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 2014  ottobre 28 Martedì calendario

Notizie tratte da: Christian Dior & moi. L’autobiografia di Christian Dior, Donzelli 2013, pp

Notizie tratte da: Christian Dior & moi. L’autobiografia di Christian Dior, Donzelli 2013, pp. 217, 22 euro.

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Normanno Christian Dior nato a Granville il 21 gennaio 1905, da Alexandre-Louis-Maurice Dior, un industriale che possedeva fabbriche di concimi e prodotti chimici, e Madeleine Martin, casalinga. Mezzo normanno e mezzo parigino, da sempre legato al suo paesino natale. Amava le serate intime con gli amici, detestava il chiasso e la mondanità. Di sé diceva di aver un alter ego, «un sarto che lavora in avenue Montaigne, che esprime la sua vita attraverso gli abiti, un uomo capace di piccole rivoluzioni senza spargimento di sangue ma con grande spargimento di inchiostro».

Fratelli Dior ha due fratelli e due sorelle. Catherine, la più piccola verrà deportata in un campo di concentramento nel 1944 e sarà liberata l’anno successivo.

Fiori Aveva una passione per i fiori. Era sempre lui a disporli per le sfilate. Un amore che ereditò dalla madre: «Stavo bene soprattutto in compagnia delle piante e dei giardinieri. Anche le mie letture risentivano di quella passione: fatta eccezione per alcuni libri che hanno segnato la mia infanzia, amavo imparare a memoria i nomi dei fiori e la loro descrizione che trovavo sui cataloghi della dita Vilmorin-Andrieux».

Libri Tra i libri preferiti dal piccolo Dior le Fiabe di Perrault, un racconto di Métivet e Ventimila leghe sotto i mari.

Granville Nella casa di Granville c’erano un grande salone decorato con falso pitch-pine, impreziosito da cornici di bambù, un salotto in stile Luigi XV, una sala da pranzo in stile Enrico II, un salottino in Secondo Impero e lo studio del padre in stile rinascimentale: «Mio padre era un uomo molto buono, ma io quando entravo in quella stanza provavo sempre una certa apprensione. Il più delle volte era per sentire qualche predica o solo o per ammirare i prodigi del telefono, novità di cui non eravamo mai sazi».

Parigi A cinque anni i suoi genitori decisero di trasferirsi a Parigi, nel quartiere di Passy. Il trasloco lo fecero in limousine: «Ci entrammo in dieci: quattro bambini, i miei genitori, mia nonna, la governante, una cameriera e l’uomo che allora chiamavamo "il meccanico". Eravamo tutti avvolti nei nostri spolverini, con una garza a proteggerci la bocca; le teste delle signore erano sormontate da cappelli con le piume e le nostre da berretti alla Jean Bart. Sul tetto dell’auto c’era un portabagagli di rame su cui erano ammonticchiate le valigie e gli pneumatici di ricambio. Dopo mille fermate per guasti al motore e forature, arrivammo finalmente in rue Richard Wagner, che dopo il 1914 è stata, per tutti motivi scioccamente patriottici, ribattezzata Albéric Magnard». Dior conobbe così gli ultimi anni della Bella Epoque.

Luigi XVI Al contrario della casa di Granville, il primo appartamento parigino della famiglia Dior era modernissimo. Fu allora che il piccolo Christian s’innamorò dello stile Luigi XVI versione Passy: «Legno bianco laccato, porte a vetri con piccoli riquadri sellati, tende e tendine in macramè, pannelli di cretonne o di damasco, a seconda del lusso delle stanze, costellati di fiori rococò che credevamo fossero in stile Pompadour quando invece erano già in stile Vuillard».

Casa Dalla finestra della sua cameretta, abitava al quarto piano, ammirava una casetta di un solo piano. Restava ore a guardarla, ne era affascinato e incuriosito. Allora ancora non lo sapeva ma in quella casa ci abiterà.

Zingarello Quel giorno del 1919 in cui, a Granville, Christian Dior vestito da zingarello vendeva amuleti portafortuna a una fiera di beneficienza per i soldati.

Donne «Ti troverai senza denaro, ma le donne ti aiuteranno e determineranno il tuo successo. Dalle donne trarrai grandi profitti e dovrai fare numerose traversate oceaniche» (così disse una chiromante a Christian Dior nel ’19 alla fiera di Granville).

Tragedie Christian che da bambino faceva tragedie ogni volta che doveva uscire di casa. Anche per andare a giocare con un amichetto.

Zazou «Cappelli troppo voluminosi, gonne troppo corte, giacche troppo lunghe, suole troppo spesse e soprattutto quelle orrende zazzere che si erigevano a baldacchino sulla fronte per poi spandersi come criniere cavalline sulla schiena delle cicliste di allora. Insomma lo stile zazou, nato per sfidare la boria degli invasori e l’austerità imposta dal regime di Vichy».

Anni Venti Negli anni Venti e Trenta il lusso veniva espresso da materiali poco attrattivi come il cemento armato o il legno grezzo. Nella moda, Chanel imponeva le maglie e tweed e Reboux le nude cloche di feltro senza guarnizioni. Gli dei erano Matisse, Picasso, Braque, Stravinskij: «I dadaisti liberavano il linguaggio della tirannia del significato preciso Cocteau dominava tutte le avanguardie e il bar Le Boeuf sur le toit era il tempio di quell’allegro esoterismo».

Musica Dior si iscrisse a Scienze politiche, e ottenne il permesso di studiare composizione musicale. Si appassionò alle ricerche musicali di Satie, di Stravinskij, del gruppo dei Sei e della scuola di Arcueil.

