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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

ARTICOLI SULL’ATTENTATO IN CANADA


GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA
E’ un atto terroristico. Per l’obiettivo: il Parlamento a Ottawa, Canada. Per la dinamica: un attacco costato la vita ad un soldato e al killer, oltre a 3 feriti. Per le conseguenze: con la polizia alla ricerca di uno o due possibili complici e un allarme che si è propagato fino agli Usa. Quanto all’assassino lo hanno identificato come Michael Hall, che avrebbe poi cambiato il suo nome in Michael Zehaf Bibeau dopo la conversione. Canadese, 32 anni, con un passato nella droga, gli avevano ritirato il passaporto perché temevano volesse unirsi a qualche formazione estremista all’estero. Informazioni non ufficiali e dunque suscettibili di correzioni.
La cronaca. Martedì è giorno di seduta per i deputati canadesi. Nel palazzo c’è anche il premier Stephen Harper. All’esterno, poco lontano, un soldato di guardia al monumento ai caduti. È il primo target. Un uomo vestito di scuro e con il volto coperto arriva in auto, parcheggia, poi si avvicina e spara una fucilata contro uno dei militari, che sarà poi identificato come Nathan Cirillo. Un testimone lo vede dalla finestra e racconta: «Subito dopo ha alzato fucile e braccia al cielo». È un istante. L’assalitore si impadronisce di un veicolo ufficiale per raggiungere l’ingresso del Parlamento. Irrompe nell’edificio, corre lungo un corridoio, fino alla biblioteca, inseguito dai poliziotti. Nuovo conflitto a fuoco. Un video registrato con il telefonino «incide» un’esplosione e numerosi spari.
Il killer forse vuole raggiungere i deputati ma la sua incursione si ferma. Grazie all’eroe della giornata. Kevin Vickers, ex giubba rossa che fa parte della sicurezza. È lui che colpisce a morte l’omicida. Fine cruenta che non chiude l’emergenza. La polizia cerca i possibili complici, si teme una presa d’ostaggi. Giornalisti, impiegati e deputati si barricano negli uffici. Aspettano le unità speciali mentre il primo ministro Harper è «messo al sicuro».
All’esterno viene creata una «cintura» per tenere sotto controllo l’area. Qualcuno presta soccorso al soldato colpito. Respirazione bocca a bocca, massaggio cardiaco, manovre disperate. Il soldato morirà in ospedale. Sono momenti frenetici, la città è sotto assedio. Scuole e uffici chiusi. Si diffonde la voce (smentita) di una terza sparatoria all’interno di un centro commerciale. Si parla di un inseguimento. Tutte news incontrollabili innescate dalla paura di altri colpi. Un filo che arriva fino a Washington. Barack Obama è informato, il comando aereo Usa fa levare in volo un numero maggiore di caccia, l’Fbi raccomanda attenzione al proprio personale e ai soldati in divisa, il Pentagono tiene d’occhio il cimitero militare di Arlington.
Le autorità ammettono di «essere state colte di sorpresa» nonostante avessero innalzato il livello di vigilanza antiterrore. I servizi di sicurezza esaminano gli scenari. L’attacco ricorda le azioni dei jihadisti, le operazioni senza ritorno a Kabul, Mumbai e in Pakistan. L’Isis da settimane minaccia i Paesi dell’Occidente. Ottawa ha appena schierato i caccia per partecipare ai raid in Iraq. E lunedì c’è stato l’episodio del militare investito e ucciso da un convertito all’islam.
Se si unisce tutto questo al numero di estremisti presenti nel paese il link con le crisi mediorientali non sembra strano. Michael, secondo le prime informazioni, sembra inserirsi in questa cornice. Gli investigatori esplorano ogni ipotesi, compresa quella di un atto di terrore «interno», magari di un elemento anti-Stato. Se è una questione solo canadese perché tutta questa mobilitazione anche negli Usa? Le prossime ore saranno decisive per capire.
G.O.

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GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA
L’indagine parte da un nome. Michael Zehaf Bibeau o, secondo fonti americane, Michael Hall. Sarebbe il terrorista protagonista morto nell’assalto al Parlamento. Un elemento considerato «a rischio» perché pronto ad aderire alla Jihad.
Canadese, convertito, il profilo di Michael potrebbe combaciare con quello di molti militanti. Una doppia arma. Combattono in Medio Oriente ma sono disposti ad agire nei loro Paesi in risposta agli appelli del Califfo dell’Isis o di ideologi minori. E questa volta è toccato al Canada, un Paese nel mirino.
E’ alleato di Washington, ha deciso di partecipare alla missione anti-Isis, ha varato misure anti-terrore. Grandi scenari intrecciatisi con un fatto contingente: ieri sera il premier Harper avrebbe dovuto premiare il Nobel Malala. Non è dunque strano che il Paese sia un bersaglio. E’ un terreno fertile per gli islamisti. Michael è rimasto a casa ma diversi connazionali, molti dei quali convertiti, sono partiti per i vari fronti. E da molto tempo.
