone è come se chiunque sia sostituibile e nulla rimanga davvero se non fluttuando sotto forma di ricordo nella testa. Tra le amicizie perdute ci sono Sergio Leone e Bernardo Bertolucci: «Insieme abbiamo fatto il trattamento di C’era una volta il West. Noi due eravamo giovani, Leone già famosissimo. E gli intoppi li risolveva a modo suo. Una volta non riuscivamo ad andare avanti, si eclissò in bagno, non ne usciva più, poi dopo ore spalancò trionfante la porta: ho trovato! Si sottovalutano sempre i benefici effetti dell’andare di corpo». Ma anche collaboratori storici come Michele Soavi sono cancellati: «L’ho incontrato di recente e quasi non lo riconoscevo. Eppure per anni abbiamo condiviso tutto.

Non è strano che in una vita così esposta agli spifferi dell’inconscio, così illuminata dall’idolo Freud, «un genio che ha rivoluzionato tutto», Argento non sia mai andato in analisi? «C’è stato un periodo in cui ero davvero troppo magro. In una di quelle cliniche svizzere dove ti rivoltano come un calzino le analisi risultarono perfette. Chiesi al professore: perché sono così magro se non ho niente? Risposta: perché vuoi sapere tutto rischiando di cambiare e di non fare più le cose belle che hai fatto?».
Bordeggiare sulla materia oscura senza caderci dentro, esporsi all’opacità interiore ma lasciandola grezza, e tutto per alimentare l’immaginazione: la scommessa riesce sempre, fino all’inverno del 1976. Argento vive all’Hotel Flora. Su consiglio di un medico ha fatto spostare l’armadio davanti alla porta finestra. E il motivo c’è: si è separato, non vede la piccola Asia da un pezzo, la lavorazione di Suspiria l’ha stremato. «Mi ritrovavo a pensare: a che serve quello che faccio? Chissenefrega? Ero attratto da un sonno lungo, senza cattivi pensieri, un sonno dal quale non ci si sveglia. E una notte, mi ritrovo a un passo dalla porta finestra, il vuoto mi chiama irresistibilmente… Ma l’armadio mi sbarra la strada…».

Argento dice che l’ha salvato questo. Eppure, c’è qualcosa di più che non viene da fuori ma da dentro, come lo scatto automatico verso il gesto più ricorrente, l’unico in cui identificarsi davvero: il talento di immaginare le cose, la capacità di vedere la morte un attimo prima di viverla davvero: «Pregusto già l’abbraccio dell’aria, il vento nei capelli, il fischio nelle orecchie, avverto l’impatto violentissimo e poi il corpo che si sfracella». Come la scena da brivido di un suo film. L’unico che al regista del brivido, per fortuna, non riesce.