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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

«ALL THE WORLD’S FUTURE». QUESTO IL TITOLO DELLA BIENNALE DI VENEZIA 2015 CHE NASCE SOTTO IL SEGNO DI MARX, TRA GUERRE, DISASTRI AMBIENTALI E IL CAPITALE. L’EVENTO È STATO ANTICIPATO AL 6 MAGGIO E ANCORA NON SI SANNO I NOMI DEGLI OSPITI

[Più Intervista a Okwui Enwezor] –
Era il 2002 quando Okwui Enwezor venne chiamato a curare Documenta di Kassel, la mostra più importante d’Europa. Primo intellettuale di colore, perfetto interprete della nuova realtà globale, nativo nigeriano, formazione americana, messaggio chiaro a chi stava pensando a una chiusura dell’arte in termini localistici dopo l’11 Settembre.
Ma si sa che il fascino di Venezia è diverso, la sua unicità la rende vetrina cui tutti aspirano almeno una volta nella carriera. E infatti il punto di arrivo nel prestigioso curriculum di Enwezor è stato raggiunto ieri, annunciato alla stampa nelle sale di Ca’ Giustinian insieme al presidente della Biennale Paolo Baratta. Si chiamerà All The World’s Futures la mostra che aprirà quasi un mese prima del solito - il 6 maggio - vista la concomitanza con l’Expo milanese. In casi come questo la prima curiosità è nella lista degli artisti che sarà però comunicata a febbraio. Per adesso accontentiamoci del cosiddetto concept, e visto che Enwezor è il più teorico dei critici contemporanei si può già scommettere, come accadde nel 2002, che sarà una mostra più di pensiero che di opere. Dopo l’intuizione di Massimiliano Gioni di fondere e confondere passato a presente, l’edizione 56 di Venezia sembra almeno nel titolo tornare alla Biennale di Daniel Birnbaum, Fare mondi del 2009. E forse anche più indietro, visto che uno dei temi portanti è quello dell’Apocalisse e delle rovine che circondano il nostro paesaggio. Ci aspettiamo una lettura nuova, anche se il riferimento è all’Angelus Novus di Walter Benjamin, che «vide nell’opera di Klee ciò che di fatto non vi era espresso e nemmeno dipinto. Piuttosto interpretò Angelus Novus in maniera allegorica osservando la figura con un chiaro sguardo storico, mentre davanti a sé un’altra catastrofe si abbatteva sull’Europa in un momento di profonda crisi». «Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla?» si domanda Enwezor parlando di commistioni tra i linguaggi e le arti che hanno reso possibile l’affermarsi di questi nuovi mondi futuri così instabili e incerti, seppur stimolanti. La mostra avrà tre fulcri teorici, anzi tre filtri sovrapposti dove (sono ancora sue parole) «lo stesso curatore insieme agli artisti, agli attivisti, al pubblico e ai partecipanti di ogni genere saranno i protagonisti centrali nell’aperta orchestrazione di questo progetto». Vi saranno quindi diverse opere relazionali e interattive.
Scritto in perfetto e parecchio irritante critichese, il materiale stampa non dice molto su cosa davvero sarà la prossima Biennale. I tre punti saranno comunque: vitalità, sulla durata epica; il giardino del disordine; il Capitale, una lettura dal vivo. Il primo tema prevede un programma di eventi live, immaginiamo rappresentazioni e performance, in continuo svolgimento cui parteciperanno opere site specific e di repertorio. Il giardino del disordine parte dal nome dello spazio espositivo per parlare dei cambiamenti dell’ambiente globale, metafora di un mondo disordinato, di conflitti nazionali e di deformazioni territoriali, tutto all’insegna dell’inedito. Quanto al Capitale, che denuncia il background culturale neomarxista di Enwezor, si annunciano davvero letture dal vivo dell’imponente opera pubblicata nel 1867 e tornata in auge anche per via del successo di Thomas Piketty.
