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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

SECESSIONE A CHI CONVIENE (E A CHI NO)


Il referendum sull’indipendenza della Scozia ha catturato l’attenzione di tutto il mondo. Non capita spesso che i cittadini possano decidere pacificamente e democraticamente se formare o meno un nuovo Stato indipendente. Ma la creazione di nuovi Paesi non è una novità. Dalla fine della Seconda guerra mondiale il numero di Stati indipendenti è quasi triplicato, e solo negli ultimi trent’anni più di trenta nuovi Paesi sono diventati membri delle Nazioni Unite.
Una ragione importante, ma non la sola, è stata il crollo degli imperi coloniali e del dominio sovietico. Inoltre gli indipendentisti scozzesi non sono i soli secessionisti in Europa. È possibile che fra poco la Catalogna voti se separarsi dal resto della Spagna, anche se il referendum catalano, a differenza di quello scozzese, non è stato approvato dal governo centrale di Madrid. E l’indipendenza del Québec dal resto del Canada rimane un punto focale e controverso in Nord America.
Come valutare le spinte separatiste? Spesso le risposte a queste domande peccano di estremismo e semplicismo. Da un lato ci sono gli entusiasti delle secessioni, dall’altro chi le vede come catastrofi. Ma in realtà quando si forma uno Stato più piccolo dopo una secessione si manifestano dei pro e dei contro che variano a seconda della situazione interna del Paese in questione e della situazione internazionale. Per esempio, i cittadini di Stati più piccoli e omogenei possono accordarsi più facilmente su tasse, beni pubblici, redistribuzione e altre politiche pubbliche.
È molto più difficile invece trovare il consenso in Paesi più ampi ed eterogenei, come gli Stati Uniti, che hanno una storia di conflitti politici interni, compresa una sanguinosa guerra di Secessione. Ma la diversità di culture, etnie e prospettive spesso vuol dire anche maggior creatività e innovazione. New York e Los Angeles sono fra le città più innovative del mondo, ma sono anche percorse da seri conflitti razziali. La storia americana dimostra poi altri due benefici per un grande Paese: la possibilità di difendersi meglio dai nemici esterni (l’unione fa la forza) e i vantaggi economici di un mercato nazionale vasto e senza barriere interne.
Ma allora da dove vengono gli incentivi alle secessioni? Ci sono almeno tre ragioni.
La prima riguarda la politica interna degli Stati. Nel passato monarchi e dittatori potevano ignorare le preferenze delle loro popolazioni e mantenere Stati centralizzati e vasti imperi coloniali con l’uso della forza. Ma in un mondo più democratico diventa sempre piu difficile reprimere le preferenze di minoranze etniche, linguistiche e religiose, e i governi centrali si vedono costretti a concedere maggiore autonomia, se non addirittura l’indipendenza. A questo proposito vedremo che cosa accadrà in Cina, un Paese enorme tenuto insieme da una dittatura comunista così come lo era l’Unione Sovietica.
La seconda ragione riguarda le relazioni internazionali. Nonostante i tanti conflitti e le crisi del nostro tempo, viviamo fortunatamente in uno tra i periodi più pacifici, prosperi e liberi della nostra storia recente. Paragoniamolo al mondo dei nostri nonni tra il 1914 e il 1945, afflitto da politiche protezionistiche, depressione, orribili dittature nel cuore dell’Europa, genocidi etnici e terrificanti guerre mondiali. Se le cose sono migliorate dopo la Seconda guerra mondiale, è in gran parte grazie ad accordi e istituzioni internazionali che hanno facilitato la pace e il sempre più libero commercio. Questo è certamente vero in Europa, dove la Nato ha ridotto i costi nazionali di autodifesa, mentre l’Unione Europea ha eliminato tante barriere economiche tra i suoi membri. Ma questo ha anche eroso l’importanza dei mercati nazionali.
Ecco quindi la terza ragione che permette a Paesi piccoli di prosperare. Il libero commercio internazionale rende un grande mercato interno nazionale meno importante. Un Paese anche piccolo può commerciare liberamente con il resto del mondo. In questo senso l’Unione Europea paradossalmente rende le secessioni regionali più attraenti. Il governo spagnolo serve meno alla Catalogna se molte delle prerogative di Madrid sono devolute a Bruxelles. Tempo fa si parlava di un’«Europa delle regioni» in cui le capitali nazionali perdono prerogative verso il basso (le regioni) e verso l’alto (Bruxelles).
Nel XXI secolo, grazie a commercio e istituzioni internazionali, essere piccoli non vuol dire necessariamente essere poveri, mentre essere grandi non è garanzia di prosperità. Tra i cinque Stati più ricchi del mondo, in termini di reddito pro capite, il più popoloso è Singapore, con poco più di 5 milioni di abitanti. Invece tra le cinque nazioni più grandi in termini di popolazione, il secondo più ricco, dopo gli Stati Uniti, è il Brasile, dove si vive in media con meno di mille euro al mese.
