Massimo Gaggi, Style 11/2014, 28 ottobre 2014
ED RUSCHA
Dalla Rome 66 dei primi anni Sessanta, trasformata in mito senza mai rappresentarla ma ritraendone il paesaggio, a cominciare dalle celebri 26 stazioni di rifornimento, ai ritratti di oggetti gettati via, abbandonati: scenari di distruzione e montagne di rifiuti. Difficile non vedere la rappresentazione dell’involuzione dell’America nel lavoro di un artista che per oltre mezzo secolo ha raccontato con dipinti, foto e disegni il Paese che vive nelle periferie, ai margini del «sogno americano».
Ma, così come evita accuratamente tutte le etichette che di volta in volta critici d’arte assai disorientati dalla sua opera hanno cercato di appiccicargli addosso (ultimo maestro della Pop Art, concettualista, espressionista astratto, minimalista, surrealista, foto-realista), Ed Ruscha dribbla anche ogni tentativo d’interpretazione della sua opera in chiave di critica sociale. «Quando ho ritratto la “gasoline station” della Standard Oil ad Amarillo, in Texas» racconta nel suo atelier di Culver City, a metà strada tra l’aeroporto di Los Angeles e Hollywood, «ero attratto solo dalle linee architettoniche di quell’impianto: nitide, lineari, trionfanti. Mi sono innamorato di quell’architettura moderna e semplice con le sue diagonali. Quanto alle opere più recenti, certo è spazzatura; ma è spazzatura molto bella. Ci può essere bellezza anche in una montagna di detriti».
Oltre l’immenso studio, quasi mille metri quadri con tavoli pieni di disegni, foto e dipinti e scaffali zeppi di libri fotografici, nel giardino di mandarini e pompelmi spunta un grosso serbatoio di gomma impolverato. Installazione? Macché: «L’ho comprato per raccogliere l’acqua piovana perché a Los Angeles ogni goccia è preziosa. Ma sono otto mesi che non piove, un disastro». Di fronte c’è il piccolo garage nel quale l’artista 76enne conserva i suoi gioielli: un camioncino Ford del 1933 («funziona ancora, ogni tanto ci faccio un giretto») e una berlina del 1939.
La strada come musa e metafora di un’America che non si ferma mai è stata al centro della sua opera per decenni. La ispira ancora oggi?
È stato il mio amore da quando, da ragazzo, sono andato da Oklahoma City fino alla Florida in autostop. E poi dal 1956, quando mi sono trasferito a Los Angeles, la Route 66 l’ho percorsa un’infinità di volte: dal deserto, miglia e miglia di nulla e cieli infiniti, alla megalopoli delle palme altissime, dei tramonti colorati, delle spiagge e della «cultura dell’auto». La strada per me è importante anche oggi. Ne faccio tanta tutte le settimane: cerco di passare almeno due o tre giorni in solitudine nel mio rifugio nel deserto, a tre ore d’auto da qui. Un posto piuttosto selvaggio – popolato da linci, orsi, leoni di montagna, serpenti a sonagli – ma quella solitudine, il luogo remoto non toccato dall’uomo, mi aiutano a pensare. Se posso evito l’aereo: a Oklahoma City spesso ci torno in macchina, dormendo lungo il tragitto.
Sulla strada di Jack Kerouac le fu d’ispirazione?
Lo lessi nel 1958. Ero da due anni a Los Angeles, al Chouinard Art Institute. Andavo su e giù per la Route 66 e avevo cominciato a disegnare i miei paesaggi. Mi colpì quella scrittura nitida, il racconto di un peregrinare di luogo in luogo, l’affastellarsi di emozioni molto simili a quelle che provavo io. Lui le ha descritte con la sua letteratura, io ho provato a disegnarle.
È vero che, mentre guida, prende appunti e disegna?
Ho sempre un grande blocco vicino a me. Con una mano tengo il volante, con l’altra la matita. Ancora oggi quello che mi scorre davanti, al di là dei finestrini, è fonte d’ispirazione.
Nel suo studio c’è un modellino della mostra che la Gagosian Gallery di Roma gli dedica dal 20 novembre al 17 gennaio 2015. Sul tavolo tre guide turistiche della città: «Ci porterò i miei nipotini. Voglio fargli vedere il Pantheon, con quella cupola incredibile, e la Domus Aurea». Mi tocca dargli la cattiva notizia: la Domus Aurea è chiusa per i crolli. Le guide, cartacee, non sono aggiornate.
Cultura dell’auto e taccuini di carta. Sembra che il mondo digitale di smartphone e tablet non la sfiori nemmeno.
Non uso l’iPhone, non mando messaggi. Non è il mio mondo. Ma un iPad ce l’ho: per Google Earth che è fenomenale. E uso molto anche la fotografia digitale. Non sono contrario alla tecnologia: credo abbia fatto fare grandi progressi, ha reso più indipendenti i nostri ragazzi. Sono invece molto sospettoso nei confronti dei social media: mi preoccupa l’esposizione a estranei, a situazioni sgradevoli e pericolose. Sul piano artistico mi affascinava l’idea che stesse nascendo un nuovo linguaggio. Ma poi quell’interesse si è esaurito.
Lei l’innovazione l’ha portata nei materiali: ha dipinto con colori vegetali estratti dai cavoli, dal tabacco, perfino dal sangue di animali. Ha usato addirittura la polvere da sparo per disegnare.
La purezza della pittura a olio è andata bene per secoli, ma dal 1950 abbiamo imboccato un’altra direzione: acrilico, vernici sintetiche. Io ho puntato sui colori vegetali, sui pigmenti essiccati. Li creo quasi tutti da solo. Un giorno disegnavo su cartoncino e il risultato con la grafite non mi convinceva. Avevo una scatola di polvere da sparo: ho provato. Lo zolfo e il sale davano nuovi riflessi al disegno e offrivano maggiori possibilità di correggere gli errori.
Jasper Johns, Andy Warhol, ma anche Edward Hopper, Robert Rauschenberg e tanti altri artisti sono stati spesso accostati alla sua opera. Chi è il suo ispiratore? Mi hanno accostato anche a René Magritte, se è per questo. Ho ammirato Johns e Hopper ma sono su terreni molto diversi. Mi sento più vicino a Marcel Duchamp, a Willem de Kooning, al tedesco Kurt Schwitters e, più in generale, al dadaismo sbocciato tra le due guerre mondiali dopo la stagione del futurismo. Per il resto le definizioni contano poco.
Come vede i campioni della Pop Art d oggi? Jeff Koons sta avendo un successo immenso.
Ho visto la sua mostra al Whitney Museum of American Art. Le quotazioni stratosferiche, le mode, non devono alterare i giudizio sull’artista. Jeff è uno che nell’arte ha saltato vari livelli cambiando prospettiva, e per questo va ringraziato. È di certo un artista da guardare, sapendo che ha un modo tutto suo di creare: è il Muhammad Alì dell’arte contemporanea.