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 2014  ottobre 28 Martedì calendario

KHADIJA EL FATKHANI, MAROCCHINA DI 42 ANNI, ACCOLTELLA IL COMPAGNO, UCCIDE I FIGLI DI 3 E 9 ANNI A COLPI DI MANNAIA E RIDUCE IN FIN DI VITA QUELLA DI 5. POI SI IMPICCA ALLO SCALDABAGNO

Un bagno di sangue. Un mattatoio, così l’hanno descritto i barellieri che, per primi, sono entrati in casa. Un bambino di 9 anni e una bimba di 3 massacrati a coltellate, la sorellina di 5 gravissima, il corpo e le mani straziate dai fendenti di una mannaia da cucina. Nel bagno, il corpo senza vita della madre, Khadija El Fatkhani, 42 anni, marocchina, riversa nella vasca da bagno, la cinghia con cui si era impiccata ancora stretta al collo. Un orrore che supera qualunque immaginazione e che ha fatto barcollare perfino gli agenti di Renato Cortese, il capo della Mobile. Strage in famiglia, su questo non ci sono dubbi. Tutto il resto è ancora da chiarire a cominciare dal perché. Prima di scagliarsi come una furia contro i tre bambini che adorava, Khadija aveva ferito con una pugnalata all’addome il marito, Idris Jeddou, 43 anni, incensurato, operaio della catena di mobili Mondo Convenienza, in regola col permesso di soggiorno. L’uomo si è presentato all’ospedale San Giovanni, con il ventre squarciato, alle 4.40 della notte tra domenica e lunedì, i corpi dei bambini sono stati scoperti solo alle 14.15 del giorno dopo. La bambina di 5 anni lotta per la vita all’ospedale Bambin Gesù: quei tagli sulle mani e sulle dita testimoniano il suo disperato tentativo di parare i colpi che le grandinavano addosso. Ma cominciamo dal principio. Carrellata sul luogo del delitto, uno dei palazzi che hanno fatto la storia delle occupazioni dei senzacasa a Roma. Via Carlo Felice 69, a due passi da piazza San Giovanni: un grande edificio umbertino che si staglia su un quadrilatero di strade dritte e ordinate: via Sclopis, via Provara, via Biancamano. Era il 2003 quando le prime famiglie, guidate dagli attivisti di Action entrarono nel palazzo, di proprietà della Banca d’Italia. Qualche scontro con la polizia, qualche tentativo di sgombero, poi, poco a poco, le acque si sono calmate. Oggi, spiega GiulianaCavallo di Action, a via Carlo Felice vivono, abbastanza comodamente, trentacinque famiglie di cui solo dieci di italiani. Al piano terra, i grafiti in stile precolombiano del centro sociale Sans Papier con le scritte che sembrano tag: «El mas trucido», «El mucho frio», «El Mas Caliente». Idris e Khadija erano arrivati per primi e i tre figli erano nati qui, in un appartamento di quattro stanze al quarto piano. «Bambini bellissimi, educati, sempre in ordine», si commuove una degli occupanti, una delle poche che sfugge alla rigidissima consegna del silenzio imposta, quasi subito, dai leader del movimento: della famiglia non parliamo, faremo un comunicato, queste cose succedono ovunque... Per i cronisti che cercano di capire, solo occhiatacce e banalità.«Lei era tornata un anno fa da un viaggio in Marocco e da allora non era più la stessa» dice il padre di un compagno di scuola del bambino «Portava il velo, non era più gioviale, sembrava angosciata». Nulla, però, fa supporre che dietro la tragedia si celi un sussulto di religiosità musulmana, imposta dal marito e subita dalla moglie come un’oppressione. «Non risulta niente del genere» tagliano corto alla Mobile. Nelle prossime ore, Andrea Di Giannantonio, capo della sezione omicidi, cercherà di scoprire qualcosa di più con un nuovo interrogatorio in ospedale. Nessuna accusa, almeno per ora, contro Idris Jeddou. L’uomo è arrivato al pronto soccorso dell’ospedale in condizioni gravissime: una lama lunga e acuminata gli aveva squarciato le viscere e lesionato il fegato. «Mi hanno aggredito sotto casa, hanno tentato di rapinarmi, ho reagito e mi hanno accoltellato», racconta all’agente del posto di polizia mentre i medici lo preparano per l’intervento. Quando si sveglia dall’anestesia, l’operaio è fuori pericolo ma continua a coprire la moglie senza immaginare cosa è accaduto nell’appartamento. Verso le 13.30 chiama casa: nessuno gli risponde. Riprova ma i cellulari squillano a vuoto. A questo punto, in preda all’angoscia, telefona a un amico: «Vai a vedere cos’è successo, per favore». L’uomo trova la porta socchiusa, entra e quasi sviene: i corpi dei bambini a terra, un coltello insanguinato in cucina, la mannaia sul pavimento del bagno, i lamenti sempre più flebili della bambina ferita. L’amico di famiglia lancia l’allarme al 118, sul posto arriva un’ambulanza della Croce amica e, poco più tardi, il palazzo è affollato di poliziotti mentre molti occupanti, con la cronica diffidenza verso le divise, scantonano discretamente.A via Carlo Felice piombano gli investigatori, il medico legale e il pm Francesco Minisci. La rigidità cadaverica indica che la strage risale ad almeno dieci ore prima e l’ipotesi più immediata, quella che sia stato l’uomo ad assassinare moglie e figli, crolla quasi subito. Impossibile pensare che abbia costretto la moglie ad impiccarsi. La cinghia che la donna aveva legato a un tubo dello scaldabagno, col passare delle ore, aveva ceduto e il corpo era piombato nella vasca. I rilievi della scientifica, secondo la Mobile, confermeranno questa ricostruzione. All’ospedale, nel frattempo, Idris crolla, piange, si dispera. «Avevamo litigato, mi ha pugnalato mentre stavo a letto, non potevo sapere che cosa sarebbe successo dopo, come me lo potevo immaginare?» ripete tra i singhiozzi. In queste prime ore, la polizia rispetta il suo strazio e non lo incalza, ma l’uomo ha ancora tante cose da spiegare. «Avevamo litigato» non basta. Il mistero di questa storia atroce si riassume in una sola parola: perché?
Massimo Lugli, la Repubblica 28/10/2014