Un buon numero si è mescolato ai qaedisti somali. Famoso il ruolo di «Mamma Shebab», una donna di Toronto stabilitasi a Merca dove ha accolto decine di mujaheddin occidentali. Nella colonna qaedista che assale l’impianto di In Amenas, Algeria, nel gennaio 2013, ci sono due canadesi dell’Ontario che moriranno nella successiva battaglia. Xristos Katsiroubas, un greco ortodosso passato all’islamismo, e il suo amico Alì Medlej, fanno parte del commando mandato da Mokhtar Belmokhtar per condurre la clamorosa presa d’ostaggi. Con loro doveva esserci un terzo militante, un compagno di liceo, Aaron Yoon, cattolico d’origine sudcoreana. Solo che lo hanno catturato in Mauritania. Le indagini accerteranno che Xristos è stato tra i più attivi durante l’attacco.
E’ il percorso che hanno seguito altri entrati in brigate ribelli in Siria e in Iraq, con una preferenza per le formazioni più dure. Prima al Nusra - al Qaeda pura -, quindi con i seguaci del Califfo, l’Isis. I servizi di sicurezza hanno certificato che sono circa 130 i canadesi che si sono unite a formazioni all’estero e 80 sono rientrati a casa diventando delle bombe a tempo. Pronte a esplodere. In modo autonomo, innescate da una semplice ispirazione o con dei complici. E’ la paura dei veterani in grado di agire a Ottawa come a Londra. Ma anche il timore per minorenni - ragazzi e ragazze - affascinati dai gesti jihadisti scoperti navigando sul web.
Ecco i «cinque di Calgary», tutti partiti attorno al 2012. Come Damian Clairmont, ucciso in Siria due anni dopo, o Salman Ashrafi fattosi saltare in aria in Iraq. Stesso destino di Andre Poulin, un ex anarchico che ha imparato a fare le bombe su Internet ed ha poi cambiato in modo netto unendosi ai jihadisti. Ha scelto di morire da kamikaze con il nome di Abu Muslim. In eredità ha lasciato un video che l’Isis usa per reclutare all’Ovest. Il messaggio non concede spazio a mediazioni. Mohammed Alì, abbandonati i genitori nella cittadina canadese di Mississauga, è ricomparso a Raqqa, roccaforte Isis. Di recente ha postato su Internet una piccola poesia: «Le rose sono rosse, le violette blu, l’Isis sta arrivando nella città vicino a te». Appelli che non cadono nel vuoto.
Le vite dei militanti sono sintesi di indottrinamento fai da te sul web, contatti con facilitatori di gruppi radicali e azioni dirette. Percorsi brevi, talvolta con alle spalle guai con la legge per crimini minori. Lupi solitari. Martin Ahmad Rouleau ha ucciso lunedì un soldato a Montreal investendolo con la sua auto. Applicazione crudele della lezione impartita dal portavoce dell’Isis, al Adnani. Se non hai le armi arrangiati, anche con una pietra. Altrimenti impugna un fucile, cosa che avrebbe fatto Michael. Lasciato alle spalle i problemi di droga, si è «redento» con un atto di terrorismo. Interessante che il 21 ottobre uno dei tanti propagandisti Isis, Abu Khaled al Kanadi, ossia il canadese, avesse invitato a seguire l’esempio di Martin tornando ad attaccare.
Le notizie sul sospetto hanno finito per oscurare la seconda pista, pur considerata e non esclusa completamente. Quella di un attentato di estremisti «interni». Sono entrambi avversari difficili da affrontare. Alcuni si insinuano sotto il radar, altri sono noti ma ne scopriamo la pericolosità solo quando uccidono.

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CORRIERE DELLA SERA
È una coincidenza che colpisce: proprio nel giorno del terrore Malala Yousafzai era attesa in Canada per due eventi in suo onore. In seguito alle sparatorie di Ottawa, gli incontri della giovane Nobel per la pace sono stati cancellati.
Entrambi gli appuntamenti erano in programma a Toronto, dove la diciassettenne pachistana, attivista per il diritto all’istruzione delle bambine, avrebbe dovuto incontrare gli studenti e ricevere la cittadinanza onoraria canadese.
È stato l’ufficio del primo ministro Stephen Harper ad annunciare la cancellazione degli incontri. Harper doveva «moderare» un’intervista di gruppo in cui Malala avrebbe risposto alle domande degli studenti in una scuola superiore. Da lì la giovane, gravemente ferita dai talebani il 9 ottobre del 2012 mentre tornava da scuola, doveva spostarsi in un albergo del centro per la cerimonia della cittadinanza, voluta dai parlamentari del Paese. Harper martedì aveva parlato di Malala alla Camera dei comuni, luogo dell’attacco di oggi, ricordando la sua battaglia non violenta per i diritti dei minori e delle bambine in particolare. Il premier si trovava nel palazzo del Parlamento quando è cominciata la sparatoria: le forze di sicurezza l’hanno subito trasportato in una località segreta. Malala, che vive a Birmingham, in Inghilterra, arrivava da Philadephia, dove è stata premiata con la Medaglia della libertà.

