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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

“DA MARRAKESH A ITALY IN A DAY, CAMBIO FACCIA PER ESSERE AMATO”

[Intervista a Gabriele Salvatores] –
Braccia conserte, ricordo nitido: “A metà di un dibattito su Turné, un mio vecchio film, un tipo alzò la mano e chiese: ‘Che cinema vorrebbe fare domani?’ ‘Vorrei raccontare delle storie’ risposi. Quello sorrise con malizia al suo vicino. Gli occhi dicevano povero illuso, parvenu, forse di peggio. Scossero entrambi la testa, da allora mi è rimasto il complesso di colpa”. A sessantaquattro anni, Gabriele Salvatores ascolta ancora Crosby, Stills, Nash & Young e prende qualche treno, ma non viaggia più attraverso il chiaro cielo africano di Marrakech Express: “Se ripeti le cose che sai fare, sei vicino alla morte”. La stanza scelta per l’intervista è in un anonimo ufficio ingentilito dalla foto di una strada. Copre tutta la parete, corre nel deserto e svanisce in un orizzonte incerto: “Ne ho visti tanti di posti così” dice Salvatores, venti film, tanti premi, molti generi esplorati e un Oscar, quello per Mediterraneo, conquistato nel 1992 dopo aver messo in fila migliaia di chilometri. “Sylvester Stallone si avvicinò al microfono e disse ‘Idaly’. Capii ‘Ilary’ e non c’era nessun ‘Ilary’ tra i titoli della cinquina. Passò qualche secondo, mi strattonarono, mi dissero che avevo vinto l’Oscar e mi spinsero sul palco. Il mondo mi cambiò davanti e a me parve fosse cambiato troppo in fretta. Mi spaventai. Forse feci bene. Se avessi dato retta alle proposte dei produttori stranieri, avrei girato solo remake. Volevano che adattassi Mediterraneo allo scontro tra americani e giapponesi. Cercavo vanamente di spiegare che giapponesi e greci non erano la stessa cosa, ma loro non sembravano convinti”. Con il volto lungo e il sorriso largo come ombrello sulla timidezza: “Rido troppo, Paolo Sorrentino sostiene sia il mio peggior difetto” Salvatores continua a ripetersi che la miglior maniera di sopravvivere “l’unica che conosco” sia “mantenere un sogno e una passione”. Senza debiti né oboli: “La mia famiglia sono gli amici, una vera non l’ho costruita né a dire il vero ho mai pensato di farlo”. Come un suo personaggio, si sente libero: “Un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare”.
Ci crede veramente?
È stato il mio destino. Negli Anni 70 paragonavamo la famiglia a una galera e forse, inconsciamente, alcuni di noi hanno continuato a considerarla come tale. Nei miei primi film, più del desiderio di fuga, pulsa il rifiuto dell’età adulta. Il passaggio dal piacere alla realtà, per un’intera generazione, ha rappresentato una partita complicata. Come dicevano i miei soldati in Mediterraneo: “Hanno vinto loro, ma non riusciranno a considerarci loro complici”.
Nei suoi ragionamenti il noi precede sempre l’io.
È un riflesso comunitario. Sono cresciuto alla scuola del Teatro Elfo. Un posto di artisti pazzi, un’arca di gente su cui bisognerebbe fare un film. All’Elfo è passato di tutto.
Chi c’era in quel tutto?
L’attore vestito da Petronio Arbitro che non entra in scena perché si è appena fatto di eroina, lo scenografo di genio e anche chi nella Storia con la esse maiuscola era inciampato quasi per caso. Lui si chiamava Andrea, militava in Prima Linea, gli dissero ‘andiamo ad ammazzare il giudice Emilio Alessandrini’ e quello rifiuto: ‘Io non uccido’. Prima di permettergli di sciogliersi dal gruppo, gli diedero un appuntamento per restituire la pistola. Andrea salì su un autobus e al capolinea incontrò la Polizia. Lo perquisirono. Si fece sette anni.
L’età inquieta dei Settanta.
Gli Anni 70 erano confusi e pericolosi, però il mio ricordo, nonostante i lutti del periodo, non è del tutto cupo. C’erano energie vitali, invenzioni, creatività. Poi arrivò la droga. E la droga pesante, nell’indirizzare un’età drammatica in cui definire in un senso o nell’altro la propria individualità è già un terno al lotto di per sé, fu decisiva.
Che adolescente era Gabriele Salvatores?