Amici Tra i suoi più cari amici: Henri Sauguet, che conobbe a casa dei suoi genitori, durante una serata musicale da lui organizzata, fu grazie a lui che qualche anno dopo incontrò Jean Ozenne, che dopo la guerra divenne un attore teatrale, poi disegnatore di moda e anche Christian Bérard, detto Bebé, pittore. Quest’ultimo gli suggerirà di tappezzare la boutique Dior in tela di Jouy e disseminare in giro cappelliere con il nome della maison. Poi ci furono Max Jacob, Jean Cocteau e Serge Heftler-Louiche, anche lui di Granville che gli diede l’idea di creare la società di profumi Dior.

Anarchico Nel 1925 Dior indossò l’uniforme: «Da bravo figlio di famiglia agiata, mi professavo anarchico e antimilitarista, e naturalmente non avevo nessuna voglia di fare l’ufficiale. Così prestai servizio come geniere di seconda classe. La mia nuova vita, più austera, m’indusse a meditare sul mestiere che avrei dovuto scegliere al momento della mia liberazione».

Arte Con il suo amico Jacques Bonjean, Dior aprì una galleria d’arte. Finanziato dai suoi genitori «a patto che il nome di famiglia non comparisse nella ragione sociale, e sostenuto dai suoi moti amici, iniziò a vendere quadri. Per qualche anno fu un successo, poi tutto si complicò: Se la Francia percepì appena il crollo di Wall Street del 1929, Dior, superstizioso com’era, risentì tantissimo di quello della sua specchiera nel 1930 quando al ritorno dalle vacanze la trovò rotta in mille pezzi. In quell’anno il fratello fu colpito da una malattia nervosa inguaribile. Ne 1931 sua madre morì e all’inizio del 1932 il padre si trovò in pochi giorni sul lastrico per un investimento andato male. Sempre in quel periodo, di ritorno da un viaggio nell’Urss ricevette un telegramma nel quale il suo socio gli annunciava che anche lui era rovinato. Qualche tempo dopo la galleria chiuse definitivamente e Dior fu costretto a un esilio da Parigi a causa di una grave malattia. Al suo rientro a Parigi cercò, senza fortuna, un lavoro fisso spulciando le pagine degli annunci economici. Con i soldi che rimediava qua e là piazzando i pochi quadri che gli erano rimasti prese casa con Jean Ozenne, e a forza di vederlo disegnare, gli venne voglia di imitarlo. Fu Jean a insegnarli le basi della moda e a vendere i suoi primi schizzi.

20 franchi Questa è la cifra alla quale furono comprati i primi disegni di Christian Dior. Ne vendette sei per un totale di 120 franchi. Nel 1938 fu assunto da Piguet come modellista. Allo scoppio della guerra, raggiunse la sua famiglia nel rifugio di Callian dove con una sorella coltivò un orto, per poi venderne il raccolto al mercato di Cannes. Nel 1941, tornò a Parigi e andò a lavorare da Lelong.

Montaigne Dior, finanziato dall’industriale Marcel Broussac, aprì il suo atelier, al 30 di avenue Montaigne, nel 1946, dopo aver lavorato come disegnatore e figurinista prima con Robert Piguet e poi con Lucien Lelong: «Tre laboratori nelle soffitte della palazzina, uno studio minuscolo, un salone per le sfilate, un camerino, un ufficio e sei salottini per le prove. Avrei avuto 60 dipendenti».

Arredamento Victor Grandpierre, figlio del celebre architetto, che sognava di fare l’arredatore, seppe creare il salone che voleva Dior, alla maniera di Helleu, bianco e grigio perla. Riprendendo quello stile Luigi XVI in versione Passy tanto caro allo stilista. Oltre al salone, Grandpierre arredò anche la piccola boutique che Dior voleva «simile alle botteghe settecentesche di fronzoli per dame».

Inaugurazione Il 15 dicembre del 1946 inaugurò la sua casa di moda e nella primavera del 1947 fece la prima sfilata. Nel 1948 aprì la prima succursale a New York, poi quelle in Inghilterra, Canada, Cuba, Australia, Cile e Messico.

Successo «Essere il padrone di me stesso non significava tanto indipendenza e libertà quando sottomissione al più stringente e pressante degli imperativi: avere successo».

Dipendenti Tra i suoi dipendenti, le sue consigliere Madame Raymonde e Madame Bricard, Madame Marguerite che faceva da intermediario tra il suo pensatoio privato e i laboratori. Per lei Dior inventò il ruolo di direttrice tecnica mentre il camerino e le modelle erano sotto la supervisione di Madame de Turckheim. Affidò la pubblicità all’americano Harrison Elliot, le vendite a Nicole Riotteau, che veniva da Granville anche lei e a un altro normanno, Jacques Rouet, mise in mano l’amministrazione.

Le première Sarte che imbastivano le tele direttamente dagli schizzi dello stilista. Sotto di loro c’erano i primi sarti, e poi le lavoranti: c’era chi cuciva le manica, chi il busto, chi la gonna. Le première erano assieme alle mannequin le più strette collaboratrici di Dior, peccato che le première tenessero così tanto ai loro abiti che consideravano le modelle ospiti abusive delle loro creature.

Case chiuse Quella volta che Dior, in cerca di modelle, mise un annuncio sul giornale e si trovò i corridoi del suo atelier pieno di fanciulle uscite dalle case chiuse che, l’allora consigliera del Quarto arrondissement, Madame Marthe Richard, aveva «chiuso a chiave». Tuttavia, in quella confusione, notò Marie-Thérèse, una ex dattilografa che divenne poi una delle sue migliori mannequin.

