28 ottobre 2014
MAL DI LAVORO SENZA VERGOGNARSI
[Intervista a Claude Halmos]–
«C’è stato un momento, all’inizio degli anni Novanta, in cui gli psicologi hanno cominciato a essere interpellati dai media. Io sono stata tra le prime ad andare in tv, mi è capitato un po’ per caso ma ben presto mi sono accorta che era uno strumento formidabile. Fino ad allora in Francia la sfera intima era tabù. Le difficoltà familiari, i problemi sessuali, il rapporto con i figli: chi ne parlava era considerato un tipo un po’ strano, ci passavano tutti ma pensavano di essere i soli al mondo, così si taceva. A un certo punto si è sollevato il velo ed è stata una liberazione. Credo che adesso sia arrivato il momento di fare la stessa cosa per le sofferenze sociali, i dolori che derivano non dalla vita privata ma dal mondo esterno agli affetti e alla famiglia».
Claude Halmos, 68 anni, ha scritto un libro dal titolo significativo: È così che gli uomini vivono? Affrontare la crisi e resistere . E a «la Lettura» spiega: «La crisi economica sta generando un’epidemia di depressione in tutti gli strati della società: occorre riconoscerla, spiegare alle persone che non ne hanno colpa. Non sono gli individui a essere deboli, fragili o viziati: il fatto è che la realtà talvolta è davvero insostenibile. La gente vive male perché teme la disoccupazione, l’abbassamento del tenore di vita o la mancanza di futuro per i figli. È una sofferenza che va riconosciuta».
Lei paragona la crisi economica che colpisce tutto il mondo e in particolare l’Europa a una guerra. Perché ?
«Per carità, non si può dire che viviamo come in Iraq. Ma in guerra, anche se non si abita in una zona di combattimento, anche se ci si trova per il momento al riparo dai tiri dei cecchini, non si può vivere in pace, perché si sa che domani gli scontri potrebbero spostarsi e arrivare più vicino a noi. Lo stesso accade con la crisi economica e la disoccupazione che continua a salire, in tutte le fasce della popolazione. A parte pochissimi e ricchissimi privilegiati, tutti sono coinvolti, anche la medio-alta borghesia. Oggi, in tutti i settori, a tutti i livelli, si può essere licenziati, l’impresa può chiudere, e le persone lo sanno».
I meno abbienti non patiscono di più le conseguenze della crisi?
«Ovviamente, mi si obietterà che non è la stessa cosa dormire sotto i ponti o avere paura di non potere più portare i figli in vacanza. Ma le sofferenze che io chiamo sociali sono trasversali, colpiscono quasi tutti e nessuno ne vuole parlare. C’è una grande rimozione in corso. Oggi, quando le persone hanno un po’ meno paura per loro, ne hanno un po’ di più per i figli. Eppure la trasmissione agli eredi può essere lo scopo di una vita: mettere i propri figli al sicuro, darsi il diritto di lasciare questo mondo in pace sapendo che loro non dovranno passare quel che è toccato a noi. La crisi economica sta spazzando via tutto questo. Ho scritto questo libro per ricordare che gli uomini, da un punto di vista psichico, hanno due colonne vertebrali: la vita privata e la vita sociale, ugualmente importanti. Finora ci siamo occupati solo della vita privata. Ma la vita sociale, ossia essenzialmente il lavoro, genera identità. Tutti o quasi oggi hanno paura di perderlo, e di perdersi».
In Francia, ma anche in Italia, il discorso pubblico tende a responsabilizzare gli individui al limite della colpevolizzazione. I politici ripetono le frasi «abbiamo vissuto per decenni al di sopra delle nostre possibilità», «bisogna essere flessibili», «vanno accettati tutti i lavori senza essere schizzinosi», come se la disoccupazione fosse una punizione per la svogliatezza dei singoli.
«È contro questo atteggiamento che mi batto. Io sono psicoanalista e quindi me ne rendo conto sul divano, come si dice, ma lo vedo anche nella vita quotidiana. Ho pazienti e amici disoccupati. “Non oso neanche più rispondere al telefono”, mi dicono, “non credo in me, ho l’impressione di non valere più niente, se anche mi proponessero un lavoro lo rifiuterei perché sento che non sarei all’altezza”. Possiamo pensare che tutte queste persone siano semplicemente dei fannulloni, io penso che la questione sia più complessa. Quando la società non ti vuole più, perché il tuo lavoro non merita più un salario, solo i megalomani reagiscono pensando di essere comunque i migliori del mondo. Gli altri accusano il colpo, e non oso pensare a che cosa sarà in futuro una società che coltiva in silenzio, anzi nella negazione, questi problemi».
La dimensione privata è sopravvalutata?
«Più che altro è sottovalutata l’altra, quella sociale. Si tende a pensare che la vita sociale di un individuo rientri nell’ordine dell’avere, non dell’essere. C’è questa falsa convinzione per cui l’individuo è nella vita privata, e poi ha una vita sociale. In questa visione, se ti amputano della tua vita sociale, del tuo lavoro, tutto sommato non è grave, l’importante è essere solidi da un punto di vista privato, intimo. Io penso il contrario. In Francia ci sono state epidemie di suicidi sul lavoro, dal caso France Télécom a quelli che si tolgono la vita davanti alle agenzie di collocamento. E la cosa strana è che in quei casi si va a frugare nella vita privata di quelle persone per trovare la vera causa, il vero motivo. Come se non bastasse, per voler morire, il non essere più nulla dal punto di vista sociale».
Qual è l’impatto dell’insicurezza economica sui giovani?
«Troppi, come sappiamo, non trovano lavoro o accettano impieghi infinitamente meno qualificati rispetto al loro livello di istruzione e preparazione. Hanno studiato per anni e non è servito a niente. Questo significa che l’idea della nascita alla vita adulta, l’ingresso nel mondo del lavoro, coincide con l’idea di morte, è la fine dei progetti. I giovani ne escono devastati ma pure i loro genitori, pronti come sempre a colpevolizzarsi».
Eppure tutti i giorni si parla della disoccupazione, non solo giovanile.
«Lo so, ma in termini generici, statistici. È vero, i sondaggi dicono “i francesi” (o “gli italiani”, ma possiamo metterci quasi tutti i popoli europei) hanno paura della disoccupazione”. Ma “i francesi” non vuole dire nulla, è un’entità senza volto. Non c’è giornale o rivista in cui non si parli di un tema personale, per esempio la gelosia. Ma delle conseguenze psicologiche della crisi economica invece non parla nessuno, forse perché sono poco glamour . Un bambino su cinque in Francia vive sotto la soglia della povertà. Potrà mai diventare un adulto psichicamente stabile? Io ho i miei dubbi, nonostante vada di moda il concetto di resilienza, cioè la capacità di superare gli eventi traumatici. Nel mio libro c’è l’idea che, per quanto solidi si possa essere, ci sono cose che non sono sopportabili».
Quali rimedi suggerisce?
«Come sempre la rimozione genera nevrosi, quindi per prima cosa dovremmo riconoscere la sofferenza sociale e trattarla per quel che è oggi, una specie di epidemia. Parlarne, in modo da non fare sentire soli quelli che ne sono colpiti. Poi usare meno l’espressione generica “disoccupato”, che azzera l’identità sociale delle persone. Non diciamo mai “fornaio senza lavoro”, “manager senza lavoro”, “operaio senza lavoro”: sono tutti degradati a disoccupati, ossia socialmente defunti».