Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

A SORPRESA IL LEOPARDI DI ELIO GERMANO SBANCA I BOTTEGHINI, STACCANDO PER DISTACCO NEGLI INCASSI IL PASOLINI DI WILLIAM DEFOE. IL MOTIVO? SEMPLICE, MARIO MARTONE HA FATTO UN BUON FILM, ABEL FERRARA NO

Leopardi batte Pasolini 7-1. All’indomani dell’arrivo in sala del derby già visto alla Mostra del cinema di Venezia, il verdetto del botteghino non potrebbe essere più esplicito. Il giovane favoloso di Mario Martone al suo sesto giorno ha totalizzato 1.366.269 euro di incasso, per un totale di 222.862 spettatori e 187 copie in programmazione; un risultato superiore a ogni previsione che schiude al filone poetico in costume orizzonti impensabili; se andiamo avanti di questo passo, le vite di Foscolo e Alfieri potrebbero offuscare le gesta di Boldi e De Sica.
Poco sopra i 360 mila euro (58.572 spettatori), invece, il malinconico incasso del Pasolini di Abel Ferrara all’indomani del suo quarto weekend, ormai già fuori programmazione quasi in tutta Italia, visto che resistono solo 13 copie.
Senza entrare nel merito dei due contendenti (la poesia è la meno commensurabile delle entità), il fascino del personaggio Leopardi sembrava inchiodato ai banchi del liceo; mentre se c’è una figura su cui, nell’Italia degli ultimi trent’anni, tutti hanno provato a mettere il cappello, quello è Pier Paolo Pasolini; il poeta, l’intellettuale, il pubblicista, il profeta che continua a ispirare libri (da ultimo , Pasolini filosofo della libertà di Franco Ricordi) e sta riempiendo la platea del Piccolo Teatro di Milano con Una giovinezza eternamente giovane, monologo di Gianni Borgna interpretato da Roberto Herlitzka.
Invece al cinema è andata al contrario; perché mai? La prima spiegazione di questo scarto enorme potrebbe essere la più ovvia; il film di Martone è buono, quello di Ferrara una ciofeca. Obiezione accolta solo in parte, perché se Pasolini è di certo un’operazione fallita, Il giovane favoloso non è questo capolavoro. Martone, da specialista dell’attualizzazione storica, ha realizzato una fiction drammaturgicamente corretta dove la bravura di Elio Germano riesce non solo a schivare il kitsch ma anche ad attutire il retrogusto agiografico. Per contro, Pasolini è un film tutto caricato sulla maschera accigliata di Willem Dafoe, le ultime 24 ore del martire laico raccontate in chiave monocorde (Pasolini era uno che rideva più di quanto non si indignasse), a tratti quasi incomprensibile. Tra un coito orale vero e l’altro solo immaginato, il Riccardo Scamarcio di oggi interpreta il Ninetto Davoli di ieri, ma poi arriva anche il Ninetto Davoli vero a fare coppia con il se stesso finto, e di cui seguiamo nel dettaglio, alla moviola, le lunghe sedute davanti alla tazza del cesso.
E allora, per capire la reazione del pubblico pagante, forse bisogna chiedersi quale Pasolini e quale Leopardi sono stati proposti dai due film. Forse non si sbaglia a immaginare che oggi un certo progressismo di stampo ottocentesco, un certo Risorgimento leopardato, fa più cassetta dell’ansia e della nevrosi novecentesche, come ci insegna la cronaca quotidiana.
Il Pasolini raccontato in modo esclusivo (e quindi parziale) da Ferrara è quello disperato e terminale di Petrolio e di Salò, pervenuto a conclusioni definitive sia sul marciume dell’Italia, sia sulla deriva del capitalismo mondiale. Un rosicone al cubo, un Gufo De Gufis. Di segno completamente opposto – e altrettanto parziale – l’operazione compiuta su Leopardi, presentato come un genio irresistibilmente giovane, entusiasta, utopista, nonostante i guai personali. Mai veramente compreso dalla famiglia, né dalla società; ma non perché troppo pessimista sulla condizione umana (come risulterebbe dagli atti, a cominciare dal suo capolavoro, lo Zibaldone); piuttosto, perché troppo affamato di vita, troppo utopista. Troppo avanti. Un Leopardi che avrebbe voluto rottamare intellettuali conformisti e politici codini; e, se lo avessero lasciato fare, invece che nel salotto di Fanny Targioni Tozzetti sarebbe andato in quello di Barbara D’Urso a presentare il suo jobs act (in latino, però).
E allora, tra il Leopardi pronto per la Leopolda e quel gufo di Pasolini, chi vince nell’Italia di oggi? È evidente che non c’è partita.
Nanni Delbecchi, il Fatto Quotidiano 23/10/2014