Mannequin Noëlle, Paule, Yolande, Lucille e Marie-Thérèse sono le cinque modelle che formarono la sua prima squadra. Poi arrivarono Tania («la mannequin che poi diventò donna»), France («l’ingenua che seppe ottenere dalla vita tutto quello che desiderava: essere sposata, ricca e felice sotto il cielo dei Tropici»), Sylvie («che nella collezioni interpretava la giovinezza»), Lia («una rumena di Parigi che bruciava l’arrosto»), Victoire («che sfornava dolci di castagne e non sapeva camminare. Ma era piena di talento»); Renée («quella che incarnava meglio il mio ideale»), Alla («che aveva presenza da vendere») e Lucky («una bretone dagli zigomi forti e gli occhi a mandorla che non sfilava ma recitava»).

Vita Ah! Monsieur Dior e le sue mannequin: «Quelli dell’amministrazione mi rimproverano perché ne assumo troppe. Le première dicono che assecondo tutti i loro capricci, le responsabili delle vendite dicono che sono impossibili. Ma per me le mannequin sono la vita dei miei abiti e io voglio che i miei abiti abbiano una vita felice».

Nomignoli Madame del Turckheim, detta «Tutu», per le modelle era «baronessa» mentre per lei loro erano le sue «figliole» per gli altri erano «le ragazze». Solo l’amministrazione e le lavoranti le chiamavano «mannequin».

Ritardo «La mannequin arriva puntualmente in ritardo e ogni volta chiede: « “Sono in ritardo?”. In compenso è incredibilmente veloce».

Cenerentola «C’è una leggenda che va sfatata, quella della mannequin-Cenerentola che prende in prestito, come una farfalla effimera e clandestina, un abito della collezione per andare al ballo. Le modelle possono acquistare, ovviamente in via del tutto eccezionale, un capo che hanno indossato, ma non possono mai prendere in prestito gli abiti della stagione».

Adulti Dior perse il padre a 41 anni: «Sentì che con lui era finita anche la mia giovinezza spensierata, che ero diventato maggiorenne per la seconda volta. Quando non si è più figli, non ci resta altro che diventare definitivamente adulti»

Maison Bebé che regalò a Dior un pastello raffigurante la facciata della maison di avenue Montaigne che poi lui fece riprodurre su sciarpe, programmi delle collezioni, biglietti di auguri etc.

Fiore Dopo un’epoca di restrizioni, di tessere annonarie, di razionamenti, di uniformi, di donne soldato con «spalle da scaricatore», Dior disegnò una donna-fiore. Gonne larghe, spalle morbide, vita sottile. La collezione d’esordio, la New look, puntava su abiti modellati sulle curve per esaltare la femminilità, pronti a valorizzare il seno. Tant’è che prescrisse alle sue modelle meno dotate di infilarsi nel corsetto dei seni finti.

Seni Durante le prove della prima collezione lo stress era tale che una modella inglese svenne tra le braccia di Dior. Lui cercava di sorreggerla ma lei scivolò in terra lasciandogli in mano i seni finti.

Chéri Il modello che l’attrice Dominique Blanchard volle indossare a tutti i costi nell’atto unico di Giraudoux, L’Apollo di Ballac, aveva il busto che metteva in evidenza il seno e dalla vita sottile si aprivano le mille pieghe di ottanta metri di faille bianco la cui ampiezza scendeva fino alle caviglie.

Gusto Juliette Gréco, la musa degli esistenzialisti che passava le sue notti in fumosi locali della Rive Gauche, nei quali lo stilista non ebbe mai il coraggio di mettere piede, sapeva conciliare il suo gusto personale con lo stile Dior.

Stile «L’indomani venni a sapere dalla stampa, e dall’ufficio vendite, nonché dalle voci che circolavano, che io, involontariamente, avevo creato lo stile Dior» (così Dior dopo la presentazione della New Look).

Angoscia «Caro Christian, assapora questo momento di felicità davvero unico nella tua carriera. Da domani non ti sarà dato di goderne con tanta pienezza e tranquillità come oggi! Domani comincerà l’angoscia di mantenere il tuo livello di eccellenza, e anche di superarlo…» (così Christian Bérard a Dior durante una cena organizzata da Marie-Louise Bousquet).

Pezza Dopo la presentazione della New look, un garagista di Los Angeles giurò a Dior che, alla sua prossima venuta a Parigi, lo avrebbe «fatto a pezzettini». Sosteneva che era sua la colpa se la moglie ormai somigliava a una bambola di pezza dei tempi della guerra di secessione. Dopo la linea H, ribattezzata Flat Look da Carmel Snow su Harper’s Bazar, invece, fu un proprietario terriero dell’Idaho a lamentarsi: «Lei, caro mio genio, ha sfigurato mia moglie. Cosa ne direbbe se gliela facessi recapitare a casa sua?».

Felicità «Vorrei che le mie opere facessero di me un mercante di felicità» (Alphonse Daudet)

Clienti Ai suoi primi clienti, gli americani, seguirono gli inglesi, gli italiani, i belgi, gli svizzeri gli scandinavi, i sudamericani e per ultimi, dopo i tedeschi, i giapponesi.

Guerra «Non so davvero chi abbia inventato la favola assurda di una guerra della moda tra la Francia e l’Italia, guerra che non è mai esistita».