In assenza di informazioni su chi esporrà, pessima mania di tener tutto segreto - solo i padiglioni stranieri annunciano con largo anticipo le scelte -, c’è un altro assente ancor più clamoroso: il Padiglione Italia, dato ormai per disperso. Toccherebbe al ministro della Cultura esprimere la propria scelta, ma al momento non si sa nulla tranne che questo governo è ancora più in ritardo dei precedenti, e il motivo non si capisce visto quanto Dario Franceschini sembra tenere al ruolo. Chi verrà chiamato (alcuni ben informati sostengono che Andrea Bruciati, ex direttore della Galleria Civica di Monfalcone, sia in pole position, ma si parla anche di Cristiana Collu, direttore del Mart, e di Andrea Viliani, direttore del Madre), avrà sei mesi scarsi per progettare, trovare i soldi e realizzare la mostra. O lo sa e non lo dice o brancoliamo nel buio. Eppure la Biennale si tiene ogni due anni da sempre, programmare per tempo non sarebbe impossibile.
Luca Beatrice, il Giornale 23/10/2014

ENWEZOR: “LA MIA BIENNALE CON MARX” – [Intervista a Okwui Enwezor] –
VENEZIA
Lo spettro di Karl Marx si aggira per la Biennale di Venezia. La lettura ininterrotta del Capitale è una delle idee che Okwui Enwezor porterà in laguna nell’edizione numero 56, in programma dal 9 maggio al 22 novembre 2015. All the World’s Futures , questo il titolo, darà conto delle «fratture che oggi ci circondano e che abbondano in ogni angolo del panorama mondiale, rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’ Angelus Novus.
Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla?». Citando Walter Benjamin e l’opera-simbolo di Paul Klee che lo ispirò, Enwezor spiega la sua “mostra”. Con le parole di Marx come ronzio di sottofondo. A Venezia torna la politica. «Ricordiamo però che si tratta di una esposizione d’arte e non di un convegno di economisti e politologi», ribadisce più volte il presidente della Biennale Paolo Baratta, durante la presentazione di ieri (presenti 56 Paesi) a Ca’ Giustinian. Anche se poi anticipa che in laguna ha invitato l’economy star Thomas Piketty.
Oggi però la stella è Enwezor. Nato in Nigeria nel 1963, è il primo africano a guidare la Biennale d’arte: l’unico, dopo il curatore Harald Szeemann, ad aver firmato anche la rassegna Documenta di Kassel, nel 2002. Ha lo sguardo afropolitan: origini black ed esperienze global. Vanta un lungo curriculum accademico americano, nel 1994 ha fondato N-KA, rivista diventata punto di riferimento per l’arte africana contemporanea e ora dirige la Haus der Kunst di Monaco di Baviera. La sua Biennale sarà una disordinata radiografia dello «stato delle cose», come dice lui: metterà insieme artisti e attivisti. Non c’è un unico tema, «uno solo non è possibile», ma tre filtri guida: “Vitalità: sulla durata epica”, un programma di performance live sempre “accese” per sette mesi; “Il giardino del disordine”, ai Giardini, al Padiglione centrale e all’Arsenale, dove «gli artisti sono stati invitati ad elaborare delle proposte che avranno come punto di partenza il concetto di giardino, realizzando nuove sculture, film, performance e installazioni per All the World’s Futures ». Ultimo filtro: “Il Capitale: una lettura dal vivo”, la lettura di Marx che inizierà al Padiglione centrale, dal primo istante di apertura della Biennale.
Mr Enwezor, perché ha scelto di portare Marx alla Biennale?
«Perché Il Capitale non è solo un libro, è un monumento. Nulla come quest’opera ha anticipato il dramma della contemporaneità. La stessa parola “capitale” rappresenta il centro della vita di oggi. La lettura del testo sarà inframmezzata da altre letture e interpretazioni. Verranno invitati a misurarsi sul tema artisti, compositori, drammaturghi. A ispirarmi in modo decisivo è stato Althusser con il suo Leggere il capitale ».
Che Biennale dobbiamo aspettarci?
«Una Biennale ambiziosa, confusionaria, politica — sì — , sensuale, visiva, letteraria. Deve provocare esperienze, provare a mettere in relazione i media dell’arte in modo diverso. Creare nuove intersezioni ».