Uno che come da radice etimologica, deve ancora imparare a riconoscere il proprio odore. Mio padre Renato, borghese, napoletano e crociano di stretta osservanza mi avrebbe voluto avvocato come lui. Mi vedeva con i capelli lunghi, dubitava dei miei studi in Accademia e chiedeva sempre: ‘Sarà mica un lavoro serio il tuo?’.
Lei rispondeva?
Come ne Il ragazzo invisibile, il film che sto finendo di preparare, la storia di un tredicenne che scopre di aver un superpotere che deve imparare a controllare, c’è sempre un momento della vita in cui ti senti trasparente e sogni solo di scomparire in un’oasi. In un posto che ti somigli. Fuori c’era la rivoluzione e ne ero attratto, ma le mie vere barricate erano dietro il portone dell’Elfo.
C’era il teatro.
Ho fatto più di venti regie per l’Elfo, l’ultima nel 1989. Alla fine, per un regista, il luogo del confronto tra la luce e il buio irrazionale è sempre il palco. Si torna al conflitto shakespeariano in quasi tutti i miei film e non di rado gli eventi si svolgono in un lasso di tempo limitato. Un viaggio. Una giornata. Una notte di follia in un bosco.
Alla fantascienza, con “Nirvana”, era già arrivato nel 1997.
Il lusso di poter dire a Cecchi Gori ‘voglio fare un film di fantascienza’ senza essere cacciato a pedate dal suo ufficio, era esclusivo merito dell’Oscar. Vittorio era atterrito dal progetto e pensava intimamente fossi impazzito, ma aveva la faccia di chi non vede alternative. ‘Come cazzo faccio a rispondergli di no?’. L’Oscar, del tutto inaspettato, mi consentiva libertà inaudite. Nirvana era il prodotto di una suggestione. Di un viaggio. A Benares, sulla scalinata dei lebbrosi che scendeva verso il Gange, accanto a santoni, malati e immagini divine, un gruppo di ragazzini stava giocando a un videogioco con una console. Li vidi. E iniziai a pensare a un film che tenesse conto della bizzarra coesistenza di apparenza, virtualità e realtà.
Nella cinquina dell’Oscar per il miglior film straniero del 1992, con cecoslovacchi, finlandesi e svedesi, il suo avversario principale era Zhang Yìmóu.
Il suo Lanterne Rosse era un capolavoro e sinceramente, un film in assoluto migliore di Mediterraneo. Pensavo non ci fosse gara. La notizia dell’approdo in cinquina giunse mentre annaspavamo nel deserto messicano per le riprese di Puerto Escondido. C’era un caldo infernale su quel set e io pensai a cose prosaiche, terrene, immediate. Alla meraviglia di una doccia in un albergo di Los Angeles.
Ottenne un po’ di più.
Una cena con Billy Wilder, soprattutto. Imparai molte cose quella sera.
C’è stato un prima e un dopo Oscar?
Senz’altro. Ti danno una patente, cambiano le cose, si deforma la percezione. Se non sei lucido e ci credi troppo, è pericoloso. Puoi andartene di testa. Mi ricordo che Bono degli U2 raccontava, dopo non so quale coccarda ricevuta, di aver passato un periodo triste.
E perché era così triste, Bono?
Perché temeva che nessuno gli dicesse più di no. Quando sei in alto, capita spesso che gli altri non osino contraddirti. Che rispondano sì a prescindere, che siano servili e accomodanti. Poi Bono tornò a casa, ascoltò la segreteria telefonica e si rincuorò. Tutti i suoi amici avevano lasciato un breve messaggio. Un coro di no. Per il regista il problema è ancor peggiore. Tendere a confondere la realtà con il tuo cinema è la norma. Purtroppo quando l’adrenalina di un film evapora e se ne vanno tutti, tu rimani solo con la tua vita. La tua trama, all’improvviso, non ha più una direzione. È straniante. Destabilizzante. Luc Besson mi rivelò che per un lungo periodo aveva smesso di fare il regista proprio per questa ragione.
I suoi amici si sono comportati come quelli di Bono?
Qualcuno come Elio De Capitani, un fratello, mi confessò di aver tifato contro di me per tutto il periodo che precedette l’Oscar. Gli amici sinceri come Elio ci sono sempre stati. Ho sicuramente affrontato qualche forma di depressione non gravissima e nel dubbio di non sapere come uscirne, devo anche aver pensato: ‘E adesso sono cazzi’. E altrettanto certamente avrò passato periodi in cui non stavo bene, non avevo energia e rispondevo arroccandomi nell’alterigia del regista di successo. Loro, i Comedians di un tempo lontano, c’erano. Per smussare. Relativizzare. Farmi capire che sbagliavo con la leggerezza di chi non ti giudica mai.