Cibo Goloso Dior andava pazzo per il cibo inglese dallo yorkshire pudding, agli mince-pies e al pollo alla salvia e poi adorava fare colazione con tè, porridge e uova al bacon. Di quello americano apprezzava il prosciutto con glassa di zucchero alla maniera della Virginia. Da bere vino. Provava una forte antipatia per l’acqua e il latte.

Foto Dior detestava vedersi in fotografia: «Avevo l’impressione che la mia immagine di signore grassottello somigliasse ben poco agli efebi fascinosi o agli elegantoni decadenti che corrispondono allo stereotipo di sarto famoso». Così vincendo la sua timidezza Dior osò infilarsi il fiore all’occhiello della giacca, ordinò completi al suo sarto, si mise a dieta, e affidò il suo corpo alle mani di massaggiatori ma la cosa durò poco: «Fra l’immagine che avrei dovuto dare e quello che ero realmente c’era una distanza incolmabile. Con mio grande sollievo, mi rassegnai a essere soltanto quello che sono».

Passatempi Amava passeggiare in vacanza, leggere libri di storia, giocare a bridge. Il cinema, il teatro, il cabaret e i locali notturni non lo interessavano.

Giochi Uno dei giochi di società che Dior preferiva da bambino consisteva nell’impersonare una figura storica e improvvisare un dialogo con un altro personaggio di cui si ignorava l’identità. Così Alfred de Musset si ritrovava a parlare con Victor Hugo e Sauguet [il compositore ndr] o con Landru [Barbablu, lo strangolatore ndr]. Dior si servì di questo gioco anche quando, nel 1947, ricevette l’Oscar della moda a Dallas. Timido com’era non aveva il coraggio di salire sul palco e parlare davanti a tremila persone, così si mise nei panni di uno stilista francese che non sapeva una parola d’inglese e improvvisò un discorso in quella lingua. Fu un successo.

Oscar Nel 1947, a Dallas, Dior ricevette assieme a Salvatore Ferragamo e Irene, una celebre costumista di Hollywood, l’Oscar della moda, una targa d’argento montata su ebano, per i «buoni servigi resi al field of fashion».

Magazzino Dallas, famosa per quel grande magazzino, nato dal genio della famiglia Neiman Marcus, che offre alla clientela più ricca del mondo le cose più care del mondo.

San Francisco/1 «Questa città, circondata dal mare su tre lati, con le colline coperte da case intonacate di rosa, giallo e verde pallido, con la baia azzurra attraversata dal ponte più audace del mondo, sembra racchiudere in sé il fascino di Napoli, di Istanbul, della Cina e di un Luna Park».

San Francisco/2 A San Francisco le strade hanno una pendenza del 30 percento, al posto dei marciapiedi ci sono le scale, al posto del tram si viaggia su una sorta di funicolare.

Chicago Una città energica e bizzarra, dove coesistono il lusso più sfrenato e la miseria più sordida. «È l’unica città americana che assomigli ai film e ai romanzi grazie ai quali ha affascinato il mondo: un profluvio di scale di ferro che sfregiano le facciate, viadotti e metropolitane di superficie che ostruiscono il cielo, insegne luminose di tutti i colori, vetrine di botteghe equivoche, folla multietnica che parla greco, polacco, lettone, ungherese e soprattutto quel pulviscolo impalpabile che esce dalle ciminiere delle fabbriche di carne in scatola e che copre ogni cosa. È l’America senza orpelli nella sua espressione più autentica».

New York «New York è la città dove si cammina di più soprattutto se piove, perché allora i taxi vengono presi d’assalto».

Americane «La cosa che differenzia realmente le donne americane da quelle europee è la cura che dedicano alla loro persona, cosa che allora, nel 1947, costituiva una vera discriminante. Oggi questa differenza non si nota quasi più. Comunque tutte le americane sono tirate a lucido come una moneta nuova di zecca. Indossano abiti impeccabili, hanno capelli e unghie impeccabili, calzano scarpe impeccabili. Le americane sono, per definizione, impeccabili. E questo vale per tutte le classi sociali, dalla miliardaria alla più piccola commessa».

Belle «Le donne di qui sono le più belle ma anche le francesi non sono affatto male» (così rispondeva Christian Dior, ovunque si trovasse nel mondo, ai giornalisti che gli chiedevano dov’erano le donne più belle).

Lusso L’America, lì dove regna la sproporzione tra l’enormità della spesa destinata all’abbigliamento e la quasi totale assenza di amore per il lusso vero. La donna americana preferisce comprare tre vestiti nuovi piuttosto che un solo vestito molto bello. Accade così che una donna che ha un abito solo sia molto più elegante di una che ne ha molti: «forse è per questo che un paese ricco come l’America è, in materia di moda, il paese della roba a buon mercato».

Mostro «Se non amassi così tanto le case, dovrei proprio confessare, a costo di passare per un mostro, che gli abiti sono tutta la mia vita».

Ispirazione Dior, solito fare ricerche per giorni e giorni, guardare moltissime stampe, per poi chiudere i libri e lasciar passare settimane prima di prender la matita in mano. Solo così poteva accogliere l’ispirazione senza cadere nell’imitazione.

Storia «Se gli storici come il mio amico Gaxotte sostengono che bisogna far passare cinquant’anni per avere la giusta distanza nel giudicare un evento, io per giudicare la mia collezione, dispongo di soli tre mesi, per cui subito dopo mi devo rimettere al lavoro. Come ha scritto Cocteau “la moda muore giovane". Quindi è naturale che il suo ritmo sia più accelerato e affannoso di quello della Storia».

Modello «Un modello portato da Marie non è più lo stesso se portato da Chantal: una lo sminuisce, l’altra lo esalta. Ma una volta constatata la differenza, devo ancora capirne le ragioni».

