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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

QUATTROMILA MORTI DAL DOPOGUERRA

Avete mai provato a lanciare un grosso sasso in una pozza d’acqua? È quello che accadde, in proporzioni infinitamente maggiori, alle 22,39 del 9 ottobre 1963. Circa 270 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal monte Toc e piombarono nel bacino creato dalla nuova diga sul torrente Vajont. Quella che fu ribattezzata «l’onda della morte» calò a valle come una immensa valanga liquida, travolgendo case, animali e persone e provocando duemila vittime. «Dal terremoto di Messina e di Avezzano in poi, tolti i fatti di guerra, non si era più avuto in Italia un eccidio tanto grande», scrisse uno degli «inviati speciali» del Corsera il giorno dopo.

In questo caso, la tragedia fu una diretta conseguenza dell’intervento umano. In molti altri, la causa è stata speculare e alla sua origine c’è un’omissione, cioè un mancato intervento per sanare il dissesto idrogeologico della zona. Dal 1948 ad oggi, Genova compresa, frane e alluvioni hanno fatto 3736 morti (per la Coldiretti, il bilancio è perfino più ampio, perché dal 1960 al 2012 ne ha computati più di 4mila). Il 4 settembre di quell’anno un nubifragio nel Piemonte orientale ammazzò 49 persone. Nell’ottobre 1951 fu la volta di Calabria, Sicilia e Sardegna, con 70 morti. A metà novembre se ne andarono in 84 durante l’alluvione del Polesine. Nel ’53 toccò a Reggio Calabria (151 vittime), nel ’54 a Salerno (318). Il 4 novembre 1966 un’eccezionale ondata di maltempo investì la Toscana, uccise 34 persone e ridusse Firenze in città di fango, scatenando la solidarietà di molti giovani che accorsero sul posto per dare una mano. Nel novembre 1968 di nuovo il Piemonte fu inondato, con 72 vittime; nell’ottobre del ’70 l’acqua invase Genova e la sua provincia e causò 44 morti. Il 19 luglio 1985 ci fu la catastrofe in Val di Stava: i bacini di una miniera ruppero gli argini e scaricarono 160.000 metri cubi di fango sull’abitato, seppellendo 268 abitanti. Nel ’94, sempre per motivi «naturali» e per il dissesto del territorio, dopo tre giorni di piogge incessanti, un’alluvione provocò 70 morti e 2200 senzatetto; nel ’98 in 159 persero la vita a Sarno sotterrati dalla fanghiglia e 14 morirono il 9 settembre del 2000 a Soverato, in Calabria. L’acqua caduta dal cielo e la colata di detriti fecero 36 vittime il 1° ottobre 2009 in provincia di Messina, mentre risale al 4 novembre 2011 l’ultima alluvione che investì Genova e uccise sei persone. Un elenco degli eventi più tragici non può non comprendere, infine, quello che colpì la Sardegna il 18 novembre 2013, dove i decessi furono 18.

Anche se la Liguria, da questo punto di vista, è forse la regione più problematica della Penisola, tutto lo Stivale in realtà è a rischio. Quattro comuni su 5 contano aree idrogeologicamente dissestate. Nei sei mesi precedenti allo scorso aprile le Regioni hanno chiesto 20 stati di emergenza, per un totale di oltre 3,5 miliardi di euro, e dal 1945 a oggi lo Stato ha stanziato 3,5 miliardi di euro per rimediare ai danni di frane e alluvioni. Ma poco è stato fatto. Negli ultimi quattro anni, sulle quasi quattromila opere anti-dissesto programmate, ne è stato realizzato solo il 4%, cioè poco più di cento unità. Il resto è bloccato per problemi burocratici, l’incertezza relativa alla disponibilità delle risorse, che vengono annunciate e poi ridotte nelle varie Finanzairie, e per cause giudiziarie, come i ricorsi al Tar dei cittadini. E, secondo l’associazione nazionale dei sindaci (Ance), investimenti pubblici per 1,6 miliardi sono rimasti nel cassetto e 1600 cantieri non sono ancora partiti. Di recente, il Governo ha fatto decadere i commissari straordinari incaricati di attuare le opere necessarie previste dagli accordi del 2010 fra ministero dell’Ambiente e Regioni. Tutto è stato trasferito ai Governatori. Vedremo come andrà.

Ma per alcuni esperti quello di mettere «in sicurezza» tutto il territorio italiano è un compito impossibile. «Se lei guarda le mappe di pericolosità, il nostro Paese è tutto rosso, cioè quasi tutto ad alto rischio e, anche con tutti i soldi del mondo, qualcosa resterebbe fuori - spiega uno di loro, chiedendo l’anonimato - Certo gli interventi vanno comunque fatti, anche perché l’urbanizzazione ha elevato il pericolo. Ma ci vuole un cambio di mentalità, non basta un allarme meteo tempestivo, se poi la gente si rifugia nei sottopassaggi e muore annegata. Bisogna essere consapevoli del rischio e, insieme, avere la capacità di gestire i comportamenti in caso di calamità. Si ricorda l’ultima piena del Tevere? Che facevano i romani? Stavano tutti sulle sponde e sui ponti a godersi incoscientemente lo spettacolo. E nell’ottobre 2011, nell’entroterra di Ostia, un uomo perse la vita durante l’alluvione perché dormiva nel sottoscala. Poi - continua il "nostro" - c’è l’opposizione ad alcune opere da parte dei residenti, anche perché non esistono meccanismi di compensazione e, se espropri un terreno per farci un bacino di esondazione, non sono previsti risarcimenti. Inoltre, quando l’intervento è stato fatto, spesso manca la verifica della sua efficacia. Per ultimo, c’è il problema della manutenzione. Senza di essa l’opera perde la sua utilità. Ma la manutenzione dovrebbe essere a carico degli enti locali, che, manco a dirlo, non hanno le risorse adeguate».