Nel dubbio, lei tiene l’Oscar in bagno.
Ma senza simbolismi. Senza spregio. Senza sfregio. C’è una bella nicchia, ci sono i profumi. Sta bene lì.
Torniamo agli amici. Con alcuni “Comedians” da Paolo Rossi a Claudio Bisio, aveva già lavorato in teatro. Con altri lavorò nei suoi primi film.
Se escludiamo i primi due, due esperimenti a cui sono affezionato, ma che fatico a considerare film, il mio vero esordio fu con Marrakech Express. Una geniale intuizione produttiva di Gianni Minervini. Girammo in sequenza e in economia assoluta, seguendo le tappe del viaggio, con un camion per la troupe e quattro mezzi in croce. I volti si trasformavano al ritmo della traversata, si abbronzavano, si rilassavano. C’erano amicizie, divergenze, contrasti, grandi partite di pallone nelle pause. Fu divertentissimo.
C’era anche Diego Abatantuono.
Un grandissimo attore, uno che avrebbe potuto fare ruoli alla Orson Welles. A Diego mi legano decine di episodi. Alla fine della sua relazione con Rita, la sua ex moglie, mi innamorai di lei. Un giorno a Lucca, scendendo in macchina da un colle con sua figlia Marta, mi sento fare una domanda.
Quale domanda?
‘Gabriele, cosa vuol dire frocio?’. Impallidisco. Le dico, con le parole più affettate che mi vengono in mente, che frocio non si dice, che è una brutta parola e che capita che gli uomini si amino tra loro. È una scelta. Una preferenza e niente più. Marta tace. Dopo un paio di minuti torna all’attacco: ‘Gabriele, ma a te mamma Rita piace?’. E io: ‘Certo che mi piace, la amo, stiamo insieme’. ‘E allora perché papà dice che sei frocio?’. Non l’avrei potuta inventare neanche in un film una storia simile. Racconta molte cose, anche sull’affetto. Marrakech fu anche il contenitore di tanti spiriti liberi. Oggi girare un film come quello a basso costo e farlo resistere nelle sale come accadde allora da maggio a Natale sarebbe impossibile.
“Italy in a day”, il suo ultimo film, sintesi e scelta di 45 mila video autoprodotti da italiani di ogni sorta nella sola giornata del 26 ottobre del 2013, dimostrerebbe il contrario.
Ma questa specie di censimento per immagini, Italy in a day, non ha per sua natura la complessa impalcatura economica di un film. Certo ci sono i telefonini ed esiste il digitale, ma oggi girare un’opera per il cinema, anche a bassissimo budget, non costa meno di 500 mila euro. Il cinema non è un dipinto e non è un romanzo. È riproducibile e diffuso. Impiega maestranze, occupa i luoghi, paga gli straordinari.
Il documentario o in questo caso l’autodocumento abbatte i costi?
Ho sempre pensato che non c’è ricerca che non passi dal provare a cambiare dall’interno i meccanismi e il linguaggio dell’industria cinematografica. Con Marrakech, al tempo in cui dominavano da un lato Nanni Moretti e dall’altro gli Yuppies e le Via Montenapoleone, provammo ad aprire una strada. Fummo fortunati. In questo caso la storia è diversa. Italy in a day, è un esperimento a sé.
Ce lo racconta?
Lorenzo Gangarossa di Indiana ha comprato i diritti di Life in a day, il format di Ridley Scott girato da Kevin Mcdonald e strutturato come un diario collettivo. L’idea di un mare di immagini diversissime tra loro da organizzare in un solo film mi affascinava. Mi ricordava un’opera che ai tempi di Sogno di una notte d’estate, il mio primo lungometraggio nato alla scuola di Dante Spinotti e Gabriella Cristiani, avevo visto al Festival di San Se-bastian. Si intitolava Koyaanisqatsi ed era stata girata da un ex impiegato che per arrivare alla meta aveva speso sei anni della sua vita.
Il “Koyaanisqatsi” originale, completamente muto, aveva un forte messaggio naturista e al suono sempre più frenetico di Philip Glass ammoniva
senza usare una sola parola sui disastri della frenesia contemporanea.