Come sta scegliendo gli artisti?
«Voglio artisti da guardare in faccia. Niente Skype o telefonate. Forse, dati i tempi, sono ambizioso, ma voglio poter discutere con loro fisicamente, dialogare, scontrarmi, condividere l’esperienza di fare la mostra insieme».
Quindi non ci saranno opere del passato, come è accaduto nelle edizioni precedenti?
«Non posso fare nomi. Mi viene impedito (ride ndr), ma saranno meno degli artisti della scorsa Biennale. Quanti erano? Li sto ancora contando».
Quanta Africa ci sarà?
«Non ragiono in questi termini: ci sarà tutto il mondo. La Mongolia esordirà. Oggi una Biennale d’arte non può ignorare quello che accade in Siria, Iraq, Palestina. Questo pianeta, cento anni dopo il primo colpo che portò alla Grande guerra, è di nuovo in disordine. Viviamo conflitti e pandemie. Cercheremo di darne conto. Dobbiamo farlo. E poi, sì, ci sarà anche l’Africa, è normale che ci sia. Ma porterò alla mostra inevitabilmente tutta la mia biografia intellettuale: l’Africa, l’Europa, l’Occidente e quello che non è Occidente ».
Questa settimana Vuitton sta aprendo il suo museo a Parigi. Cosa pensa dei marchi della moda coinvolti nell’arte contemporanea?
«Dico: perché no? Prada vanta un eccellente sistema di mostre, pubblicazioni, collezione. Il punto è, se tutto è fatto per le ragioni giuste, perché no? Se questo mette in circolo idee e artisti, perché no? L’arte può essere strumentalizzata, certo. Ma anche questo fa parte della sua storia. La Chiesa, la politica lo hanno fatto. In quanto a Vuitton, per ora c’è solo un interessante sigillo di vetro nel Bois de Boulogne. Vedremo se la programmazione sarà altrettanto interessante».
Alcuni critici sostengono che l’arte contemporanea sia ormai solo in mano al mercato. È così?
«Penso che sia semplicistico dire così. Il mercato è solo un aspetto. La letteratura non esiste solo perché c’è Amazon. Parlare esclusivamente del mercato ci distrae da altro. Da tutte le realtà che accadono nel sistema dell’arte. Il mercato è solo un anello di questo ecosistema».
Lei si definisce un autodidatta. C’è una mostra o un artista che ha cambiato il suo punto di vista sul mondo dell’arte?
«È stato tutto un accumulo di esperienze. Arrivato a New York, nel 1982, sono stato investito dalla creatività del periodo. C’era una incredibile vitalità, c’erano le gallerie, un certo Jean-Michel Basquiat che stava esplodendo. Tutti quelli che erano spazi off poi sarebbero diventati spazi ufficiali e riconosciuti. Non è importante un nome o una mostra. Ma tutta l’energia che si accumula quando mondi diversi si incontrano. Pensiamo agli artisti che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo scoprirono l’arte primitiva. Pensiamo alla prima volta in cui una maschera africana è entrata al MoMA. Questo mi interessa: mettere insieme i mondi».
Ha citato Marx, Benjamin, Althusser. Cosa sta leggendo adesso?
«Sto finendo Il 1-8 Brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx. È incredibile!».
Lei è nato in Nigeria come Teju Cole e Chimamanda Ngozi Adichie. Cosa pensa di questi autori?
«Li ho letti tutti. L’Africa sta vivendo un momento straordinario dal punto di vista culturale. Finalmente. Questi scrittori, tra cui voglio citare anche Chris Abani, raccontano l’Africa fuori dall’Africa, restituendole una nuova complessità. L’emergere di questa nuova generazione mi entusiasma. È accaduto tutto in un solo decennio. Prima sembrava impensabile. Internet ha aiutato tanti a rompere gli steccati e a diffondere cultura. Non dimentichiamo anche i musicisti. Spero proprio di riuscire a portare a Venezia alcuni di questi nuovi autori. Devono esserci».
Dario Pappalardo, la Repubblica 23/10/2014