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ALBERTO FLORES D’ARCAIS, REPUBBLICA
IL GIORNO più lungo del Canada inizia alle 9.52 di una tiepida mattina d’autunno. Due uomini, raccontano i testimoni, scendono d’improvviso da una Toyota Corolla grigia, sono armati, nel giro di pochi secondi sparano, feriscono, uccidono. Uno dei due resta a terra, freddato anche lui, mentre tutto intorno, tra urla di paura, gente paralizzata, fughe e sirene che ululano, la placida Ottawa fa la sua conoscenza, diretta e sanguinosa, con il terrorismo. Wellington Street è la grande arteria che costeggia Parliament Hill, il cuore dei palazzi del potere, è lì che gli uomini che hanno scelto di uccidere hanno parcheggiato l’auto, in un punto strategico tra il War Memorial e il palazzo da dove ministri e deputati governano il paese. È l’inizio di ore di caos, di cittadini che scappano o vengono chiusi in edifici trasformati in trappole, con gli agenti speciali che battono l’area palmo a palmo quasi fosse una zona di guerra, con proiettili che fischiano in un centro commerciale, cecchini agli angoli delle strade e un commando di terroristi — forse erano in tre, qualcuno parla addirittura di un commando — a sparare da un tetto. E con un primo ministro portato in salvo, in un luogo segreto e in modo spettacolare, dalle forze speciali.
Il primo caduto, quasi fosse una guerra vera, è un soldato: Nathan Cirillo, italocanadese. Lo hanno colpito alle spalle mentre faceva la guardia al War Memorial, il grande arco di pietra bianca con i bronzi che ricordano i soldati canadesi morti nelle guerre mondiali. Lo ha ucciso con un fucile da caccia un uomo vestito di nero, dicono i testimoni, con i capelli lunghi e scuri e con una sciarpa a coprirgli mezzo volto. Lo stesso terrorista, stando alle prime ricostruzioni, dopo essersi impadronito di un’auto ufficiale (le uniche autorizzate ad entrare nell’area) si è diretto verso il Parlamento, facendosi largo a colpi di fucile automatico. La sua esistenza dannata è stata chiusa dalle pallottole sparate da un ex “Mountie”, le giubbe rosse della polizia canadese, che si trovava per caso da quelle parti: un ex poliziotto, di cui già si parla come di un eroe. Il suo nome è Kevin Vickers, responsabile della Sicurezza al Parlamento canadese: «I parlamentari e il personale devono la loro vita a Vickers che ha ucciso l’aggressore appena fuori dell’aula dove erano riuniti». Poche ore dopo, la polizia ha fatto filtrare anche il nome dell’uomo ucciso: si tratterebbe di Michael Zehaf-Bibeau, cittadino canadese nato nel 1982 e convertito all’Islam (prima, si chiamava Michael Joseph Hall), su cui ora sono convogliati tutti gli sforzi investigativi. Non solo: la sua foto è stata subito postata in rete dall’Is.
Per il Parlamento ieri doveva essere una giornata importante: quando è partito l’attacco era appena iniziato il “caucus” dei deputati conservatori, e il premier Stephen Harper nel giro di un paio d’ore avrebbe dovuto consegnare la cittadinanza onoraria a Malala Yousafzai, l’attivista pachistana premio Nobel per la pace. È stato invece un inferno: fucilate da una parte e dall’altra, tre feriti, dimessi in serata. All’interno dell’edificio principale si sono vissuti momenti di vero e proprio terrore. Tutto intorno il centro di Ottawa è stato completamente bloccato, tutti costretti ad andarsene sotto scorta, divieto assoluto di affacciarsi dalle finestre, mentre centinaia di agenti in assetto di guerra e squadre speciali anti-terrorismo appoggiati da blindati leggeri, si impadronivano del territorio. Troppo tardi per evitare un’altra sparatoria, questa volta al Rideau Center, il grande centro commerciale su tre piani a poche decine di metri dal Parlamento, in tempo per mettere in fuga un paio di terroristi cecchini appostati su un tetto.
Dopo cinque ore dai primi spari Ottawa è una città in stato d’assedio, con gli appelli diffusi a mezzo radio e social network affinché chi ha informazioni utili a rintracciare i terroristi in fuga le fornisca in tempo reale, mentre il premier Harper parla dell’assalto come di un «atto spregevole». Ogni auto viene controllata, agenti armati fino ai denti perquisiscono ogni angolo di edifici pubblici, case private, portoni, negozi. In centro le scuole, gli uffici e le ambasciate sono state messi in lockdown, nessuno (e niente) può entrare o uscire. Chiusa ed evacuata anche l’ambasciata italiana, con l’ambasciatore Gian Lorenzo Cornado rimasto bloccato al Convention Center dove era in corso una riunione sull’Artico. L’attacco al Parlamento arriva — forse non a caso — il giorno dopo in cui in Canada era stato proclamata la massima allerta anti-terrorismo, per l’adesione del Paese alla coalizione internazionale. Martedì era morto uno dei due soldati che lunedì erano stati investiti con l’automobile da Martin Couture-Rouleau (anche lui convertito all’Islam, poi ucciso dalla polizia) a Saint-Jeansur Richelieu, piccolo centro vicino Montreal. Per l’intelligence Usa quello dell’“incidente automobilistico” è uno degli scenari previsti dai manuali dello Stato Islamico nei suoi messaggi ai simpatizzanti in Occidente. Pur avendo elevato il livello di allarme le autorità canadesi avevano precisato di non essere in presenza di una minaccia specifica ma che «individui o gruppi all’interno del Canada hanno l’intenzione e le capacità di commettere atti di terrorismo».
Anche negli Stati Uniti l’Fbi, nel timore che si tratti di un attentato di matrice jihadista, ha alzato il livello di allerta, mentre Obama, appena informato dei fatti, ha subito telefonato al premier canadese. A Washington sono state rafforzate le misure di sicurezza attorno all’ambasciata canadese e attorno al cimitero monumentale di Arlington, dove sono sepolti i reduci di tutte le guerre.

