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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

GIUSTO CHE RIINA NON SIA ARRIVATO AL QUIRINALE

Del neo premio Nobel per la Letteratura, Patrick Modiano, è stato scritto (Montefiori sul Corsera) che è persona “dispiaciuta di fare delle affermazioni perché inevitabilmente si fa torto al loro contrario, e niente è mai chiaro, o facile, o liquidabile con poche frasi-sentenza”. Queste parole si adattano perfettamente anche al caso della testimonianza del presidente Napolitano nel processo “trattativa”.
Partiamo da una premessa ineludibile: nel nostro Paese lo stato di diritto ha alcuni problemi, ma la sua solidità è sostanzialmente buona. Robuste democrazie affrontano questioni difficili con metodi che noi non ci siamo neppure mai sognati, né mai potremmo pensare di applicare. Negli Usa, ad esempio, nel processo per associazione sovversiva contro Bobby Seale (1969), ogni volta che l’imputato prendeva la parola veniva imputato di oltraggio. Per farlo tacere il giudice Hoffmann lo fece legare a una catena e imbavagliare con nastro adesivo. Decine furono le condanne per oltraggio. Anche a carico degli avvocati di Seale. E dire che pure nelle nostre aule di giustizia, ai tempi delle più sanguinarie Brigate rosse, si posero problemi analoghi. Sempre risolti però con codici e pandette, mai con catene e nastro adesivo. Dunque, calma e gesso come sempre, anche nel caso che sta invece scatenando aspre polemiche e accesi commenti. Tutte le opinioni che sono state espresse al riguardo sono legittime, ma ciascuna è al tempo stesso discutibile. Pm, avvocati e giudici si sono – ognuno per la sua parte – attenuti al proprio ruolo. I Pm avevano chiesto la testimonianza del capo dello Stato e – una volta ottenutala – hanno coerentemente espresso il parere che dovesse svolgersi con modalità tali da non comportare il rischio (a loro giudizio prospettabile) di una qualche nullità. I difensori degli imputati che volevano intervenire personalmente hanno fatto il loro mestiere, sostenendo la richiesta dei propri clienti affinché non vi fossero asserite violazioni dei loro diritti. La Corte d’Assise ha fatto il suo dovere, assumendosi la responsabilità (cui è preposta per legge) di pronunziare la parola decisiva sulle questioni sorte. Ma in tutti i processi ogni valutazione su vicende incerte, o prospettate con versioni contrastanti, è “strutturalmente” opinabile. Di qui la necessità (per consentire alle parti e all’opinione pubblica di controllare la coerenza e l’attendibilità della decisione) di motivare il relativo provvedimento. Compito non facile – nel caso di specie – per la mancanza di precedenti e di norme che specificamente lo disciplinino. Ora, la motivazione della Corte d’Assise di Palermo a me sembra accettabile . Innanzitutto perché è coerente con la linea già tracciata al momento dell’ammissione della testimonianza. In secondo luogo perché basata su argomentazioni spendibili in punto di diritto e mai in conflitto col buon senso. L’Assise ha ragionato principalmente su due versanti: da un lato, l’eccezionalità del Quirinale, luogo in cui si deve svolgere l’atto processuale, eccezionalità derivante da precise immunità esplicitamente riconosciute anche dalla Corte costituzionale; d’altro canto, il fatto che la rappresentanza “in loco” ad opera dei rispettivi difensori appare sufficiente per non vanificare i diritti delle parti.
Ha quindi operato una equilibrata sintesi fra i due versanti, escludendo la presenza personale delle parti. Decisione che sembra ispirata fra l’altro alla saggezza del brocardo “summum jus, summa iniuria”. Perché – nel rispetto di principi fondamentali fra loro bilanciati e restando nel perimetro della legge – si sono di fatto stoppate insidie velenose. Vale a dire situazioni che avrebbero potuto essere strumentalizzate in maniera pesante per innescare effetti extra-processuali perversi, devastanti per la dignità stessa delle istituzioni.
Tutto sommato, la decisione dell’Assise – per quanto fisiologicamente opinabile – mi sembra sostenibile. In ogni caso è decisione, appunto, di una Corte d’Assise, cioè della più alta espressione di una amministrazione della giustizia riconducibile direttamente al popolo italiano. Alla decisione, infatti, hanno contribuito otto giudici, due togati e sei popolari, componente quest’ultima maggioritaria (e chi ha lavorato in un collegio giudicante ben ne conosce il peso).
Gian Carlo Caselli, il Fatto Quotidiano 12/10/2014