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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

SCANDALO ALLUVIONE

Alluvioni, paralizzate otto opere su dieci
Tra scartoffie burocratiche e ricorsi al Tar, i lavori si bloccano nonostante ci siano gli stanziamenti pronti E nel decreto Sblocca Italia spunta una via d’uscita: avviare i cantieri anche se scattano i ricorsi
FABIO TONACCI
ROMA .
Sul letto del torrente Bisagno che la burocrazia non ha voluto allargare giace l’Italia. Paese incapace di rattoppare il suo molle sistema idrogeologico persino quando l’Europa gli riempie le tasche di miliardi di euro. Miliardi, non milioni. Che nulla possono però contro lo sport nazionale dei secondi arrivati nelle gare d’appalto: il ricorso al Tar. E se non è il Tar è il Consiglio di stato, o la Corte dei Conti, o le Autorità di bacino, o le schermaglie tra sindaci che “la sicurezza dei fiumi sì, ma non nel mio comune”. Scartoffie bollate che cristallizzano l’Italia sulle proprie alluvioni.
Prendete le dieci più dannose degli ultimi cinquant’anni, l’Arno e il Tagliamento nel 1966, Genova, Sarno, il fiume Bacchiglione a Vicenza, le esondazioni del Seveso a Milano, Giampilieri, le Cinque Terre, Messina, Olbia lo scorso anno: nella metà dei casi i lavori di messa in sicurezza dei corsi d’acqua responsabili di morte e distruzione, sebbene già progettati e finanziati, non sono partiti, perché bloccati in qualche tribunale, incrostati in qualche contenzioso. Per l’altra metà, esclusi Giampilieri (150 milioni spesi per il consolidamento) e le Cinque Terre, nemmeno sono stati reperiti i soldi. Quindi per otto alluvioni su dieci non si è fatto niente.
5 maggio 1998, Sarno e Quindici, l’alluvione più tragica. Un pezzo di montagna si staccò e si portò via 160 persone. Si disse mai più, si promisero interventi, gli esperti stilarono il “grande progetto Sarno”, un sistema di casse di espansione, canali scolmatori e impianti di depurazione lungo il fiume. L’Europa ci ha messo i soldi: 247 milioni di euro. Ma da quelle parti non si muove una ruspa. Prima il Tar di Napoli, accogliendo il ricorso del “comitato no vasche” e del comune di Nocera Inferiore, ha concesso la sospensiva, rimandando a metà ottobre la discussione sulla validità del progetto. Poi il Consiglio di Stato, a luglio, è intervenuto togliendo la sospensiva, ma i bandi di gara per il “Grande progetto Sarno” non partiranno fino all’udienza del Tar. In questo batti e ribatti ci perdiamo tutti perché l’Europa si riprenderà i 247 milioni se non saremo capaci di utilizzarli entro il 2015.
Ed è ancora un ricorso al Tar, vinto da una famiglia nobile toscana, ad aver ritardato per quasi due anni l’apertura del cantiere a Figline Valdarno su una delle due casse di espansione (aree per le esondazioni controllate del fiume) che difenderanno Firenze dalle acque dell’Arno. In realtà, un intervento i fiorentini lo aspettano almeno dal famigerato 1966, ma un paio di anni fa si sono trovati i 25 milioni di euro necessari. Un privato, però, si è rivolto alla giustizia amministrativa perché la procedura d’esproprio del suo terreno era fatta male. Era vero, si era perso un foglio di un’autorizzazione. Morale: si è dovuto rifare tutto e solo dieci giorni fa si è cominciato a scavare la terra.
Mauro Grassi, che dirige la struttura di missione contro il dissesto idrogeologico della presidenza del Consiglio, la dice con una battuta: «Nelle società di costruzioni ci sono sempre più avvocati e sempre meno ingegneri ». Spiegazione: «Fare ricorso quando si arriva secondi o terzi a un bando di gara, in fondo, non costa niente. Il Tar concede quasi sempre la sospensiva, e nel caso di vittoria, è previsto un risarcimento per l’utile mancato, se non addirittura una nuova gara. E la documentazione da presentare per partecipare è talmente sostanziosa e complessa che un vizio di forma, una firma che manca, un pezzo di carta in meno, ci scappa sempre».
Ma del resto, quando si parla di dissesto, ogni provincia è Paese. A Milano quest’estate il fiume Seveso, una sorta di cloaca a cielo aperto, è straripato sette volte. Sette. Quello che c’è da fare, sul Seveso, lo sanno tutti da dieci anni, ma il comune di Senago non vuole la vasca di laminazione: protesta da anni e a luglio il sindaco Lucio Fois ha anche depositato un esposto alla Corte dei Conti. Trenta milioni stanno lì a ballare, sospesi. Già stanziati, ma non utilizzati. Come i 41 milioni per la sicurezza idrica del Tagliamento, che non vogliono spendere perché da 48 anni comuni veneti e comuni friulani si prendono a sberle su dove mettere le casse di espansione. O come i 7 milioni per il torrente Budello di Gioia Tauro, inutilizzati perché comuni e provincia di Reggio Calabria si sono dimenticati di emettere i loro pareri.
Gocce nel mare dell’incapacità italica impastata con la burocrazia. La struttura di missione governativa, di cui il renziano Erasmo D’Angelis è il responsabile, ha scovato nei bilanci dello Stato e delle Regioni 2,3 miliardi di euro già stanziati e mai usati per argini, casse di laminazione delle piene, consolidamenti. Se li sono tenuti in cassa, soprattutto in Campania e in Calabria, e adesso il governo punta a far aprire entro l’anno 650 cantieri per 850 milioni. Ma sono solo una parte delle 3.395 opere da portare a termine sotto lo slogan “italiasicura”.
«O si cambia alla svelta o si contano solo morti, danni e parcelle per team di giuristi e avvocati — dice D’Angelis — di fronte alla vittoria di un bando di gara, i cantieri devono partire. Senza se e senza ma. Bisogna trovare il modo di penalizzare i ricorsi a prescindere ». Ed ecco la novità che tenteranno di introdurre già nei prossimi giorni, in sede di conversione in legge del decreto Sblocca Italia. L’idea della struttura di missione per il dissesto con la collaborazione degli uffici giuridici dei dicasteri Ambiente e Infrastrutture è quella di estendere anche ai lavori di riassetto idrogeologico superiori ai 5 milioni di euro quel che già è previsto sotto quella soglia: in caso di contenzioso, il cantiere si apre lo stesso. «Prima si mettono in funzione le ruspe — chiosa D’Angelis — poi si valuterà se ci sono irregolarità amministrative nel bando di gara. Mai più deve ripetersi un caso Bisagno».
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