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PAOLO G. BRERA, REPUBBLICA
PAOLO G. BRERA
«SIAMO qui, bloccati nel Centro
congressi di Ottawa a pochi passi da Capitol Hill: ci hanno chiusi dentro, al sicuro». Enrico Brugnoli, direttore del dipartimento Terra e Ambiente del Cnr, è nella capitale canadese per un progetto di ricerca.
Avete paura?
«Ci hanno detto di non avvicinarci alle finestre, di rimanere qui nell’androne. Ci hanno avvertiti gli uomini della sicurezza con gli altoparlanti, dandoci ordini precisi su istruzioni che penso arrivassero dalla polizia. Ci hanno portato qualcosa da mangiare e ci hanno avvertito che per ragioni di sicurezza non possiamo entrare né
uscire».
Sono trascorse ore dalla sparatoria, ma nel centro di Ottawa la crisi è ancora in atto?
«Dicono che la situazione sia sotto controllo, forse potremmo anche cominciare a uscire ».
Arrivano immagini di strade deserte, una città sotto assedio in un silenzio spettrale.
«Ci hanno appena avvertiti che l’operazione di polizia è ancora in corso, ma forse si è spostata in un’altra area. Ora dalle finestre si vede qualche auto, qualche passante».
Quanti italiani ci sono con lei?
«Sono insieme ad altri quattro studiosi italiani, e qui accanto a me c’è anche l’ambasciatore italiano in Canada, Gian Lorenzo Cornado. Insieme ai colleghi canadesi siamo tutti qui per un progetto di studio sui cambiamenti climatici nell’Artico».
Quando tornerete?
«Domani (oggi, ndr) abbiamo il volo, ma dormiamo nell’albergo Château Laurier accanto al centro commerciale nel quale hanno sparato. Il Centro congressi è a tre minuti di strada a piedi, e per arrivarci si passa proprio davanti al War Memorial dove hanno ucciso il soldato. Terribile, proprio ieri eravamo in visita al Parlamento».

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PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA
L’incubo del lupo solitario, o della cellula autonoma che decide di colpire nel nome del terrorismo islamico, anche senza avere un ordine preciso o un collegamento diretto con l’Isis e altri gruppi. Questa è la minaccia che preoccupa di più l’intelligence americana, nonostante finora non esista una versione ufficiale definitiva dell’attacco avvenuto ieri al Parlamento canadese.


«Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 - ci spiega Brian Jenkins - negli Stati Uniti sono stati organizzati 43 complotti homegrown, ossia gestiti da persone locali. Le forze dell’ordine sono riuscite a sventarne 39, mentre quattro hanno colpito. Non è un fenomeno nuovo, dunque, e quello che sta avvenendo in Medio Oriente con l’offensiva dell’Isis rende probabile che ciò si ripeta».
Jenkins è il fondatore del programma anti terrorismo della Rand Corporation, e in varie occasioni ha operato come consigliere della Casa Bianca. Il suo sospetto è condiviso da molti membri dell’intelligence, che stanno indagando sugli attacchi di Ottawa. «Dobbiamo essere prudenti - aggiunge Jenkins - perché non abbiamo ancora la certezza di quanto è avvenuto in Canada. Negli Usa abbiamo avuto anche squilibrati che hanno sparato su persone innocenti per nessuna ragione, o gruppi di estremisti interni anti governativi che hanno colpito per sfidare lo stato. Dato il clima attuale, però, l’ipotesi di una iniziativa autonoma collegata al terrorismo islamico è credibile».

Il primo elemento che fa sospettare questa pista è l’episodio avvenuto lunedì a Saint-Jean-sur-Richelieu, dove Martin Rouleau ha investito e ucciso con la sua auto un soldato. Rouleau era un noto estremista, a cui le autorità avevano tolto il passaporto quando aveva cercato di andare in Turchia per poi unirsi all’Isis. Da diversi giorni l’intelligence canadese aveva intercettato comunicazioni minacciose negli ambienti vicini o ispirati dal terrorismo islamico, e l’8 ottobre scorso aveva sventato un tentativo di lanciare un attacco con pistole e coltelli in un luogo pubblico, ispirato alle tattiche usate in Siria e Iraq dall’Isis.
Nel caso di Ottawa, le autorità hanno identificato l’assalitore ucciso - un canadese convertito all’islam - e hanno detto di non aver scoperto legami diretti con il terrorismo. «Ma questo - spiega Jenkins - non vuol dire molto. La maggior parte delle persone coinvolte nei 43 complotti tentati negli Usa non era nelle liste dei sospettati o dei ricercati. La natura della sfida lanciata dall’Isis è proprio questa: ispirare e spingere persone normali ad agire nel suo nome, diventando guerrieri dell’islam estremista ovunque si trovino». Quanto ai mezzi, «se hanno accesso alle armi possono usarle. Se non le possiedono, però, la stessa propaganda del gruppo terroristico ha suggerito di usare le auto per investire gli obiettivi, puntando in particolare contro i militari o il personale in divisa».
