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 2014  ottobre 25 Sabato calendario

MAN RAY, IL GENIO SURREALISTA SI TOGLIE LA MASCHERA DA PITTORE

Man Ray (1890-1976) si chiamava Emmanuel Radmitzky. Troppo lungo. E così dal nome viene estratta la parte centrale (man) e dal cognome le due lettere iniziali (Ra) e l’ultima (y). Che vuol dire: uomo raggio o uomo della luce. Se ogni mostra di Man Ray è un avvenimento, ci sarà pure qualche ragione. Probabilmente il fatto che avendo l’artista mille sfaccettature, ogni visitatore si confronta con quella in cui si riconosce di più.
E così, anche questa di Passariano (Villa Manin, sino all’11 gennaio 2015), a cura di Guido Comis, Janus, Antonio Giusa e Carlo Montanaro, racconta le invenzioni di un genio surrealista che è stato pittore, fotografo, regista e inventore di oggetti vari. Alla base di tutto, fantasia e ossessioni, senza le quali Man Ray non sarebbe esistito. In mostra , oltre 300 opere delle varie stagioni della sua perenne inventiva. Dalle prime esperienze americane, comprese quelle dadaiste (l’artista nasce a Filadelfia da padre ucraino — che nel 1886 viene negli Usa a cercare fortuna — e da madre bielorussa) al viaggio a Parigi del 1921; da Montmartre agli esperimenti fotografici e pittorici («Dipingo ciò che non è possibile fotografare e fotografo ciò che non voglio dipingere»); dall’abbandono della Francia occupata al rientro in America (Hollywood), al ritorno a Parigi, nel ’51, dove rimane per sempre. Verrà seppellito a Montparnasse.
Nella Ville Lumiére, Man Ray — che s’è portato dietro, in valigia, una boccia di vetro con alcune biglie d’acciaio immerse nell’olio — si stabilisce in rue Férou: casa e bottega. Proprio qui, il gallerista milanese Giorgio Marconi va a trovarlo per la prima volta, nel ’68. Il sodalizio dura otto anni, sino alla morte dell’«uomo raggio».
L’incontro è rievocato da Marconi nel catalogo di Passariano (Skira, pp. 274, € 36). Lo studio? Un grande locale con soppalco che prendeva luce dal tetto di vetro, ricavato da un cortile sul quale si affacciavano tre case. In una visita successiva, Man Ray regala a Marconi un portfolio del 1922. Quando il gallerista va via ed è a una cinquantina di metri dallo studio, l’«uomo raggio» lo richiama indietro. «Dammi cento dollari. Porta sfortuna regalare opere d’arte». Questa richiesta del surrealista Man Ray non ha nulla di surrealista. Surrealista, invece, il gesto di Giorgio che gli molla i cento dollari senza fiatare.
In mostra, i lavori «classici» dell’artista, ma anche le prime prove del 1912, i carboncini su carta con i nudi di donna; il primo autoritratto (1914); paesaggi, nature morte e sculture di ispirazione cubista; le foto di Marcel Duchamp (comprese quelle col cranio rasato a forma di stella); scacchi in alluminio (sculture e fotografie). Ed ancora: Tristan Tzara seduto in cima a una scala; la costruzione di appendiabiti. Curiose e talvolta divertenti le foto degli amici artisti: Picabia al volante della sua auto; Breton sdraiato davanti all’ Enigma d’una giornata di De Chirico; Picasso davanti a un portacenere pieno di mozziconi; Brancusi che fuma; Dora Maar (ritratto a china e foto); ritratto «solarizzato» di Max Ernst, un pensoso James Joyce. Ci sono anche Harp, Giacometti, Dalí, Buñuel, i gruppi dada e surrealista, Eluard, Aragon e Cocteau in tutte le salse. Oltre alle fotografie sperimentali e agli autoritratti (con mezza faccia rasata, con solo pizzo o barba intera) — in cui talvolta pare di vedere Italo Calvino — la rassegna abbraccia anche alcuni film sperimentali anni Venti ( Ritorno alla ragione , Emak Bakia , I misteri del castello del dado , Stella marina ).
Straordinaria la galleria delle compagne e muse ispiratrici: dalla Kiki del Violon d’Ingres a Meret Oppenheim; da Natasha a Lee Miller, a Nush, moglie di Paul Eluard. «Io cerco l’oro del tempo», aveva detto André Breton. Enigmatico e ironico, Man Ray lo aveva già trovato nel corpo femminil e.
sgrasso@corriere.it