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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

PRAVDA ANCORA


Il Lenin di gesso che ti guarda fisso appena varchi l’ingresso, in fondo te lo aspetti. Così come non ti sorprendono certo quelle logore bandiere sovietiche incrociate alle pareti, e nemmeno le foto sorridenti dei cosmonauti di un’era dimenticata, ingiallite dal tempo e dall’inesorabile declino di un mito. Quello che ti impressiona veramente, quando entri nella redazione centrale della Pravda (che vuoi dire “verità”), è il vuoto. Un vuoto senza speranze reso più angosciarne dall’antica passione per il gigantismo che fa sembrare ancora più desolato quello che fu uno dei luoghi di potere ma perfino di segreto dibattito culturale e ideologico dell’Unione Sovietica. Ora ridotto a foglio semiclandestino, introvabile in edicola, distribuito saltuariamente per strada da attempati volontari con falce e martello al braccio che spesso si concentrano soprattutto su turisti in cerca di souvenir d’annata.
L’immenso tavolo rotondo delle riunioni, circondato da trenta sedie vuote, sta lì a dominare una sala troppo grande e troppo pulita che sa più di museo che di redazione. I due corridoi senza fine che si aprono a destra e sinistra del salone mostrano una sequenza tutta sovietica di porte rigorosamente chiuse, ognuna provvista della sua brava targa in ottone lucido: “Capo della redazione esteri”, “Vice capo della sezione culturale”, “Direzione dell’ufficio per la distribuzione”... Dentro le stanze non si entra da un pezzo. Di alcune porte non si trovano nemmeno più le chiavi.
Inoltrarsi nel corridoio di sinistra, l’unico rimasto in qualche modo attivo, non aiuta a riprendersi dal senso di malinconia e da quella atmosfera da casa di riposo che domina un po’ ovunque. Strascicando i piedi nelle ciabatte da ufficio, ti apre la porta della direzione Nikolaj Dimitrovic Simokov. Ha uno sguardo un po’ perso e la schiena curva. Da quando ha compiuto 82 anni, dice, comincia a sentire qualche acciacco, ma ha sempre tanta voglia di lavorare. Lui, che ha fatto un po’ tutto alla Pravda in 54 anni di servizio, dal correttore di bozze al cronista di strada fino a raggiungere i vertici dell’amministrazione, adesso, insieme al quasi coetaneo Evgenij Spekhov, che dirige l’ufficio corrispondenza, sostituisce volontariamente la segretaria, poco più giovane, che se ne è andata in vacanza. Dove? Ma naturalmente nella Crimea appena riconquistata.
E la situazione non cambia nella stanza del direttore. Non c’è un granello di polvere ma l’effetto è comunque soffocante. La scrivania di Boris Komotskij è alla fine di una lunga camminata nel passato. Da un lato ben sei finestre e tante mensole ricolme di gagliardetti dei giovani comunisti, statuette in bronzo di Lenin, Breznev, Stalin, decorazioni al merito dell’Urss, foto di Stakhanov con il suo martello pneumatico, un martello pneumatico vero simile a quello del grande minatore divenuto simbolo mondiale della produttività sovietica. Dall’altra parte, un tavolo rettangolare assolutamente sgombro ma fatto per almeno quaranta persone e, dietro ancora, una libreria a parete con le opere complete di Marx, quelle di Lenin, le collezioni degli atti di tutti i congressi del Pcus, le collezioni rilegate in pelle rossa della Pravda fondata da Trockij a Vienna nel 1909 quando la rivoluzione era ancora un’utopia e il comunismo una speranza di pochi.
Anche Komotskij, con i suoi settant’anni ben portati, non sfugge al generale effetto-ospizio che opprime tutto l’ufficio ma almeno prova a metterci tutto l’entusiasmo che gli resta per modificare la sensazione. Alle sue spalle la celebre foto di Lenin che legge la Pravda con uno sguardo che non si capisce se sia da lettore curioso o da attento censore. «Siamo comunisti», esordisce come se fosse una sfida, «e continuiamo a pensare che solo il comunismo può migliorare le sorti del mondo». E non poteva che parlare così un direttore che è membro del Comitato Centrale dell’attuale Partito Comunista russo e che concepisce la sua “missione giornalistica” come un modo per «diffondere il pensiero del Partito su ogni aspetto della società».
