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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

QUANDO ROTH MI PARLÒ D’AMORE


Negli anni Settanta, quando mi stavo laureando in lettere alla University of Pennsylvania, Philip Roth venne a tenere due seminari da noi, uno di scrittura creativa e l’altro di letteratura comparata. Pur sognando di fare la scrittrice, non ero abbastanza sicura di me da scegliere quello di scrittura creativa, così mi iscrissi al seminario di letteratura.
Sinceramente, il mio unico desiderio era trovarmi nella stessa stanza con lui. E poi quel seminario, se ben ricordo, aveva come titolo «Letteratura del desiderio». Chi non avrebbe voluto leggere libri spinti con Philip Roth? Fidatevi, in questo senso io non ero diversa dagli altri quindici studenti del seminario, che per la maggior parte erano donne innamorate di Philip Roth.
Il primo giorno di lezione me lo ricordo benissimo, perché i successivi furono quasi identici. Noi studentesse arrivammo presto, fresche di doccia e profumate, avendo già letto tutti i libri nel programma. Ci sedemmo sulle sedie, che erano di quelle con un mezzo ripiano su cui scrivere. Le avevano sistemate a «U» intorno alla sua scrivania, ancora vuota. Ci mettemmo a chiacchierare nervosamente fra di noi, accavallando e scavallando le gambe. Io indossavo una blusa e una gonna di denim ricavata da un paio di jeans, come andava di moda all’epoca, abbinamento che dava la garanzia di far impazzire gli uomini. All’ora esatta in cui la lezione sarebbe dovuta cominciare, se ben ricordo le 14 in punto, lui arrivò. Molto alto e allampanato, entrò in classe un po’ curvo, tanto che il viso comparve dalla porta prima del resto del corpo. Procedeva con la testa in avanti come una giraffa reduce da ottimi studi. Portava una camicia Oxford lievemente inamidata, a quadretti bianchi e blu, pantaloni color cachi stirati con cintura di pelle marrone e scarpe marroni in pelle traforata. Praticamente a ogni lezione sarebbe stato vestito così. Quasi non ci degnò di un’occhiata, né incrociò i nostri sguardi, ma sussurrò un «salve» sedendosi alla scrivania, accavallò una lunga gamba sull’altra, e lentamente si slacciò l’orologio.
Fu la cosa più sexy che successe in tutto il seminario. Si tolse l’orologio e lo appoggiò sulla scrivania con il quadrante rivolto verso l’alto. Ci chiese di chiamarlo «signor Roth», anche se gli altri docenti si facevano chiamare per nome, in quell’epoca di informalità. Poi cominciò a parlare del romanzo scelto quella settimana, accompagnandoci attraverso le pagine ed evidenziando temi, dettagli o frasi particolarmente mirabili.
Non consultava mai i suoi appunti, che scriveva a mano e teneva in una cartelletta nera sottile, parlava a braccio, punto dopo punto, intuizione su intuizione, come se avesse assimilato il romanzo, in blocco. Immaginate di studiare fisica con Einstein. Solo che voi vorreste essere la signora Einstein. Esplorammo l’amore, le relazioni e il sesso nei romanzi di Franz Kafka, Gustave Flaubert, Robert Musil, Milan Kundera,Yukio Mishima, Kobe Abe, Saul Bellow e Bernard Malamud, ma i passaggi a cui dedicava più attenzione non erano mai quelli erotici, bensì quelli più sottili. Di Madame Bovary amava una frase in particolare: «Mangiava un gelato al maraschino, con la mano sinistra reggeva la conchiglia di vermeil e socchiudeva gli occhi, con il cucchiaino fra i denti». Su quella frase ci soffermammo molto, e più la leggevo, più diventava sensuale. Provateci anche voi. A casa. Alla fine di ogni lezione ci chiedeva se avevamo delle domande. Io, essendo insicura, non dicevo mai una parola. Mi domandavo se un giorno avrei osato scrivere, ma ne dubitavo. All’epoca sognavo di sposare ciò che desideravo nella mia vita, non diventarlo.
Altri studenti di domande ne facevano, oppure recitavano frasi provate e riprovate, camuffandole da domande, e a tutti lui rispondeva succintamente. Il suo tono era educato. Non faceva mai battute, pur essendo uno scrittore dallo spirito brillante. Se qualcuno gli chiedeva come avrebbe scritto una certa frase o strutturato un certo paragrafo, lui sviava la domanda rispondendo: «Ma non è quello che ha fatto Kafka». Assegnò i componimenti finali senza fornire una traccia, ma chiedendoci di inventarla, e quando valutò i nostri scritti non aggiunse commenti. Solo la lettera che indicava il voto sull’ultima pagina, a pennarello rosso.
A me Philip Roth diede «A». Giusto per dire. Ripensandoci a posteriori, sono giunta alla conclusione che sia stato il miglior professore che ho mai avuto, non solo per il suo genio, ma anche per il distacco. Eravamo un gruppo di ragazze ansiose di compiacerlo, di indovinare quel che voleva sentirsi dire e quindi dirlo. Volevamo tutte che ci parlasse di lui, o ci dicesse come si faceva a scrivere, ma erano cose che ci negava con fermezza. Celando la sua personalità, i suoi pensieri e le sue opinioni, ci costringeva a tornare sulle nostre personalità, i nostri pensieri, le nostre opinioni.
Dopo anni passati a rimuginare ossessivamente sulla possibilità di scrivere, finalmente mi concessi un tentativo, in parte proprio perché Philip Roth mi aveva dato quella «A». Mi dicevo: «Te la sei cavata bene con un genio, non puoi essere così stupida». Da allora ho pubblicato venticinque libri.
(The New York Times. Trad. di Matteo Colombo)