Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 24 Venerdì calendario

CI SIAMO TUFFATI NEL FUTURO: NON È MICA TANTO BELLO…


ISCHIA. Il pesce pagliaccio, come certi cocainomani incalliti, non sente più gli odori. Neanche quello dei predatori che potrebbero mangiarselo. È come se avesse il radar guasto, mandato in malora dall’acqua acida. È una delle tante vittime dello stress ambientale che intossica i mari. Per capire il quale non c’è posto migliore che immergersi a poche decine di metri dal Castello Aragonese, splendida fortificazione arroccata su un isolotto collegato con un ponte a Ischia. Perché qui camini vulcanici sotterranei pompano costantemente dell’anidride carbonica nell’acqua, alterandone la composizione chimica. Il Ph medio è già di 7,8, ovvero il livello cui dovrebbe scendere quello degli oceani (oggi a 8,1) entro il 2100, secondo le allarmate previsioni degli scienziati. Gli effetti della versione subacquea del global warming – che ci preoccupa meno solo perché viviamo sulle minoritarie terre emerse – qui si vedono con un’anteprima di quasi un secolo. E non è un bello spettacolo.
Le praterie di posidonie, già a due-tre metri di profondità, sono un caos. È come se fosse passato un giardiniere ubriaco. Nella zona più lontana dalle eruzioni di CO2 le foglie sono lunghe, chiare e fluenti. Ma più ci si avvicina ai soffioni subacquei, Jacuzzi naturali che pullulano di bolle, più le loro fronde si abbassano, sino a scomparire in una sorta di spugnoso prato all’inglese, e anche mangiucchiato. È come se si passasse, in poche decine di metri, dalla savana alla steppa. Perché, semplificando, l’acidità scioglie gli epifiti, dei microrganismi calcarei normalmente presenti sulla pianta acquatica, rendendola più indifesa e appetitosa per le salpe o altri pesci che se ne cibano. Poco male, si dirà: meglio un po’ di flora in meno e fauna più in salute. Peccato che ogni azione, ambientalmente parlando, provoca una reazione. E quindi meno posidonie vuole dire una minore capacità dei mari di assorbire CO2 dall’atmosfera, il cosiddetto effetto carbon sink. Ma anche, con meno foglie secche portate a riva dalla risacca, una ridotta barriera contro l’erosione delle spiagge. Solo per fare un paio di esempi tra i tanti interni a quegli incommensurabili ipertesti che sono gli ecosistemi.
Su questo formidabile laboratorio naturale veglia la squadra di ricerca della Stazione zoologica Anton Dohrn, su un promontorio che sovrasta il porto, nella villa rossa che fu del celebre naturalista tedesco, darwiniano entusiasta. «È come una macchina del tempo che ci mostra oggi quel che può succedere domani» riassume Maria Cristina Buia, una dei quattro ricercatori. Scientificamente non è un vantaggio da poco. E posti così, nel mondo, ce ne sono giusto tre in Papua Nuova Guinea e uno in Giappone, oltre a un’altra manciata con caratteristiche simili, ma non identiche. Un’unicità che non si desume dall’entrata modesta che la Stazione deve forzosamente condividere con il dehors di un ristorante, costringendo a un ridicolo zigzag tra i tavoli. Chissà che devono aver pensato Amit Kumar, il dottorando indiano che vedo armeggiare con un microscopio, o i vari studiosi da tutto il mondo che vengono qui in processione. Maria Cristina Gambi, altra ricercatrice veterana, scuote la testa: «Quando segnalammo una distesa di importanti alghe rosse, quelli che volevano sloggiarle per fare lavori al porto ci guardarono come guastafeste. Ma la nostra missione è difendere questo ambiente, studiarlo e ricavarne avvertimenti per il benessere del Pianeta». Mi mostra una mappa che, oltre alla peculiarità delle eruzioni di CO2, registra che questa zona si trova sul confine bio-geografico internazionalmente noto come 14 divide, dai gradi minimi che qui raggiunge la temperatura marina. O forse è meglio dire che si trovava, dal momento che il termometro è ormai quasi fisso su 15, il livello che competeva al Canale di Sicilia. Il corrispettivo climatico del risalire della linea della palma di cui parlava Sciascia. Che anche stavolta non annuncia buone notizie.
Durante l’immersione Bruno Iacono, che per la Stazione documenta con foto e video le modificazioni dell’habitat, mi indica una patella anomalmente bianca, attaccata a uno scoglio. «La sua conchiglia è stata corrosa dall’acidificazione, che varia e può scendere anche sotto il Ph 7. Immaginate di metterne una sotto aceto. Per resistere lei produce più carbonato di calcio, ma se anche sopravvive il suo comportamento cambia, e con esso varie dinamiche connesse» si sforza di parlare facile Buia. Valerio Zupo è lo specialista di molluschi. Ha scoperto che, dopo aver mangiato alcuni nutrienti che si trovano sulle posidonie acidificate, molti gamberetti locali cambiano sesso: «Lo fanno attraverso l’apoptosi, ovvero la morte programmata di alcune cellule, in questo caso il gamete maschile, ed è l’ennesimo meccanismo adattativo nei confronti dell’ambiente modificato». Una specie di eutanasia selettiva di certi organi che potrebbe dare indicazioni utili nella cura del cancro. L’ennesima, radicale risposta evolutiva per sopravvivere in un ambiente diventato ostile.
Nelle zone più acide sono spariti i ricci e sono comparse specie aliene, magari rimaste attaccate agli scafi delle navi o nelle loro acque di sentina, come la caulerpa. Col suo bel verde brillante sembra assai meno minacciosa delle carpe asiatiche che infestano i fiumi americani, ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Si moltiplica rapidamente e tende a colonizzare gli ambienti dove attecchisce.
La squadra della Anton Dohrn è la capofila italiana dell’Embrc, il principale network europeo di biologia marina. Una volta era il nostro Paese a guidarlo, ora la Francia. «I fondi del progetto Ritmare dovevano durare cinque anni, saranno tagliati a tre» spiega Buia. Sono abituati alle spending review da prima che diventassero di moda. Per far tornare i conti, laicamente, non trascurano neppure le eventuali ricadute industriali dei fenomeni studiati. «L’interruttore biologico per cui le patelle producono carbonato di calcio» spiega Francesco Paolo Patti «potrebbe servire a produrre calce. Un meccanismo che Italcementi sta studiando, ma anche Ferrarelle, per depurare dal calcio le sorgenti».
Ci sono più cose in mare, di quante ne sogni la tua filosofia, verrebbe da dire parafrasando Amleto. Il pesce pagliaccio non ha da stare allegro. Ma neanche l’uomo, se solo ci pensasse bene, avrebbe granché da ridere.
Riccardo Staglianò