In Europa, in Belgio, è già accaduto che ex membri dell’Isis abbiano colpito una volta tornati in patria. Negli Usa, invece, un caso significativo è quello delle tre ragazze adolescenti del Colorado che sono state fermate in Germania, mentre cercavano di imbarcarsi su un aereo diretto in Turchia per poi unirsi all’Isis: «Non sappiamo - spiega una fonte di intelligence - cosa sia passato nella testa di quelle ragazze, ma è indicativo di quanto sta avvenendo nelle nostre società. Loro hanno provato ad andare in Siria, ma potevano anche cercare una pistola per sparare dentro un centro commerciale in Colorado. Altre persone normali, o comunque non sotto l’osservazione delle forze dell’ordine, potrebbero rispondere così alla propaganda dell’Isis. Questo è il nostro incubo, perché può avvenire ovunque, in ogni momento».

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FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA
Il Canada nel mirino. È un vero e proprio blitz quello avvenuto ieri al Parlamento di Ottawa, in Canada, dove un presunto commando, costituito probabilmente da almeno tre persone, ha dapprima ucciso un militare di guardia davanti all’antistante «National War Memorial, l’italo-canadese Nathan Cirillo, poi ha fatto irruzione nel palazzo. Ne è nata una sparatoria, proprio mentre nelle stanze del Parlamento era in corso una riunione di alto livello: uno degli attentatori è morto sotto i colpi dei militari e delle forze dell’ordine che hanno risposto al fuoco. Sarebbe Michael Zehaf-Bibeau, 32 anni, un canadese del Quebec convertito all’Islam secondo fonti statunitensi.
Smentite invece le voci di una terza azione al Rideau Centre, un edificio che come gli altri due fa parte del complesso governativo noto come «Parliament Hill». Le Giubbe Rosse hanno escluso che spari siano stati esplosi in quel punto, e hanno spiegato che nel complesso si è trattato di due distinti scontri a fuoco, in cui sono coinvolti almeno tre attentatori, appartenenti forse allo stesso gruppo di fuoco. «La situazione è ancora fluida e l’operazione ancora in corso, ci sono ancora molte domande a cui non possiamo rispondere», avvertiva la polizia ancora nella serata di ieri.
Secondo quanto riferito dalle autorità sanitarie, oltre il militare ucciso, ci sarebbero anche due feriti. Gli inquirenti si sono messi subito al lavoro per capire se dietro l’attacco ci sia una matrice terroristica, ipotesi non ancora confermata né esclusa. Il fatto è che quanto accaduto arriva a due giorni di distanza dai fatti del Quebec dove due soldati canadesi sono stati investiti con una vettura da Martin «Ahmad» Rouleau, estremista islamico noto alle forze dell’ordine per le sue simpatie per l’Isis. Gli era stato sequestrato il passaporto tempo prima, mentre tentava di raggiungere la Turchia per arruolarsi nelle fila del Califfato. Uno dei due militari di stanza a Saint-Jean sur Richelieu, 40 chilometri a nord di Montreal, nella provincia canadese del Quebec, è morto, l’altro è in gravi condizioni, mentre il terrorista è stato ucciso dalla polizia.
«Un attacco spregevole», ha commentato il premier canadese, Stephen Harper, in merito a quanto accaduto a Ottawa. Mentre per il sindaco della città, Jim Watson, «si tratta di un giorno triste e tragico per la nostra città e per il nostro Paese». Della vicenda è stato informato subito il presidente americano, Barack Obama il quale, nel corso di un colloquio telefonico con Harper, ha offerto tutto l’aiuto degli Stati Uniti. A scopo cautelativo sono state chiuse le rappresentanze diplomatiche di diversi Paesi, tra cui Italia e Usa, ed è stata rafforzata la sicurezza nelle basi militari del Paese. Il Comando di Difesa Aerospaziale del Nord-America (Norad) ha aumentato il numero di velivoli in stato di allerta, pronti a intervenire se necessario. «Abbiamo preso tutte le misure adeguate per assicurare che il Norad sia pronto a rispondere velocemente ad ogni emergenza», ha detto il portavoce Jeff Davis. Il timore tuttavia che si tratti di un attacco terroristico, e quindi di più ampio respiro, ha spinto a rafforzare le misure di sicurezza anche negli Stati Uniti e in particolare a New York, dove maggiore sorveglianza è stata assicurata alle sedi consolari del Canada e del Regno Unito. Il Canada del premier conservatore Stephen Harper è del resto al fianco degli Usa su tutti i fronti caldi, dall’Afghanistan alla guerra all’Isis, e per questo potrebbe rivelarsi «obiettivo sensibile».

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STEFANO GULMANELLI, LA STAMPA
Sono almeno 130 i terroristi islamisti «cresciuti in casa» che minacciano il Canada. E altri 90 sono fortemente sospettati. Numeri che fanno del Paese nordamericano uno dei più «infiltrati» dall’Isis al mondo, tenuto conto che, secondo l’Fbi, i sospetti equivalenti negli Stati Uniti sarebbero soltanto un centinaio.
E, se sarà individuata una matrice islamista nell’attacco di ieri, il Canada si ritroverà in prima linea, dopo una serie di segnali premonitori. L’8 ottobre la polizia aveva sventato un attentato che prevedeva un attacco con «coltelli e fucili» in un non meglio identificato «spazio pubblico». Venerdì scorso, l’allerta antiterrorismo era stata portata da livello basso a medio. Conseguenza, si diceva, dell’impegno offerto dal Canada alla campagna anti-Isis lanciata dagli Usa. Un impegno limitato (sei bombardieri e due aerei da ricognizione) ma sufficiente a far sì che un sedicente portavoce dello Stato Islamico sollecitasse attacchi contro canadesi, militari o civili che fossero: «Uccideteli in qualsiasi modo e maniera, senza chiedere consiglio alcuno».
