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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

FILMARSI GIORNO DOPO GIORNO LA NOSTRA VITA DIVENTA UN SET


Una cosa è evocare un momento della propria infanzia, un’altra è tentare di rievocarla per intero. Quando ci si prova, l’impressione è di spalancare una finestra su un paesaggio tanto vasto quanto confuso: più lo osservi più emergono ricordi, e più emergono ricordi più l’effetto di questo tuffo nel passato si fa disorientante. Questo perché l’idea che abbiamo dell’infanzia è necessariamente falsata da una serie di fattori, uno su tutti il fatto che, nella nostra memoria, a quel periodo corrisponde una quantità sconcertante di prime volte: il primo giorno di scuola e le prime botte nel cortile, la prima cotta e la prima delusione, la prima partita vinta e la prima gamba ingessata.
Si tratta dell’unico momento della nostra vita in cui non disponiamo di metri di paragone, e ogni esperienza viene investita di un’importanza enorme. Forse è così che si spiega l’effetto quasi ubriacante innescato dalla visione di Boyhood , un’operazione cinematografica senza precedenti che ha tenuto impegnati il regista Richard Linklater e un intero cast di attori per dodici anni (in uscita in Italia il 23 ottobre). Boyhood racconta l’infanzia e l’adolescenza di Mason Jr. Evans, figlio di genitori separati nel Texas dei primi anni duemila. La trama in sé non ha nulla di eccezionale, si districa tra litigi famigliari, traslochi forzati, alcolismo parentale e dilemmi esistenziali con un approccio piuttosto tradizionale. Quello che invece rende Boyhood un evento epocale — oltre al record di recensioni positive — è la sua produzione.
Nell’anno 2002 Richard Linklater chiama a raccolta un cast di attori impegnandoli a tenere liberi tre o quattro giorni ogni anno per partecipare alle riprese di un film. Tra questi c’è Ellar Coltrane, un bambino di sette anni biondo, paffuto e vivace. Quando il film arriva nelle sale americane, nel luglio del 2014, Coltrane di anni ne ha ormai diciannove, è un ragazzo magro, introverso, che trattiene solo un’ombra del bambino che è stato. Cosa, oltre agli ormoni, ha determinato un simile cambiamento?
Boyhood è una delle risposte possibili. Non un documentario, né un biopic, qualcosa di più: un racconto di formazione fittizio che risulta allo stesso tempo iperrealistico ed empatico, un’opera che impiega tutti gli strumenti più classici della finzione, mettendoli però al servizio della più lampante e autentica delle verità: il tempo, ossia gli effetti che produce sulle persone e sul mondo in cui vivono. Da questo punto di vista, più che un film sulla vita di un ragazzino, è un film sulla vita stessa. Non è la prima pellicola ad adottare questo impianto narrativo. Michael Winterbottom aveva fatto qualcosa di simile con Everyday , nel 2012, e lo stesso Linklater aveva già giocato con il tempo nella sua Before Trilogy . Quello che però solo Boyhood riesce a fare, è instillare nello spettatore il senso di disorientamento citato all’inizio del pezzo. Aprendo la propria finestra sul paesaggio infantile e adolescenziale di Mason Evans Jr., Linklater ci costringe a fare i conti con la nostra percezione del tempo, inevitabilmente legata alla qualità e all’intensità dei ricordi che abbiamo conservato.
Vedere Ellar Coltrane trasformarsi da bambino spensierato nell’adolescente schivo che è diventato nel mondo reale va ad aggiungere una profondità inedita alla narrazione, un elemento di verità che forse finora il cinema non aveva mai potuto sfoggiare. Ma a farci sentire disorientati è altro: l’impressione che la nostra infanzia, epoca ammantata di meraviglia e mistero, dilatabile in un’infinità di momenti inaccessibili, possa essere incapsulata in un due ore e quaranta di immagini accuratamente montate.

Tuttavia, se dodici anni fa un’operazione come Boyhood poteva apparire rivoluzionaria, oggi finisce per inserirsi in un solco già tracciato, destinato ad accogliere sempre più pellicole di questo genere. Mentre Linklater impilava con pazienza i mattoncini della sua monumentale opera, nel resto del mondo un numero sempre maggiore di persone, nel loro piccolo, cominciava a fare qualcosa di molto simile. Basta digitare one second a day nella barra di ricerca di YouTube per essere inondati di video di utenti che ogni giorno — complice la crescente disponibilità di videocamere a basso prezzo e smartphone ad alta definizione — hanno immortalato un momento della propria vita per poi montarne a centinaia in un unico filmato. C’è chi vuole tenere traccia del primo anno di vita del primogenito, chi lo fa perché vuole provare a non dimenticare nemmeno un giorno della sua vita, e chi ha avuto l’intuizione di ingessare un determinato periodo storico per poi riesplorarlo in futuro.