Sguardo «Tutti mi dicono che ho questo sguardo tremendo. Devo ammettere che è vero, che esso fa parte di me. Mi dicono che quando guardo le donne, le donne si sentono svestite. Ma i miei occhi non vogliono spogliarle, vogliono soltanto vestirle in un altro modo!».

Stagioni «Una delle singolarità del mio mestiere, quella che di solito sorprende i non iniziati, è che una moda si decide sempre "fuori stagione". La collezione invernale nasce quando fioriscono ciliegi e lilla, quell’estiva quando cadono le foglie o i primi fiocchi di neve. Tuttavia non capisco lo stupore dei profani. Il sarto non è un paesaggista di Barbizon che raffigura scene dal vero. L’estate va sognata nel cuore dell’inverno, e viceversa. Fare un abito estivo in pieno agosto mi sarebbe impossibile».

Letto Il letto e la vasca da bagno, dove il corpo non ha più peso e la mente è libera di vagare, sono i posti più propizi all’ispirazione.

Drappeggio «Solitamente ci si immagina il sarto nell’atto di drappeggiare un abito direttamente sulla modella. In realtà questo non avviene quasi mai, perché per costruire un modello ci vuole un lungo lavoro di avvicinamento basato su dati ben definiti. Il drappeggio "dal vivo" può avere luogo soltanto quando tutti i tagli della collezione sono stati messi a punto».

Tessuti La forma del modello tanto dal taglio quanto dal modo di reagire del tessuto. La qualità del tessuto si vede in base all’elasticità, la tenuta, il peso, lo spessore. «Ogni pezza viene maltrattata, tirata in lungo, in largo e di sbieco, viene soppesata e accarezzata perché non deve grattare, viene stropicciata perché non si deve sgualcire, viene esaminata alla luce perché il colore deve intonarsi all’incarnato della mannequin che lo porterà».

Mannequin Ci sono due tipi di mannequin, quella di successo e quella musa: La prima è rivolta verso l’esterno, si impossessa dell’abito e lo esalta; la seconda è rivolta verso l’interno, «interiorizza l’essenza dell’abito e lo esprime per me».

Cestino «Senti, bella, prendi questa roba e buttala nel cestino!» (così era solito dire Dior alle sue première quando presentavano un prototipo in tela mal riuscito).

Prototipi I prototipi in tela presentano la linea e i tagli senza mai definire i particolari. Servono per definire la collezione. Tutti i dettagli vanno aggiunti in seguito. «Per me l’arte del sarto consiste nel costruire sul corpo della donna un insieme di volumi che ne esaltino le forme. Tutto il resto viene dopo».

Superstizioni Tra le manie di Dior toccare legno se qualcuno grida al successo prima che il successo arrivi per davvero. Anche durante le prove pretendeva che ogni modello fosse annunciato, e quando non aveva ancora un nome la frase di rito era: «Monsieur, un modello!».

Puntino «Le mannequin, anche con gli abiti più belli del mondo, senza cappello mi sembrerebbero nude. E non credo di esagerare: il cappello, definendo il carattere del volto, agisce come una messa a punto della linea generale, come una sua precisazione, soprattutto al momento della presentazione di una nuova linea. Del resto, non diciamo anche noi, quando vogliamo precisare il nostro pensiero, che mettiamo i puntini sulle i?».

Cappello «La frase “Come è bella oggi” che, tradotta significa “Come stai bene con questo cappello”».

Miseria «La disaffezione delle donne per i cappelli è dovuta a una reazione contro quei copricapi assurdi di paglia, fiori e piume con i quali durante la guerra, le donne mascheravano la miseria del loro guardaroba».

Ferite Durante la preparazione di una collezione il medico che assisteva le lavoranti vedeva di colpo cambiare la lista dei sintomi: niente più reumatismi o gastriti, solo emicranie dovute allo stress, solo dita e amor proprio feriti. «Ma appena lasciato il medico, le ragazze si precipitano in ascensore o fanno le scale due gradini alla volta per raggiungere il laboratorio. Per nulla al mondo si rassegnerebbero a non esserci quando tutto sarà pronto».

Creature «Quello della prova generale è l’ultimo giorno in cui i modelli sono ancora creature mie. Domani, dopo la presentazione alla stampa, saranno risucchiati nel vortice del successo – se tutto andrà bene – e non mi apparterranno più».

Poltrona Durante le prova generale Dior sedeva su una poltrona che aveva due tasche di tela ecru, una a destra e l’altra a sinistra, che servivano a contenere le gomme e le matite. Di fronte alla poltrona c’era uno sgabello con due risme di carta e sei matite affilate come stiletti. Sulla poltrona, una bacchetta cerchiata d’oro con la quale lo stilista indicava il punto incriminato dell’abito.

Nomi Nomi di alcuni modelli delle collezioni Dior: San Francisco, Virevolte, Ecosse, France, Paris, Londre, Plaza, Ritz, Maxim’s e poi c’era il tailleur che si chiamava sempre Bobby. Per la collezione del 1950 Dior si sbizzarrì con i nomi dei musicisti, per quella del 1952 con quelli di autori teatrale così si ritrovava una cliente che si diceva innamorata di André Roussin, per poi ripensarci e fare una follia per Jean-Paul Sartre. Oppure una mannequin che urlava alla collega: «Attenta, mi stai sgualcendo Maurice Rostand!»

Battesimo Battezzare un abito non è roba da poco «Se vi chiedono perché si chiama così, dite che non lo sapete. Non lo so nemmeno io».