Non era una minaccia da sottovalutare: gli «home-grown terrorists», secondo fonti dell’intelligence locale, sono almeno 130. Persone di nazionalità canadese che si sospetta si siano unite all’Isis, mentre altre 90 avrebbero fatto viaggi sospetti all’estero e sarebbero ora in patria. Il numero è significativo perché i cittadini Usa sospettati di essersi uniti al radicalismo islamico sono in tutto un centinaio, in un Paese che ha una popolazione dieci volte superiore a quella del Canada. Un dato che appare strano per un Paese con una tradizione di cauta neutralità lontana dalla postura imperiale statunitense. Anche se confrontato con l’Australia, il dato sugli estremisti «nazionali» vede il Canada in «vantaggio» per 3 a 1.
Che cosa porta a questa sovra-rappresentazione di estremisti nella società canadese? Due sono i punti su cui si focalizza l’attenzione degli osservatori. Il primo è l’implicito garantismo che permea il sistema giudiziario canadese. Nonostante una disposizione che consente l’arresto di quanti si sospetta viaggino per scopi terroristici, l’incriminazione è difficile: «Provare attività terroristiche compiute all’estero in un modo che possa resistere al vaglio della corte è complicato» nota Christian Leuprecht, esperto di terrorismo alla Queen’s University. L’altro fattore considerato di aiuto a chi voglia contribuire alla causa estremista è la mancanza di misure ad hoc contro il trasferimento di fondi verso Paesi da cui partono finanziamenti a gruppi terroristici. Non a caso si cita ad esempio la legislazione introdotta in Australia, che rende tali trasferimenti di fondi quasi impossibili.
È facile prevedere che, alla luce degli eventi di ieri, proprio questi due elementi - garantismo giudiziario e facilità nelle transazioni finanziarie - saranno quelli su cui punterà il governo Harper per quello che si annuncia come un forte giro di vite.

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MIRKO MOLTENI, LIBERO
È arrivato fin nel cuore del Canada, nel palazzo del Parlamento di Ottawa, l’attacco a sorpresa portato ieri da un commando di terroristi, uno dei quali ucciso. Il bilancio è di un altro morto, un soldato, e tre feriti. In serata la popolazione era ancora invitata a restare nelle proprie case per non ostacolare indagini e pattugliamenti. È successo proprio all’indomani dell’inasprimento delle misure antiterrorismo nel Paese e giusto due giorni dopo che un fanatico islamista aveva investito e ucciso un soldato canadese vicino a Montreal. Ma non si può ancora dire se ci siano legami con l’islamismo anche in questo caso. Tutto è cominciato alle 9.52 di mattina locali, le 15.52 in Italia, quando si sono uditi colpi di fucile automatico, almeno una ventina stando ai testimoni, rimbombare nel piazzale dove sorge il monumento ai caduti canadesi della guerra 1914-1918, prospiciente l’edificio del Parlamento. A entrare in azione un numero di attentatori compreso fra due e cinque, a seconda delle testimonianze, uno o due dei quali forse appostati sui tetti circostanti, dalle prime ricostruzioni della polizia. Uno dei soldati di guardia al monumento è stato dapprima ferito gravemente e nonostante le cure intensive prestategli all’ospedale della capitale, è morto verso sera, stando a quanto dichiarato dal ministro del Lavoro Jason Kenney. Almeno uno degli attentatori è poi penetrato nel palazzo del Parlamento, dove le guardie della sicurezza hanno subito creato un cordone difensivo attorno agli uffici del premier Stephen Harper, evacuato fuori dall’edificio con un convoglio di SUV neri avvistati dai cronisti locali sfrecciar via dal complesso. Nel palazzo sono entrate squadre di rinforzo, alcune di esse dotate di arieti per sfondare porte, segno che il terrorista poteva essersi barricato. È scattata la cosiddetta procedura di “lockdown” per tutto il complesso, una sorta di stato d’assedio con poliziotti che impedivano a chiunque di entrare e di uscire, accompagnato dall’isolamento dei collegamenti telefonici. La sparatoria ha causato altri tre feriti, giunti in serata in ospedale. L’uomo è stato poi ucciso in un conflitto a fuoco, mentre dei presunti complici, in serata, non vi era ancora traccia. Uno dei complici potrebbe essersi allontanato con una motocicletta, stando a un breve video girato da un cittadino. A complicare la faccenda, ripetuti colpi uditi presso il centro commerciale Rideau Centre, ma nella conferenza stampa in serata la polizia lo ha considerato un falso allarme. A indicare che il peggio sembrava passato, un messaggio lanciato da uno dei numerosissimi deputati presenti in quel momento in aula, Bob Zimmer: «L’assalitore è morto, stiamo bene». A uccidere il fanatico, prima che raggiungesse l’aula parlamentare, sembra sia stato il sergente Kevin Vickers, stando a un tweet lanciato dal deputato Craig Scott, che ha così espresso il suo ringraziamento: «I deputati e lo staff del Parlamento devono la loro vita al sergente Kevin Vickers, che ha sparato all’assaltatore appena al di fuori delle sale». Si cercano gli altri terroristi