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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

DA FALCK A TERNI COSÌ È MORTO L’ACCIAIO ITALIANO


ROMA L’acciaio non è inossidabile. O meglio, non lo è più. La crisi sta lasciando ferite profondissime. Era il fiore all’occhiello, comunque trainante nella ricostruzione del Paese dopo il secondo conflitto mondiale. Quasi mitici gli anni Cinquanta quando in 260 stabilimenti, disseminati soprattutto nel Nord, si macinavano centinaia di migliaia di tonnellate di acciaio per rimettere in piedi l’Italia e per esportare oltre le Alpi: dai 4 milioni del 1952 ai circa 23 del 1974. E le imprese, di grandi e medie dimensioni, si chiamavano Ilva, Falck, Ferriere Fiat, Dalmine, Terni, Breda, Siac, Cogne, Radaelli, La Magona d’Italia. Erano questi i dieci campioni nazionali.
Ora invece al ministero dello Sviluppo si procede alla conta dei sopravvissuti. Perché si fa prima a censire le aziende che resistono (Arvedi, Tenaris Dalmine, Duferco) piuttosto che quelle che tentano di restare a galla. «Praticamente tutte, tranne qualche eccezione, non produciamo più neanche un grammo di alluminio», spiega sconsolato il segretario nazionale della Fim/Cisl, Marco Bentivogli. Sulla carta fisica della siderurgia nazionale figurano tre altiforni: l’Ilva di Taranto, vicenda drammatica e ancora aperta; la Lucchini di Piombino che passerà nelle mani degli indiani di Jindal con l’installazione di un forno elettrico da circa 600.000 tonnellate e consentirà di occupare altre 500 persone oltre alle 750 dell’area a freddo; la Lucchini di Servola-Trieste che ha appena firmato la cessione alla Arvedi di Verona. Accanto a questi tre giganti d’acciaio, una miriade di forni elettrici (circa 40) che operano quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali. Eppure l’Italia riesce a mantenere il secondo posto in Europa, dopo il gigante tedesco, di produttore di acciaio: più di 27 milioni di tonnellate sfornate nel 2012. E la leadership nel riciclo di rottame ferroso (circa 20 tonnellate) che viene rifuso nei siti nazionali. Si tratta però di numeri risalenti a quasi due anni or sono, prima della crisi dell’Ilva di Taranto. Ora le cose, evidentemente, sono cambiate. «Se si ferma l’Ilva che è il secondo impianto europeo - ha avvertito a suo tempo l’ex ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato - l’Italia dovrà dire addio a tutta l’industria siderurgica, con possibili ripercussioni anche sulla meccanica». Eh sì perché ben il 47% dei prodotti meccanici che esportiamo è (era) fatto con acciaio italiano. Fino al Duemila il fatturato ha sempre galleggiato sui 25 milioni di tonnellate, è salito sopra i 30 nel 2007 e 2008, per poi scendere sotto i 20 nel 2009. Dal 2012 uno scivolamento quasi inarrestabile. E le prospettive sono tutt’altro che incoraggianti.
I RISCHI
La recessione dell’economia occidentale, lo slancio della Cina e degli altri Paesi emergenti sta sgretolando lentamente i mercati europei. L’occupazione è in calo: oggi si attesta attorno alle 70.000 unità tra dipendenti diretti e lavoratori dell’indotto. Al ministero dello Sviluppo è aperto da tempo un tavolo «per l’acciaio e l’alluminio», con risultati non esattamente esaltanti.
Invertire la tendenza è possibile, ma servono interventi rapidi e mirati. Le aziende sollecitano da tempo un taglio dei costi energetici (in Italia sono mediamente più alti del 30% rispetto a quelli praticati in Europa), la creazione di un consorzio per l’acquisto di materie prime, una maggiore facilità di accesso al credito, più infrastrutture e meno burocrazia. Magari è anche tanto però sul campo alternative non ce ne sono.