In studi che abbiamo condotto in collaborazione con Romain Wacziarg (Università della California a Los Angeles), abbiamo trovato che i tassi di crescita economica sono molto più elevati tra i Paesi aperti al commercio internazionale e che tale effetto è molto maggiore per i Paesi più piccoli che per i Paesi più grandi. In altri termini, essere aperti agli scambi internazionali consente ai Paesi più piccoli di aumentare il proprio reddito tanto e più dei Paesi di maggiori dimensioni.
Insomma, l’analisi economica consente di valutare i costi e i benefici delle secessioni. Ma la scelta finale dipende dalle preferenze dei cittadini di quei Paesi e coinvolge aspetti spesso passionali, quali cultura e identità. La formazione di nuovi Paesi ha senso solo se riflette le preferenze di gran parte delle popolazioni coinvolte. In questo la Scozia è andata nella direzione giusta, consentendo il voto ai propri cittadini. Ma ora che gli scozzesi hanno deciso di restare britannici — in gran parte perché è stata promessa loro maggior autonomia da Londra — sarà necessario coinvol gere anche le altre popolazioni (inglesi, gallesi, nordirlandesi) in una riorganizzazione del Regno Unito. Più complicata e pericolosa sembra la situazione in Spagna, dove sarebbe auspicabile una maggior cooperazione tra Madrid e Barcellona.
Le secessioni rimangono comunque processi costosi, mentre i confini nazionali continuano a ostacolare gli scambi economici. Pensiamo al Québec, la regione francofona del Canada. Nonostante un trattato di libero scambio (Nafta) e una forte alleanza politico-militare, il commercio tra Stati Uniti e Canada è di gran lunga inferiore a quello tra province canadesi. Ovvero un Québec indipendente potrebbe vedere il suo commercio con il resto del Canada ridursi di molto, con evidenti costi economici. E se ora viviamo in un mondo più pacifico, non c’è garanzia che la pace si mantenga nel futuro, o che gli europei possano sempre contare sugli Stati Uniti e sulla Nato per la propria difesa.
In un mondo ideale, se i benefici dall’essere uniti eccedono i costi della separazione, chi vuole uno Stato più grande dovrebbe compensare chi vorrebbe andar via, con vantaggio di tutti. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi, perché gli interessi di parte troppo spesso dominano l’interesse collettivo ed è difficile per un governo centrale far promesse credibili a varie minoranze senza alienare la maggioranza. Il primo ministro britannico Cameron e il suo governo, che tanto hanno promesso alla Scozia per evitare la secessione, dovranno presto affrontare questo dilemma. In ogni caso, quel che è veramente importante dal punto di vista di tutta la comunità internazionale è che le decisioni su istituzioni e confini siano prese nel rispetto delle regole democratiche e nella piena tutela di tutte le minoranze. La tragica attuale esperienza irachena e quella passata della ex Jugoslavia illustrano quel che accade quando non si seguono tali regole.
Un problema non da poco, inoltre, è che la comunità internazionale stessa sia formata da Stati e governi nazionali che hanno spesso tutto l’interesse a preservare lo status quo. E qui si annida forse il rischio maggiore. Ossia che, allo scopo di evitare la formazione di nuovi Stati o anche solo per scoraggiare richieste di maggior autonomia, si mettano a repentaglio i grandi benefici ottenuti grazie alla cooperazione e all’integrazione economica internazionale. I confini nazionali non sono entità permanenti ed eterne ma istituzioni che possono naturalmente essere modificate con il mutare delle esigenze politiche ed economiche. E le forze degli ultimi decenni — democrazia, cooperazione internazionale, integrazione economica — hanno paradossalmente aumentato gli incentivi per autonomie e localismi.
Questo significa che ci dobbiamo aspettare crescenti domande per autonomia e indipendenza da gruppi che non si sentono rappresentati dai governi centrali tradizionali. La reazione non deve essere la difesa dello status quo a tutti i costi, ma un uso creativo e pragmatico delle istituzioni democratiche. Per esempio, sarebbe assai grave se, per ridurre i rischi di secessione, organizzazioni come la Nato o l’Unione Europea creassero barriere e ostacoli all’integrazione politica ed economica, e respingessero Paesi nuovi solo perché nati dalla scissione di vecchi membri.
Alla fine, è proprio quando gli Stati nazionali e le organizzazioni sovranazionali sono più tolleranti e aperti al cambiamento che è più facile che popolazioni diverse decidano dopo tutto di stare insieme invece di dividersi.