nelle vie circostanti e la polizia ha iniziato a passare al setaccio qualsiasi automobile in uscita dalla città. Tutte le scuole, gli uffici pubblici e la maggior parte delle ambasciate compresa quella americana, sono state chiuse. In effetti, ancora in serata non venivano confermate altre vittime oltre all’attentatore ucciso e al soldato da lui assassinato e ai tre feriti. Per ora nessuna conferma né del possibile legame con islamisti da parte dell’attentatore ucciso, la cui identità non è per ora resa nota, né di rivendicazioni da parte della galassia di siti e portali jihadisti affiliati all’Isis o ai suoi alleati come Al Qaeda o i salafiti. Di certo spicca il fatto che lunedì un giovane canadese convertito all’Islam, il 25enne Martin Couture-Rouleau, che aveva assunto il nuovo nome di Ahmad, ha investito due soldati dell’esercito, uccidendone uno, il 53enne Patrice Vincent, e ferendo l’altro, in un parcheggio di St. Jean-sur-Richelieu, vicino a Montreal, nella regione del Quebec. L’attentatore era stato poi braccato e ucciso. Si era scoperto che aveva legami con l’Isis, tanto che gli era già stato ritirato il passaporto, essendo compreso nella lista degli 80 sospetti che dal Canada si temeva volessero raggiungere la Siria per arruolarsi nella jihad. Negli ultimi tempi ha inondato il web con appelli a “usare qualsiasi cosa, anche la vostra macchina” contro gli infedeli. Il giorno dopo il governo di Harper aveva innalzato il livello di allerta contro il rischio terroristico, seguendo peraltro suggerimenti di intelligence che già la scorsa settimana erano stati diffusi in via confidenziale fra i ministeri. Il primo leader straniero a esprimere solidarietà al governo canadese è stato il premier britannico David Cameron, che offre il supporto dell’intelligence di Londra, mentre dall’America hanno fatto sapere di aver allertato il comando aereo difensivo del Norad per monitorare tutti gli aerei in volo.

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CARLO PANNELLA, LIBERO
È terrorismo, questo è fuori dubbio, è ancora troppo presto per avere la certezza che sia terrorismo islamico, che sia un’azione di terroristi del Califfato Nero, ma è purtroppo probabile. È anche presto per capire se l’azione di Ottawa di ieri sia in qualche modo collegata con l’atto - questo sì di sicura matrice islamica - (...) :::segue dalla prima CARLO PANELLA (...) di due giorni fa quando un canadese convertito all’islam, Ahmad Roleau, ha investito e ucciso in un sobborgo di Montreal, un militare di 53 anni. Inseguito dagli agenti, Roleau è fuggito in macchina e quando questa è stata bloccata da una banda chiodata ne è uscito brandendo un pugnale ed è stato freddato. A seguito di questo attentato il Canada - che conta non meno di 80 «foreign fighters» individuati dai Servizi - ha innalzato il livello d’allarme da «basso» a «medio». Ma evidentemente non è stata una misura sufficiente, perché uno dei terroristi è riuscito addirittura a penetrare dentro il Parlamento impegnando una vera e propria battaglia. Uno solo il terrorista ucciso dagli agenti, gli altri sono in fuga mentre questo giornale va in stampa. Elementi questi non rassicuranti che spiegano come la vita quotidiana nelle città occidentali, e addirittura i luoghi simbolo della democrazia come il Parlamento canadese, siano assolutamente permeabili alle iniziative terroristiche. L’attentato di Ottawa ha dunque tutte le caratteristiche di una operazione terroristica islamica e non dell’atto criminale di un pazzo isolato come era il norvegese Anders Breivik, che il 22 luglio 2011 uccise da solo ben 77 persone. Le ragioni sono presto dette: gli attentatori erano almeno tre e hanno colpito in contemporanea tre luoghi altamente simbolici nella perversa logica degli jihadisti sulla Hill, la Collina dove ha sede il Parlamento canadese: il Parlamento appunto, un militare di guardia alla statua al Milite Ignoto e un centro commerciale. Ma è la fase politica che porta alla quasi certezza della matrice islamica e ai miliziani collegati al Califfato Nero. Il Canada fa parte della Coalizione che bombarda da settimane i miliziani del Califfato in Siria e Iraq - sia pure con effetti assolutamente non decisivi - ed è quindi gioco forza che il sedicente Califfo Abu Bakr al Baghdadi sommi alle atroci esecuzioni col coltello degli ostaggi occidentali anche la semina del terrore nei Paesi della Coalizione. Ottawa - e Montreal - possono segnare dunque l’inizio della «Campagna del terrore» contro l’Occidente del Califfato nero. Il messaggio di Ottawa, ieri sera completamente paralizzata e sotto coprifuoco, sarebbe dunque chiaro: i Paesi occidentali pagheranno un prezzo di vittime per la scelta di scendere in guerra contro il Califfato. A Ottawa, faranno allora seguito altre iniziative terroristiche, probabilmente in Europa, in primis contro l’Inghilterra e la Francia - le più impegnate direttamente con i raids aerei in Siria e Iraq - ma forse anche contro l’Italia, come peraltro apertamente già minacciato dai miliziani del Califfato, anche