Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 12 Domenica calendario

Nel mondo c’è troppo «oro nero»– Il 24 dicembre del 2013, in un articolo per il Sole 24 Ore, avevo ribadito questa previsione, indicando che la prima fase critica per i prezzi si sarebbe potuta verificare nella seconda metà di quest’anno

Nel mondo c’è troppo «oro nero»– Il 24 dicembre del 2013, in un articolo per il Sole 24 Ore, avevo ribadito questa previsione, indicando che la prima fase critica per i prezzi si sarebbe potuta verificare nella seconda metà di quest’anno. Tutto questo si sta puntualmente verificando, sebbene a lungo le mie osservazioni sulla crescita produttiva siano state considerate troppo ottimistiche dalla stragrande maggioranza degli analisti del settore e dalla stessa industria petrolifera, che ipotizzavano scenari di segno opposto. Eppure la realtà era e rimane chiara. Dopo un ciclo di robusti investimenti nell’esplorazione e sviluppo di petrolio e gas cominciato nel 2003, dal 2010 ha preso corpo un superciclo di investimenti che, in quattro anni, ha comportato una spesa di oltre 2.500 miliardi di dollari nel solo settore "upstream" degli idrocarburi: un record storico assoluto per il settore, pur a fronte di un’inflazione specifica che ha più che raddoppiato i costi in quasi un decennio. Gran parte delle iniezioni di capitale ha prodotto o produrrà risultati con un notevole ritardo temporale, poiché nell’industria petrolifera occorrono anni prima di portare in produzione un giacimento. Il risultato di questa discrasia temporale è che le nuove produzioni arrivano (e continueranno a arrivare) sul mercato mentre la domanda di petrolio langue a causa di prospettive economiche mondiali ancora insoddisfacenti, se non negative. Altri fattori aggravano la situazione. Grazie soprattutto alla rivoluzione delle produzioni da giacimenti shale e tight (formazioni rocciose di scisti o con caratteristiche di bassissima porosità), gli Stati Uniti producono oltre 4 milioni di barili al giorno (mbg) in più di petrolio rispetto al 2006 e ormai insidiano la Russia e l’Arabia Saudita come primi produttori mondiali di oro nero. Su questo tema è necessario fare chiarezza: l’Arabia Saudita rimane il primo paese al mondo per capacità produttiva di petrolio, con circa 12,5 milioni di barili al giorno. Tuttavia, per evitare di inondare il mondo di greggio, il Regno mantiene una "spare capacity", ossia una capacità non utilizzata, di circa 3 mbg. La sua produzione effettiva, pertanto, risulta inferiore a quella della Russia (10,6 mbg) e equivalente a quella degli Stati Uniti (9,5 mbg). Questi ultimi, tuttavia, producono oltre 1 mbg di biocarburanti, che le statistiche delle principali agenzie inglobano nelle produzioni di petrolio (insieme ai gas di petrolio liquefatti): aggiungendo queste ultime componenti e considerando che gli Usa producono tutto ciò che possono, nelle ultime settimane l’America ha effettivamente conquistato – per alcuni giorni almeno – il primato mondiale nella classifica "allargata" della produzione di petrolio. Non solo. Rispetto al picco dei loro consumi, nel 2007, gli Usa consumano 2 mbg in meno di petrolio, soprattutto a causa di nuove leggi sull’efficienza energetica e di mutamenti strutturali nel comportamento dei consumatori. Tra maggiori produzioni e minori consumi, quindi, il paese chiede al mondo oltre 5 mbg di petrolio in meno rispetto a pochi anni fa (in parte esporta molti più prodotti petroliferi) e in questo modo colpisce gli interessi di molti grandi e medi produttori di petrolio, un tempo grandi esportatori verso gli Usa, oggi costretti a cercare altri sbocchi per il loro greggio in una situazione di eccesso di offerta. Questa spiega, per esempio, la riduzione dei prezzi operata qualche giorno fa dall’Arabia Saudita, nel tentativo di aumentare le sue quote di mercato soprattutto in Asia. Il fatto è che i massicci investimenti degli ultimi anni hanno rivitalizzato le produzioni di petrolio non solo degli Usa, ma di gran parte dei paesi del mondo, in molti casi allungando la vita produttiva di giacimenti ritenuti in declino, in altri – complici gli alti prezzi del petrolio – rendendo possibili produzioni un tempo non economiche. E una volta realizzati gli investimenti, i costi operativi relativamente bassi (e l’esigenza di recuperare cassa) consentono di produrre anche se i prezzi scendono. L’effetto finale di questo quadro è che la capacità produttiva mondiale di petrolio è cresciuta e continua a crescere a ritmi troppo sostenuti: ormai ha superato i 100 mbg (inclusi biocarburanti e liquidi assimilati al petrolio) mentre la domanda oscilla sui 92-93 mbg. La produzione effettiva di oro nero ha superato negli ultimi mesi i 95 mbg, comportando la creazione di circa 2 mbg di scorte e lasciando oltre 5 mbg di "spare capacity". Solo l’Arabia Saudita mantiene volontariamente capacità non utilizzata; altri paesi non producono tutto quello che potrebbero per instabilità politica (Libia e Nigeria, ma anche Iraq, Sudan e altri) o sanzioni internazionali (Iran). Se il loro greggio fosse disponibile per il mercato, i prezzi del petrolio sarebbero già crollati da tempo. L’ultimo elemento che concorre a dipingere un quadro fosco per i produttori di petrolio – siano essi paesi o compagnie petrolifere – è il rafforzamento del dollaro, che aumenta il potere d’acquisto dei produttori e allontana investimenti finanziari dai future sul greggio, trasmettendo così un forte impulso al ribasso dei prezzi della materia prima. Di fronte a tutto questo, le tensioni geopolitiche esplosive che attraversano il Medio Oriente o i confini della Russia non bastano più a sostenere i prezzi del greggio: lo hanno fatto a lungo, ma adesso solo qualche nuova crisi geopolitica di grandi dimensioni – come un attacco fondamentalista a un grande produttore di greggio o l’effettivo blocco di buona parte delle esportazioni russe – potrebbe avere questo effetto.