Nomi 2 Nomi di alcune collezioni Dior: New Look, Zigzag, Ailée, Trompel’oeil, Mileu du Siècle, Enlacée, Muguet, Sinueuse, Flèche, Profilée, Tulipe, Tour eiffel, Coupoles, H, A e Y. «Ma poiché ogni collezione è costruita da una grande varietà di temi, non esiste lettera dell’alfabeto che possa da sola riassumerli tutti. Quindi, qualunque sia il nome con cui ho battezzato la collezione, io sento l’obbligo di scrivere le mie quattro pagine per indicare le parole chiave della nuova stagione».

Natale «A questo punto capisco cos’è in realtà la prova generale: una deliziosa riunione privata, nel corso della quale si decorano gli alberi di Natale. Ma certo! Gli scatoloni posati a terra contengono le palle d’oro e d’argento, i ninnoli di cristallo e di agata, le girandole di brillanti, gli alberelli con la neve, le coccarde scintillanti, le lucine, le stelle. E l’albero da decorare, elegante e muto nella sua splendida indifferenza, è la mannequin» (così un amico di Dior, un uomo che non aveva niente a che fare con la moda, descrisse allo stilista la sua prova generale).

Posto L’assegnazione dei posti richiedeva uno studio accurato. A ciascuno andava assegnato quello che gli spettava in relazione sia all’importanza del giornale che rappresentava sia alla sua personale notorietà. Ma una volta stabilita la disposizione dei posti nella sala, poteva capitare un imprevisto che costringesse a cambiare tutte le sedute. Succedeva, ad esempio, che due amici avessero litigato o che qualcun altro adducesse una scusa quale la claustrofobia per starsene in disparte vicino alle scale.

Presentazioni Le presentazioni andavano poi avanti per cinque mesi, tutti i giorni. Se la prima sfilata era per la stampa, che esigeva solitamente posti in prima fila, nel primo salone; la seconda, quella del pomeriggio, era per i responsabili delle grandi catene americane, che per parteciparvi pagavano una cauzione, poi defalcata dal conto finale. Loro preferivano sedere nel secondo salotto e stare sul pianerottolo: posti che consentivano loro di osservare gli abiti senza essere troppo esposti. La terza, che aveva luogo il giorno dopo, era dedicata ai delegati delle industrie manifatturiere e, poiché anche i rappresentanti dei grandi magazzini tornavano per vedere gli abiti una seconda volta, spesso finiva a sera. Il terzo giorno era per l’Europa e l’Onu: «A questa sfilata i miei abiti sembrano schiavi condotti al mercato!». Dopo gli acquirenti stranieri arrivano le parigine, poi la clientela cosmopolita e infine anche semplici turisti curiosi.

Commercio Dior che non ha mai voluto rivedere una sua collezione dopo una sfilata: «È come se il commercio potesse trasformarle fino a non farmele più riconoscere».

Regole Le tre regole di Dior: non mettere mai piede nei saloni, non intervenire mai direttamente negli affari, vedere rarissimamente le clienti. «Anche l’amica più intima, quando si reca al numero 30 di avenue Montaigne, non viene da me, va alla maison Christian Dior. Così ha la libertà di acquistare o astenersene».

Prezzi Ogni abito aveva una scheda sulla quale venivano riportati con esattezza il numero di ore di lavoro, il costo della manodopera e quello delle materie prime. Poi si aggiungevano in percentuale le spese generali, le tasse, i contributi e la parte del guadagno. Solo così si otteneva il prezzo al quale dovevano essere venduti i vestiti. «Accade spesso che un abito apparentemente semplice può aver richiesto un numero di ore di lavoro infinitamente maggiore rispetto a un altro che sembra molto più elegante. Spesso sono gli abitini di lana o i vestiti sportivi a richiedere il lavoro maggiore e quindi a costare di più, ma come posso far accettare a una cliente che un abitino da nulla sia per noi molto più oneroso di un abito da sera drappeggiato? Così, mi trovo costretto a diminuire il prezzo del primo e ad aumentare quello del secondo».

Bonbon Quell’abitino di lana rosa, tagliato a corolla, che andò subito a ruba. Peccato che, per errore, fu venduto a un prezzo inferiore al costo di produzione. E «le donne imbattibili nel fiutare un buon affare, ne fecero incetta».

Sfilata «Ogni sfilata dura due ore, senza nemmeno un intervallo punto. Il numero di abiti presentati sembra sempre eccessivo. Ma in ogni paese ci sono donne snelle, donne robuste, donne brune, donne bionde, donne discrete o donne audaci. Alcune vogliono valorizzare il seno altre pensano solo a mimetizzare i fianchi». «Il mondo è meravigliosamente pieno di donne bellissime che hanno forme e gusti di un’inesauribile diversità e la collezione deve piacere a ogni singola donna».

Profumo Prima di ogni sfilata, nei saloni, Dior faceva vaporizzare profumi a gogo affinché anche l’aria fosse allegra.

Camerino Il camerino di Dior era molto piccolo, tuttavia riuscivano a starci dieci vestiariste, tutte le première e i sarti, tre parrucchieri, i due suoi collaboratori più stretti, le modelle e tutti i lavoranti, dagli addetti agli accessori a quelli che portano gli abiti. «Se stessero tutti fermi, sarebbe materialmente impossibile contenerli in così poco spazio, ma siccome si muovono, si allungano, si scansano, si spenzolano, si passano abiti, pettini, gioielli, in qualche misterioso modo riescono a stare tutti assieme».

