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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

LA SCENEGGIATA DEGLI ADDII


Nel pomeriggio del 17 aprile 1967, nella Basilica del Carmine c’erano 3 mila persone. E fuori, nella grande piazza Mercato, altre centomila rimasero per ore in attesa che dalla chiesa uscisse la bara. Non era mai successo che si raccogliessero in tanti per un funerale, e non sarebbe successo più, con questi numeri. Eppure ognuno di quei centomila e passa era lì solo per piangere. Napoli diceva addio al principe Antonio de Curtis. Diceva addio a Totò: a una parte di sé.
Ci sono momenti che segnano un’epoca e possono essere anche momenti di lutto. A Napoli chi ha una certa età ricorda che cosa fece quel 17 aprile ’67 anche se non andò in piazza Mercato, e nella memoria di chiunque sia nato alla vigilia dell’ultimo ventennio del secolo scorso c’è Rosaria Schifani che dall’altare della Cattedrale di Palermo si rivolge ai mafiosi davanti alle bare di Giovanni Falcone, di sua moglie e degli uomini della scorta.

Sono i funerali che fanno parte della storia d’Italia. Pubblici nelle immagini dei feretri come in quelle dei parenti, perché appartengono a tutti. Lutti che diventano eventi perché sono lutti collettivi. Sono pochi e perciò li ricordiamo: non ogni funerale può essere un avvenimento, pure se l’infinita tragedia della morte è uguale per tutti.
E invece no. Tre storie napoletane degli ultimi mesi raccontano che, pure dove il lutto non è collettivo, può esserci una collettività che si forma per l’occasione. Con il solo obiettivo di esserci nel momento più solenne. È una collettività senza una storia comune alle spalle, senza, almeno per la maggior parte, aver mai non solo conosciuto personalmente chi è morto, ma senza averne mai nemmeno saputo l’esistenza. Un popolo che si riunisce a prescindere dalla volontà o meno dei parenti di chi se n’è andato, della cui memoria si impossessa. E al funerale non prega ma manifesta.
È accaduto il 27 giugno quando a Scampia ci furono le esequie di Ciro Esposito, il giovane tifoso napoletano ferito da un ultrà romanista e morto dopo oltre un mese passato in ospedale. Quel giorno nella grande piazza del quartiere che ospitò anche papa Wojtyla, fu come se venissero celebrati due riti: quello evangelico sul piccolo palco che faceva da altare, dove si pregò e si pianse; e quello laico nel resto della piazza. Con gli ultrà venuti da tutta Italia con i loro striscioni, i loro simboli e le loro scenografie, perché un morto di calcio diventa un morto loro anche se non è un ultrà. E con i ragazzi del quartiere, che conoscessero o no Ciro, tutti con le magliette nere uguali.
«È come se con questi atteggiamenti il lutto più che patirlo lo si volesse manifestare. Come se il funerale, prima ancora che un rito in memoria di chi non c’è più, diventasse un rito contro : che richiede simboli, divise, scritte». L’antropologo Marino Niola, docente all’Università Suor Orsola Benincasa, sintetizza così la sua riflessione per «la Lettura»: «In situazioni come quella di Scampia, il funerale diventa un momento di teatro sociale». Un teatro dove tutti vogliono interpretare una parte. Dove si tende a enfatizzare la figura di chi è morto per ricavarne di riflesso una sorta di importanza personale all’interno della comunità di appartenenza. Un’importanza che aumenta quanto più ci si dà da fare pubblicamente. Ed è sempre il funerale il momento pubblico di una tragedia privata come un lutto. «Non è un caso — riflette Niola — che si usi l’espressione cerimonia funebre ».
E nulla rende cerimonia qualunque evento più del riflesso mediatico che ottiene. Infatti i recenti funerali napoletani sono stati diffusi in diretta da numerosi siti web. Non solo quelli di Ciro Esposito, ma anche quelli del 12 settembre di Davide Bifolco, il diciassettenne ucciso da un carabiniere al Rione Traiano dopo un inseguimento.

In quel caso la distinzione tra rito funebre e rappresentazione collettiva è stata ancora più marcata. Perché a differenza di quanto avvenne a Scampia, le esequie sono state celebrate in una chiesa, la parrocchia del quartiere, accessibile a pochissime persone rispetto a tutte quelle che si erano organizzate per partecipare. Quindi all’interno i parenti, le loro lacrime, la loro disperazione, l’omelia del parroco, i fiori, le preghiere. Fuori la sceneggiata: le magliette, stavolta bianche, con la foto del ragazzo stampata in petto, i palloncini, ancora gli striscioni. Due riti separati che diventano uno al momento del corteo funebre, che però non va verso il cimitero ma percorre e ripercorre le strade del quartiere finché le telecamere lo riprendono.
Chiunque abbia subito un lutto sa quanto ci si senta frastornati al momento del funerale. Rappresenta quella «terra di mezzo» tra le lacrime delle prime ore e il crollo — generalmente nervoso, talvolta anche psicologico o fisico — del «dopo». Non è quasi mai, quindi, chi è stato colpito direttamente a curare la sceneggiatura del rito. Che in un certo senso esiste in ogni funerale: un breve discorso, una preghiera particolare, i biglietti che accompagnano i fiori. Se ne occupano altri: parenti, amici. Ma in questi funerali trasformati in eventi la regia è lontana dalle famiglie. Appartiene al massimo a conoscenti, ma anche a completi estranei. Che agiscono con modalità da spettacolo perché, come dice Niola, «il modello di riferimento è quello. Sempre di più».
Semmai da una realtà sociale all’altra varia la scelta espressiva. Ai funerali di Davide Bifolco l’interminabile corteo a beneficio delle tv fu un’occasione irrinunciabile per una periferia che mai aveva vissuto la notorietà di quei giorni. Il rito funebre per Ciro Esposito si concluse con un’altrettanto interminabile passerella di delegazioni di tifosi — annunciate una per una da una specie di presentatore al microfono — che dovevano compiere il rito della sciarpa posata sulla bara: l’apoteosi della rappresentazione ultrà.
Diverso il discorso per i funerali di Salvatore Giordano (15 luglio), quattordicenne colpito alla testa e ucciso da un pezzo di cornicione crollato dalla galleria Umberto I mentre passeggiava con gli amici nella centralissima via Toledo. Salvatore era della provincia, di Marano, e i funerali si svolsero nello stadio del paese che si riempì di 3 mila persone. In quel caso forse l’emozione e la commozione pesarono più della voglia di dire «io c’ero». Però pure ci fu chi cercò il colpo ad effetto: qualcuno compose le parole «Sasy» e «vive» con dei palloncini che poi sistemò in modo tale da farne riflettere l’ombra sulla pista di atletica e rendere la frase leggibile dagli spalti. Qui più che uno sceneggiatore, ci sarà voluto proprio uno scenografo per un progetto così complesso. Difficile che si pensi a cose di questo genere se si soffre davvero. I poveri genitori di Sasy non ci avrebbero mai pensato. Loro fecero solo stampare 3 mila immaginette del ragazzo — quelle che vengono chiamate «santini» — e le distribuirono a tutti. Come si fa ai funerali.