se il nostro Paese fornisce per ora solo strutture di supporto aereo e arma gli pshmerga curdi. È un appuntamento certo e terribile a cui le democrazie vanno incontro, ma è un prezzo che non si può evitare: la ferocia che il Califfato Nero sta dispiegando e i successi militari, ma anche politici, che sta consolidando, non lasciano nessuna scelta. Se non si ferma e sconfigge questa terribile forza che esclude ogni e qualsiasi possibilità di trattativa e mediazione, il suo atroce comando di sangue si estenderà a macchia d’olio non solo nei Paesi arabi, ma anche in tutta quella larga parte d’Europa, i Balcani, che minacciosamente rivendica nei suoi farneticanti comunicati. L’unico elemento positivo - per così dire - che emerge da una prima analisi dei fatti di Ottawa riguarda la dinamica. Non un attentato a bomba, non un’azione terroristica complessa, come furono gli attentati al Tube di Londra e alla stazione Atocha di Madrid, ma l’azione disperata col fucile mitragliatore di attentatori suicidi. Il livello più basso di capacità di offensiva e di morte, sintomo dell’assenza, quantomeno in Canada, di cellule terroristiche impiantate da tempo e in grado di progettare e portare a compimento complesse stragi di massa. Segno, forse, ma il condizionale è d’obbligo, che la temuta «brigata Khorassan» che il Califfato nero ha organizzato proprio per portare a segno attentati in Occidente, primo obbiettivo dei raid americani sulla città siriana di Raqqa, in realtà non ha alle spalle un lungo lavoro di implementazione e organizzazione nelle città occidentali. Ma se c’è qualcosa che non manca ai terroristi islamici è proprio il tempo. E la ferocia.

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MARCO VENTURA, IL MESSAGGERO
I più pericolosi sono i jihadisti della porta accanto, quelli che non ti aspetti, silenziosi e gentili ma che hanno combattuto in Siria e Iraq. Eredi di quelli che anni fa partivano, parecchi da Londra, spesso bravi studenti di seconda generazione, per andare a combattere nel Kashmir pachistano e infiltrarsi in quello sotto giurisdizione indiana, tornati poi in Occidente per diffondere l’Islam militante con la vocazione del Califfato.
Estremisti di rimbalzo che si erano formati sui manuali diffusi via Internet nei siti che i nostri 007 oggi lasciano “accesi” per poterli monitorare e che sviluppano un’attività costante di propaganda e insieme arruolamento. Ce ne sono tanti che non costituiscono un vero pericolo, «li chiamiamo franchising», spiegano gli addetti ai lavori. I video corrono in rete, filmati di propaganda tecnicamente avanzati frutto di know-how “occidentali”. Da un lato c’è la moschea, anche se non tutte le moschee sono uguali, dall’altro Internet. Nel mezzo, ci sono luoghi di aggregazione e di raccolta fondi come le macellerie islamiche. E accanto alle seconde generazioni c’è un nucleo crescente di convertiti che devono dimostrare la solidità della loro fede. Il fenomeno riguarda tutta l’Europa e il Nord America. I più inafferrabili sono i “lupi solitari”, quelli che si sono formati in proprio e sfuggono ai radar. Nella guerra del Califfato, che noi chiamiamo Isis e in Francia indicano col nome di Daesh per evitare di criminalizzare l’Islam in quanto tale, sarebbero coinvolti circa tremila “foreign fighters”, combattenti stranieri.
Sono emersi anche dei numeri. L’Italia ne ha uno relativamente basso: 45. Sarebbero invece 400 i belgi, 700 i francesi, 100 gli svedesi, 400 i britannici. Un’anticipazione nel maggio 2013: due nigeriani armati di machete sgozzarono un soldato britannico in mezzo alla strada nel quartiere sud-orientale londinese di Woolwich, rimasero a lungo a conversare con alcune coraggiose donne del posto. Anche loro “lupi solitari”?
L’assalto al Museo ebraico di Bruxelles con 4 morti a opera di un ex foreign fighter arrestato poi a Marsiglia, Mehdi Nemmouche, è un caso un po’ meno “solitario”. La rivista online dell’Isis ha pubblicato di recente un fotomontaggio con la bandiera nera svettante sul Vaticano, lo stesso Califfo Al Baghdadi ha puntato la spada su Roma. E l’allarme jihadismo è alto nel cuore dell’Europa, in Bosnia e Kosovo, davanti alle nostre coste. Il retaggio delle guerre jugoslave si fa sentire, nemesi per l’indifferenza davanti al massacro dei musulmani di Srebrenica, in Bosnia. Gilles Kepel, grande esperto che però nel 2001 scrisse un libro sostenendo che l’estremismo islamico era destinato alla marginalità, afferma oggi che la minaccia si propaga attraverso Twitter e le reti social. Le comunità più a rischio a Birmingham, Bedford e East London, poi nel Belgio pieno di salafiti, e in Francia a Marsiglia e Roubaix. L’insidia proviene non tanto dagli “stanziali”, quanto dai jihadisti che si muovono, vanno e vengono, attraversano l’Europa con passaporti europei, sfuggono ai controlli e godono di una rete di protezione internazionale. Lupi solitari ma non troppo. L’Italia è nel mirino perché centro della cristianità, e perché sosteniamo la coalizione contro l’Isis fornendo armi e formazione.
Marco Ventura