La nostalgia c’è ed è mista a rancore. Inevitabile il racconto preliminare del crollo dell’Urss e di conseguenza della sua voce ufficiale. La Pravda, vietata da Boris Eltsin, è rinata poco prima dell’inizio dell’era Putin, quando si decise di non contrastare troppo un partito che comunque resta tuttora il secondo del Paese con quasi il 15 per cento degli elettori. Lavorare alla Pravda, fino al 1991, era stato il massimo traguardo per un giornalista russo ma anche per il quotidiano degli operai, un dirigente di partito, visto quanto le mansioni si intrecciavano l’una con l’altra. Si viaggiava, si guadagnava molto più degli altri, si godeva di uno status sociale assai raro per l’epoca. E si poteva, giura Komotskij, «perfino esprimere opinioni non convenzionali», a patto, «naturalmente», che restassero nel segreto di questi uffici e non finissero sulle colonne del giornale più diffuso del Paese.
Il ricordo del glorioso passato fa ancora male. Il grande palazzo a sei piani espropriato da Eltsin, la perdita di ogni contributo statale, perfino il nome della strada modificato. Anzi, privato delle virgolette. «Capite la sottigliezza? Prima era via Pravda. Cioè via del giornale. Ora solo “via Pravda”, via della Verità come via dell’Onestà o della Bontà». Ai resti del defunto impero editoriale Putin ha concesso solo il quinto piano a un prezzo d’affitto di circa 12mila euro mensili. Il resto dell’edificio ospita altre case editrici, aziende di import export, un’agenzia di viaggi, perfino un medico vietnamita che si autodefinisce mago dell’agopuntura. E ogni mattina il direttore fa la stessa scena di lesa maestà davanti a un’annoiata guardia giurata che gli impone di mostrare il pass prima di lasciarlo entrare.
La Pravda ha ormai solo 15 giornalisti. Negli anni Ottanta ce n’erano 50 solo all’ufficio lettere. Oggi l’età media è 58 anni. Ma i due editorialisti di punta ne hanno 72 e 75. Pubblica due volte alla settimana, quattro pagine senza pubblicità, con una tiratura di l00mila copie dichiarate. Che in realtà sono poco più della metà. E mentre ti illustra l’ultima copia stampata, Komotskij finisce involontariamente per spiegarti il perché di così scarso successo. L’impaginazione è quella tradizionale. L’apertura è su una manifestazione di piazza a Mosca per la chiusura di una piccola azienda. Sotto c’è una manifestazione in Crimea contro i “fascisti” ucraini e, a “fogliettone”, la celebrazione della giornata mondiale contro il lavoro minorile. Le tre foto, qualche persona e molti cartelli, sembrano identiche. Ma la chicca, per il direttore, è l’ultima pagina, quella culturale. È dedicata a una biografia di James Connolly, fondatore del Labour irlandese. Titolo: “Il figlio eroico del popolo d’Irlanda”. «Ce l’ha mandata», dice Komotskij, «un compagno che vive a Londra. E un grande esempio per i giovani russi». Ma ci sono giovani russi che leggono la Pravda? Il direttore si incupisce poi prova una battuta amara: «Dovrebbero farlo! Ma noi non possiamo cedere, non possiamo usare il linguaggio moderno, volgare, e filoamericano dei giornali di oggi, solo per farci leggere. Se rifiutano di ascoltare le nostra voce, peggio per loro. In ogni caso siamo nel giusto e prima o poi i nostri valori torneranno di moda. Per questo resistiamo». Su una mensola in legno un busto di Marx guarda verso il parco di fronte con l’aria disincantata.