Noi le parole le abbiamo usate e scelte tenendo conto che da Ballarò a Servizio pubblico, la rabbia neorealista aveva già un enorme spazio. Abbiamo scelto un sabato proprio perché gli italiani ci raccontassero la loro giornata privata senza ansie lavorative. E come negli Anni 70, abbiamo riscoperto che il privato è politico, che il gesto più rivoluzionario è cambiare il pannolino e che nel caos corrente, c’è una gran voglia di figli e di famiglia. Dietro la rabbia, comunque, in un mondo in cui non vivi neanche più per il presente, ma solo per rubare il secondo successivo, c’è sempre la richiesta di una vita dignitosa.
Qualcuno vi ha accusato di ritratto edulcorato. Di esasperato buonismo.
Abbiamo rispettato fedelmente le proporzioni del materiale che ci è arrivato, ma come dice Eisenstein, con il montaggio puoi fare quel che vuoi. Dipende da cosa metti dopo. È chiaro. C’è uno sguardo e c’è stata una scelta alla radice. Avrei potuto mostrare soltanto la depressione, ma sarebbe stato giusto? È una domanda che mi pongo sempre: ‘Qual è il compito del cinema?’. Quando non si tratta di finzione, sicuramente quello di restituire la realtà. Ma qui si parla di qualcosa di diverso. Sono messaggi in bottiglia, aspirazioni, desideri alti. Roba che non ho inventato io. Roba che esiste. E dentro Italy in a day ci sono dialoghi che nessun sceneggiatore sarebbe in grado di ricreare. Avrebbe paura del ridicolo. Si vergognerebbe.
Che Italia viene fuori dal suo ritratto?
Un paese distante dallo stereotipo dell’Italia tutta pizza e mandolino, con una maggioranza di persone che si ostina a vedere a ogni costo un po’ di luce. Non è buonismo né ottimismo forzato sul crinale dell’onda renziana del va tutto bene. Non è il riflesso tipico di una sinistra che di fronte alla sgradevolezza del reale gira la testa. È solo un punto di vista. Ma non è l’unico che ho sul mondo. In Come Dio comanda, a dominare la scena sono sguardo freddo, atmosfera sinistra e senso di morte.
C’era anche in “Io non ho paura”.
Forse il mio preferito. Non mi piace veramente fino in fondo nessun film che ho girato e non li rivedo mai. Amnèsia ha delle cose divertenti, ma non mi convince. Denti aveva un’idea forte, ma andò malissimo. Penso sempre che li avrei potuti realizzare meglio. A teatro funziona così. Vedi l’errore, lo metti a posto e il giorno dopo l’errore non c’è più.
Si fa cinema anche per narcisismo?
La frase di Woody Allen in Zelig vale come epigrafe collettiva: ‘Ma perché continui a cambiar faccia?’, gli chiedono e lui: ‘Perché voglio essere amato’. Voglio che i miei film siano visti esattamente come spero che si presenti a casa qualcuno quando ho cucinato per ore. E ho sempre cercato di fare un cinema che senza rinunciare a una richiesta espressiva, fosse tutto meno che elitario. Da anni sogno di girare una storia che possano vedere padri e figli senza che uno dei due dica ‘Che palle!’.
L’ha trovata?
Spero di esserci riuscito con Il ragazzo invisibile. Rampoldi, Fabbri e Sardo, i tre sceneggiatori, hanno lavorato per riportare un archetipo che affonda le sue radici nell’Odissea più vicino alle sensibilità contemporanee. Il nostro supereoe economico, un’idea del produttore Nicola Giuliano, ci ha permesso di giocare con i generi. Con lo sgomento di un predestinato. Nel trailer lo schermo è diviso in due. In una metà il protagonista scopre che c’è la vita normale e nell’altra, la tuta da supereroe.
È diviso in due anche il suo specchio?
Non più, faccio psicanalisi da quattro anni.
L’ha aiutata a cancellare i tatuaggi della sua vita?
Ne ho ancora qualcuno, fatto molti anni fa, ma a quel che ho fatto prima non penso tanto spesso. La psicanalisi mi aiuta. Parlo. Mi apro. Mi confido. Come accade a chi va a farsi tatuare nella tradizione russa e siberiana. Lì il tatuatore assiste e aiuta chi si va a far incidere la pelle. È un confessore. Tu gli racconti la tua vita e lui decide come disegnartela sul corpo. C’è qualcosa di bello in tutto questo, anche se spiegare esattamente cosa non saprei.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 12/10/2014