Passerella In passerella prima escono i tailleur, poi i completi da città, quindi gli abiti più eleganti, gli abiti da cocktail, gli abiti da sera corti, gli abiti da sera lunghi e infine gli abiti di gala, che in genere sono ricamati e particolarmente fastosi. L’abito da sposa chiude la sfilata.

Sposa Una superstizione vuole che le sartine che confezionano l’abito da sposa cuciano nell’orlo una ciocca di capelli per trovare marito entro l’anno, mentre le modelle sostengono che indossare quell’abito significhi essere destinate allo zitellaggio.

Abito Dior faceva indossare l’abito nuziale sempre a Claire, «l’unica in grado di interpretare una giovane sposa», anche lei maritata da parecchi anni.

Fuochi «Sono io a decidere l’ordine di apparizione, come un artificiere che lancia fuochi più spettacolare nel gran finale. Il camerino è percosso da un vento di follia che gonfia le vele della mia brillante armata, decisa ad andare alla conquista della nuova moda».

Bollettini Dior durante le sfilate aspettava dietro le quinte le modelle con il loro bollettini di vittoria: «Stanno andando benissimo!»; «Quanti applausi!»; «Questa volta c’è ancora più entusiasmo».

Folgorati «Fantastico. Li ho folgorati tutti» (così era solita dire France, mentre si sedeva accavallando le sue lunghissime gambe, ad ogni rientro dai saloni)

Russo Tania, la modella che insultava in russo gli spettatori che si erano resi colpevoli di lesa ammirazione.

Chiacchiericcio Se il chiacchiericcio accompagnava il passaggio della mannequin era bruttissimo segno, se invece si faceva sentire dopo gli applausi significava che il successo era assicurato.

Portacipria Pare che a metà sfilata tutte le donne tirassero fuori contemporaneamente il portacipria. Se per sessanta minuti si erano accontentate di guardare, ora si ricordavano di essere fatte anche per essere guardate. «Così si affrettavano a correggere con un velo di cipria i piccoli cedimenti».

Plagio Esistono cinque modalità di plagio: il tradimento di un dipendente, quello della stampa, quello dei disegni, quello dei sarti e quello degli editori.

Tradimento Quando è un membro del personale a consegnare alla concorrenza il disegno. Per contrastare questo tipo di plagio, da Dior i modelli circolavano sempre coperti da fodere bianche, tutti gli schizzi venivano numerati, i prototipi e i modelli scartati restavano chiusi a chiave fino alla sfilata. Laboratori, camerini e corridoi erano tappezzati da scritte come «Copiare è rubare» o «La contraffazione colpisce al cuore il lavoro onesto».

Stampa Quando un giornalista si lascia andare a descrizioni troppo dettagliate sulla collezione. Prima di ogni sfilata ogni invitato è tenuto a firmare un documento nel quale si impegna con il sindacato a non divulgare nulla. Spesso però la stampa straniera, non abituata a questo genere di cose, non lesina i dettagli.

Disegni Spesso con la scusa di non ricordare il nome del modello alcuni clienti lo disegnano sul loro blocco per poi riprodurlo. Ma se vengono sorpresi la maison li obbliga ad acquistare il capo incriminato.

Sarti Alcuni sarti di provincia si accordano con quelli parigini per acquistare un abito a testa e poi riprodurlo.

Editori Prima ancora che i clienti potessero aver ricevuto gli abiti ordinati, una ciurma di mille abbonati, al costo di mille dollari a testa, si poteva veder recapitare un album di schizzi con trecento disegni di tutte le grandi case di moda, sui quali gli editori avevano anche apposto il copyright. Nel 1955 i modelli della collezione invernale di Dior presenti in quest’album erano 142, di cui 57 copiati con assoluta esattezza.

Model renter I model renters, o noleggiatori di modelli. Tra loro c’era un’abilissima donna newyorkese che faceva comprare – ad alcune clienti private – abiti di grandi sarti parigini. Una volta a New York organizzava sfilate al Plaza e faceva pagare una tassa d’ingresso dai 300 ai 350 dollari, che dava a ogni visitatore la possibilità di portarsi a casa un abito per tre giorni. Il modello veniva copiato e poi restituito.

Contrassegni Nel 1948 una model renter dovette pagare milioni di franchi di risarcimento al sindacato della moda francese. Ma dato che in America non esisteva una legge simile, la donna poté continuare la sua attività. Così i grandi sarti parigini ricorsero a contromisure speciali come quella di inserire dei contrassegni numerati nelle fodere degli abiti per poi piazzare un delegato sindacale a ogni sfilata del Plaza, che fingendosi cliente noleggiava un po’ di abiti per poi scucirne le fodere e comunicare i numeri per telegrafo. Solo così, smascherando tutti i compratori dei model renters, si riuscì ad arginare questo tipo di plagio.

Contraffazione «Nel corso di questa guerra contro la contraffazione adottammo un sistema di marchiatura usato dalle grandi catene di lavanderia, che è basato sull’uso di un inchiostro indelebile e invisibile. Soltanto esponendo il tessuto ai raggi ultravioletti il marchio appare. Ormai dalla mia casa di moda non esce più un abito senza questo contrassegno».

Imitazioni «Ho sempre finto di compiacermi, nonostante l’irritazione, nel vedere i molti, o troppi, modelli Dior riprodotti».

Clienti Madame Luling, responsabile della vendita, con Madame Riotteau, chiamava le clienti «mes chéries».

Clienti2 Le clienti, solite pretendere di entrare nel modello di prova anche se la modella che lo indossava aveva due taglie in meno di loro.