Da qualche anno a questa parte, inoltre, stanno prendendo piede una serie di «dispositivi indossabili» che permettono di automatizzare questo processo in modalità inedite. Mentre Google ancora non si decide a lanciare definitivamente i suoi Glass — occhiali intelligenti che consentirebbero, tra le altre cose, di riprendere momenti di vita reale con un semplice comando vocale — sul mercato sono arrivate nuove fotocamere indossabili non più grandi di una scatola di mentine, che possono essere appese al collo, o appuntate al taschino come una spilla, e portate con sé per l’intero arco della giornata.
È il caso di Narrative Clip, dispositivo svedese dotato di una fotocamera che scatta automaticamente una foto ogni trenta secondi; e di Autographer, altra fotocamera indossabile che è in grado di capire quando l’immagine inquadrata varia sufficientemente da richiedere uno scatto. Grazie a questi dispositivi sempre più utenti stanno cominciando a tenere diari visivi delle proprie giornate, allo scopo di archiviarli o condividerli con altri utenti: un fenomeno noto con il nome di lifelogging («la Lettura» gli ha dedicato la storia di copertina il 9 settembre 2012).
Ma perché quella che è nata come una tendenza possa assumere proporzioni artistiche, è necessario un ulteriore salto di qualità. Presto l’avanzamento tecnologico consentirà di appuntarsi al taschino piccole videocamere ad alta definizione (qualcosa di simile alle attuali GoPro) studiate per registrare il punto di vista dell’utente per tutta la durata della sua giornata di veglia. Tra poco saranno disponibili droni portatili progettati con lo scopo di fungere da fotografi e operatori di ripresa robotici (cosa che Nixie, una sorta di «drone da polso» sviluppato a Stanford, è già in grado di fare). Sfruttando queste tecnologie, il lifelogger potrà decidere di riprendere più aspetti della propria vita quotidiana, come una sorta di acritico e automatizzato regista di se stesso.
È in questa prospettiva che Boyhood assume un’importanza cruciale. La pellicola di Linklater si colloca infatti come un ideale passo di transizione dall’opera cinematografica intesa come fiction a tutti gli effetti, a un nuovo tipo di cinema, autenticamente autobiografico eppure ontologicamente distante dalle intenzioni di un documentario, creato a partire da un montaggio attivo di scene di vita reale acquisite in modo passivo.
Lo scorso giugno, lo scrittore Errico Buonanno ha cominciato a pubblicare, sulle pagine di Corriere.it, un inedito format televisivo in cui ha assemblato un’enorme mole di filmati che aveva girato all’età di diciott’anni, quando ancora andava al liceo nell’Italia degli anni Novanta. Considerando la progressiva diffusione di apparecchi per il lifelogging , è ragionevole prefigurarsi un futuro in cui l’aura di mistero e meraviglia che ammanta i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza verrà in parte dispersa in ingenti quantità di filmati e testimonianze visive; ma anche un futuro in cui i registi (o gli aspiranti tali) archivieranno una quantità smodata di girato, tenendo un videodiario delle proprie giornate, o ponendosi come testimoni di eventi potenzialmente epocali, per poi tagliare, montare e riarrangiare le clip in modo da costruire una storia che non ha bisogno di attori, di sceneggiature o di addetti alla fotografia.
Se questo tipo di «nuova sincerità» sarà la cifra stilistica degli anni a venire, allora possiamo aspettarci un’esplosione di emuli di Boyhood , girati nell’arco di anni e montati nell’arco di giorni da migliaia di utenti. Difficilmente si tratterà di capolavori, anzi, per la maggior parte saranno goffe esibizioni di autocompiacimento, ma è assai probabile che questa tendenza finirà per ispirare il cinema-cinema. Dopotutto, se è successo con le prime videocamere portatili a fine anni Novanta (il found footage di The Blair Witch Project e REC è ormai diventato un genere a sé), è lecito immaginare che succederà anche con il lifelogging.