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 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

LA STORIA DEL PROCESSO SULLA PRESUNTA TRATTATIVA STATO-MAFIA, TRA PAPELLI, PATACCHE E PENTITI. LA TESI DI FONDO È CHE VENT’ANNI FA POLITICI, MAFIOSI E MILITARI AVREBBERO STRETTO UN ACCORDO. SONO DIECI GLI IMPUTATI ECCELLENTI


È il 27 maggio 2013 quando il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo prende la parola nell’aula bunker dell’Ucciardone. «Qui non si tratta di processare lo Stato o rifare la storia. Si tratta di fare un processo penale nel quale si accertano i fatti e le responsabilità», dice. Aprendo così un procedimento che definisce «un atto di giustizia».
Un anno e mezzo dopo «fatti e responsabilità» sono ancora da mettere in fila, le udienze sono riprese il 9 ottobre e le prove che si formano in dibattimento vanno a corrente alternata. Per un pentito Angelo Siino che racconta delle visite in ospedale dei carabinieri Giuseppe De Donno e Mario Mori «per convincermi a collaborare», c’è l’altro pentito Francesco Di Carlo che confonde luoghi e sbaglia le date di un presunto vertice con Salvo Lima.
DIECI IMPUTATI
Nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia la Corte d’Assise è chiamata a giudicare dieci imputati. Mafiosi, politici e ufficiali dell’Arma, che secondo l’accusa vent’anni fa si sedettero attorno a un tavolo per concordare una strategia di distensione e mettere fine al periodo stragista che tra il 1992 e il ’93 insanguinò il Paese. A occuparsi dell’inchiesta furono il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, i pm Lia Sava, Antonino Di Matteo e Francesco Del Bene, che a novembre 2012 inviano al gip una memoria nella quale rivendicano l’accuratezza del loro lavoro. «L’approccio di questo Ufficio con il materiale probatorio non è stato certamente pressapochista, né superficiale (come spesso si è inopinatamente affermato), bensì estremamente rigoroso nella valutazione delle prove», scrivono i magistrati. Il giudice dà loro ragione e rinvia a giudizio gli imputati: cinque membri di Cosa nostra (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà) e cinque rappresentanti delle istituzioni (Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri), tutti accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Massimo Ciancimino è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino risponde del reato di falsa testimonianza e Provenzano di concorso nell’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima. Sostiene l’accusa: «Gli imputati hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato italiano e in particolare del governo della Repubblica».
La trattativa sarebbe nata dalle aspettative deluse dei boss di Cosa nostra, quando il 30 gennaio ’92 la Cassazione confermò gli ergastoli del maxiprocesso. La mafia decise allora di regolare la questione a modo suo, stilò un elenco di politici da uccidere (Salvo Lima, Giulio Andreotti e i loro figli, Calogero Germanà, Carlo Vizzini, Calogero Mannino, Claudio Martelli) e si attivò per cercare nuovi referenti politici. E qui spunta il celebre "papello" con cui Totò Riina poneva le condizioni per far cessare le stragi, tra cui la revoca del carcere duro per i mafiosi. Vengono intercettate alcune telefonate tra Loris D’Ambrosio, allora consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e Mancino, colloqui che hanno portato al conflitto istituzionale tra il Quirinale e la Procura di Palermo. E tra i 178 testimoni citati dai pm ci sono il anche capo dello Stato e il presidente del Senato Piero Grasso. «Quando la verità dovesse riguardare elementi di colpevolezza a carico dello Stato, lo Stato non può nascondere eventuali responsabilità sotto il tappeto», ha affermato il pm Di Matteo.
LE PERPLESSITA’ DELLA DNA
Il 6 novembre si torna in aula, la sentenza non arriverà prima dell’anno prossimo e il verdetto è aperto. Perché sul caposaldo dell’accusa, il ”papello”, pendono forti incognite di autenticità, mentre la Direzione nazionale antimafia ha sollevato dubbi sul procedimento. Due sono gli elementi critici: la contestazione del reato che porrebbe problemi interpretativi e l’assoluzione di Mori e del colonnello Obinu per la mancata cattura di Provenzano. «Tale processo presenta significativi collegamenti sia probatori che sostanziali con quello in argomento e il suo esito non può non destare oggettivi motivi di preoccupazione per l’impostazione del processo trattativa».