Sbagliato «L’abito più a buon mercato del mondo è un abito indovinato perché rende felice la donna che lo indossa e costa poco all’uomo che l’ha pagato. L’abito più caro del mondo è un abito sbagliato perché scontenta la donna che lo porta e impensierisce l’uomo che l’ha pagato. E in più lo costringe quasi sempre a regalargliene un altro molto più caro per farle dimenticare il primo…» (questa la filosofia di Madame Luling).

Funerali Quella signora che, dopo essersi fatta presentare l’intera collezione di tailleur neri, si asciugò una lacrima sul viso e disse: «Non c’è niente di più ordinario del lutto, nei funerali…».

Bancarotta Quella cliente che assistette alla sfilata con aria cupa. Sembrava che nulla le piacesse. Alla fine a bassa voce disse: «Quest’anno, siccome mio marito ha fatto bancarotta, mi accontenterò di ordinare solo una decina di vestiti…».

Amanti C’era quella signora che aveva due amanti. Dal primo si faceva regalare gli abiti di Dior, dall’altro quelli di Fath. Un giorno però, quella cliente si presentò da Dior con un uomo diverso dal solito con un tailleur di Fath e soltanto nel bel mezzo della prova si accorse di aver fatto confusione con l’agenda.

62ª strada La prima collezione newyorkese fu realizzata in una piccola casa della 62ª strada che avrebbe dovuto ospitare quattro persone, invece, Dior trasformò il giardino d’inverno in studio, i due salotti in laboratori, l’anti-cucina in magazzino e una camera in spogliatoio. Nelle poche stanze che restavano c’erano i letti: «Eravamo ammassati come sardine, mangiavamo durante le prove, dormivamo accanto ai tavoli del taglio, a ogni passo si inciampava su rotoli di stoffa e quando andavamo nell’angolo della cucina non sapevamo mai se era per prendere una pezza di tessuto o una pila di piatti».

Domestici Tra i domestici che hanno frequentato lo studio newyorkese di Dior: un maggiordomo bravissimo a fare i cocktail ma del tutto incapace a pulire; un cuoco svedese che il primo giorno pensò bene di incendiare la cucina; poi ci furono due vecchie zitelle irlandesi, bravissime, ma che non seppero resistere allo scandalo delle modelle in mutandine: «Si tolsero il grembiule in perfetta sincronia». Finalmente arrivò una francese, che però fino ad allora aveva fatto la prostituta: «Allegra, robusta, amante del cibo e ottima cuoca, ci prese subito in simpatia e si mise a viziarci in maniera scandalosa. Quell’angelo, di un biondo spaventevole ma con la vestaglia sempre abbottonata, pulì, lavò, cucinò e ci trattò talmente bene che finalmente potemmo dedicarci ad altro».

Maison Negli anni la maison Dior prese ad allargarsi, prima occupando le scuderie, poi buttando giù un muro invase l’edificio retrostante, il numero 13 di rue François I e infine buttandone giù un altro si prese anche il numero 32 di avenue Montaigne. Entrando da Dior sulla destra c’era il negozio di scarpe, sulla sinistra l’atrio che portava ai piani superiori. Al mezzanino si veniva accolti dalla reception, che da un lato immetteva salottini di prova, dall’altro nei grandi saloni. Poi, c’era una piccola scala che portava giù alla boutique che occupava l’angolo tra François I e avenue Montaigne. Il mezzanino collegava tutte le parti della casa riservate alla vendita. Al primo piano c’erano poi due saloni e lo spogliatoio che un tempo era la sala da pranzo. Lo spogliatoio era collegato al salone da un’anticamera così stretta che gli abiti ci passavano quasi per miracolo. Al piano superiore l’ufficio della segretaria privata di Dior, l’ufficio del personale delle filiali straniere, due locali destinati ai sarti. Al terzo ed ultimo piano della palazzina gli uffici di segreteria e l’atelier di disegnatori che riproducevano i modelli della collezione per la clientela privata. Prima vi era anche l’amministrazione che però poi traslocò al 32 di avenue Montaigne.

Studio Lo studio di Dior occupava, in rue François I, un piano intero. C’era un’anticamera, il suo ufficio personale, una piccola stanza per riposare, due salottini di prova, la camera di decompressione per fare rilassare le modelle, un laboratorio per gli interventi di emergenza sui modelli. Sopra due piani di laboratori e in cima a tutto l’infermeria per il controllo medico del personale, «il quale dispone anche di una casa di campagna a Vaires-Le Grand. Privilegio più che meritato per giovani donne che non si dichiarano mai stanche e che accettano di riposarsi soltanto se costrette».

Costituzione «Peccherei di presunzione se volessi parlare d’altro, se mi sentissi in diritto, avendo avuto successo come stilista, di far conoscere al mondo la mia opinione sull’arte astratta o sulla riforma della Costituzione».

Tormento «Se alcuni mi hanno deluso o tradito, altri mi hanno amato con la stessa fedeltà con cui li amavo io. Sono per me una vera ossessione. Sono l’inferno e insieme il paradiso, l’incanto e il tormento della mia vita».

1956 Finì di scrivere quest’autobiografia il 7 aprile 1956, morì l’anno successivo [a Montecatini Terme, il 24 ottobre 1957] a nove anni dall’inaugurazione della sua Maison: «I miei ricordi più belli io devo ancora viverli, il mio passato è ancora molto giovane — nove anni esatti — è vivissimo. Ciò che del mio passato mi interessa di più, lo confesso, è ciò che esso sarà domani».

«"Christian dior, sono io". Perché a ben vedere, tutto ciò che è stata la mia vita – che io voglia o no – si è espresso nei miei abiti».