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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

DOV’ERA LA CORTINA? LE TRACCE SVANITE DELLA GUERRA FREDDA

Galline all’ombra di una vecchia torre d’avvistamento, una sedia di legno malandata in riva al lago, colline di abeti, buoi, un crocifisso illuminato, un dinosauro di plastica, un carrarmato arrugginito. Venticinque anni dopo la caduta del Muro, la cortina di ferro è una traccia nascosta tra campi e casinò di confine, un sospiro in un bosco. Pochi musei chiusi, rari cartelli a segnalare quella che fino al 1989 fu l’invalicabile frontiera tra il bene e il male, l’Est comunista e il libero Occidente. Una striscia militarizzata tra il Baltico e l’Adriatico alla quale si avvicinavano solo i fuggiaschi, cercatori di altri mondi disposti a rischiare la vita.
È cominciata così la silenziosa e lenta controffensiva della natura, che con la potenza irresistibile del suo fluire si è riappropriata dei crocevia della Storia. Radura e foresta, vegetazione di fiume, animali dominano incontrastati la spina dorsale del continente che oggi è un corridoio di parchi e riserve naturali transfrontaliere. Matteo Tacconi e Ignacio Maria Coccia lo hanno percorso per documentare il presente di luoghi pieni di passato, con deviazioni dal tracciato e incursioni in paesi e città che nei tumultuosi giorni dell’89 si trasformarono, da periferie di blocchi contrapposti, in nuovi centri di un’Europa in cammino. Un viaggio in macchina da Lubecca a Trieste, storie e appunti visivi di estrema limpidezza confluiti nel libro “Verde Cortina” edito da Capponi.
Nel celebre discorso del 1946 Winston Churchill indicava il principio della barriera nella città di Stettino, assegnata dopo la guerra alla Polonia (“Da Stettino a Trieste, una cortina di ferro è calata sul continente…”) ma poi i sovietici spostarono la frontiera più a Ovest, per questo il tragitto comincia in Germania. Una sobrietà geometrica caratterizza questa composizione che procede per dimenticanze. Un lavoro giornalistico che registra gli echi imprigionati nelle forme violente delle strutture militari e delle architetture socialiste, il vago senso di deriva di autorimesse abbandonate e parchi di divertimento, la sconfitta che trasuda da costruzioni come Point Alpha, fondamentale area di avvistamento dell’ex Germania Ovest presidiata dagli americani.
Il segno umano è quasi del tutto assente, bandito. Ci sono anonimi passaggi tra binari e villaggi riconvertiti in località termali. Piccoli Comuni come Schlagsdorf nel Land Mecleburgo-Pomerania dove le fortificazioni a ridosso della frontiera tra le due Germanie sono perfettamente conservate, torrette e blocchi di calcestruzzo a poca distanza dai cigni e cerbiatti del bioparco sul fiume Schaal.
Riserve come quella che unisce la foresta bavarese al parco di Sumava in Repubblica Ceca o quella austro-ungherese sul lago Neusiedler/Ferto. Desolati panelák, termine usato da cechi e slovacchi per indicare i prefabbricati costruiti con i pannelli di cemento dell’edilizia sovietica, espressione di un’omologazione estetica alla quale dopo la caduta del regime gli abitanti si sono ribellati a colpi di vernice colorata – è il caso del quartiere Petrzalka, non molto distante dal cuore asburgico di Bratislava.
E ci sono luoghi entrati nel mito della Guerra fredda come il Ponte di Glienicke, teatro degli scambi di spie tra Berlino e Potsdam. La Vienna noir del Terzo uomo, il film di Carol Reed del 1949 con sceneggiatura dello scrittore britannico Graham Greene. La campagna tra l’austriaca Sankt Margarethen im Burgenland e l’ungherese Sopronkohida dove il 19 agosto 1989 si svolse il “picnic paneuropeo” che aprì per la prima volta – e per sempre - la frontiera, con la scena indimenticabile delle guardie ungheresi voltate dall’altra parte per consentire a trecento tedeschi dell’Est di sconfinare e rendere possibile l’impensabile.
Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Ungheria, Slovenia, Italia. La faglia che riemerge anche oggi nelle divisioni tra “vecchia” e “nuova” Europa, tra un Occidente che dopo la Seconda guerra mondiale ha visto germogliare e crescere il sogno europeo dei padri fondatori e un Centro-Est che con gli allargamenti dell’Unione Europea negli anni Duemila ha innestato sul quel sogno l’anima slava e i lasciti di una storia di oppressione e conflitti. C’è quell’eredità dietro la suscettibilità degli europei centro-orientali nei confronti del risorto espansionismo russo, il ricordo vivo dei fossati, dei fari accesi ai posti di blocco, del filo spinato e dei tank oggi addormentati in valichi di montagna non più strategici, come il Wurzenpass tra l’Austria e la Slovenia.
Luoghi dove gli stessi anziani ricordano a fatica, ma che mantengono una memoria fisica. Regioni dove la storia è andata più veloce dell’economia, condannando le attività legate alle dogane e alla presenza dei militari.
Con l’abbattimento dei confini e la creazione dell’area di libera circolazione di Schengen, lì dove un tempo regnava il controllo sono sorte isole di trasgressione con night club, stazioni di benzina e locali a luci rosse. Un’economia di frontiera evidente nei villaggi cechi di Ceské Velenice e Strázny, dove i venditori vietnamiti hanno preso il posto dei polacchi.
Sono lontani i fortini dell’Isonzo, le costruzioni difensive della “soglia di Gorizia” che dovevano respingere un’eventuale invasione comunista. Fortificazioni in parte sopravvissute e ridotte in rovine, in parte smantellate dopo l’avvio della dissoluzione della Jugoslavia nel 1991. Il viaggio tocca il valico di Fernetti e prosegue fino all’abbagliante mare di Trieste, la cortina di ferro colorata di verde si dissolve nell’azzurro.