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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

ELIO GERMANO

[Intervista] –
ROMA
Elio Germano ha appena compiuto 34 anni e ha già vinto due di tutto: David, Nastri, Globi e Ciak, ma soprattutto ha vinto, non ancora trentenne, il premio per il miglior attore a Cannes ( La nostra vita). Lo stesso che avevano vinto Mastroianni, Volonté, Tognazzi, Gassman, Giannini, Cucciolla per Sacco e Vanzetti, di nuovo Mastroianni e Saro Urzì per Sedotta e abbandonata . Ha già lavorato due volte ciascuno con Salvatores, Luchetti, Vicari, Virzì, Veronesi. Ma anche con Scola, Vanzina, Crialese, Placido, Ozpetek, Paolo Franchi, Ivano De Matteo, Francesco Patierno, Luca Guadagnino. Tre generazioni di registi, uno spaccato rappresentativo del cinema italiano dal Duemila in poi. Ora (nei cinema dal 16) è Leopardi in Il giovane favoloso di Martone: non c’è dubbio che l’attore per primo lo consideri come un traguardo di grande ambizione, un’asticella più alta da saltare. Prima cosa, però, una domanda sulle occupazioni romane: il cinema America di Trastevere, il Teatro Valle, l’ex cinema Palazzo a San Lorenzo. Tutte situazioni nelle quali Germano si è esposto e speso. Tra loro diverse: quella di San Lorenzo non ha un’anima cinefila come quella dell’America ma si pone altri obiettivi di tipo più sociale, lo spazio del Valle è pubblico mentre quello dell’America è privato. C’è chi plaude alle loro ragioni e chi agli sgomberi. «Io vedo, e approvo, la cosa più importante. La socializzazione: il cogliere occasioni di scardinare il principio della compravendita. Il flusso di energie disinteressate e solidali che queste situazioni producono, il loro accanimento nel portare cultura dove non c’è più. Qua e là viene fuori la playstation? E allora? Annulla il valore delle mobilitazioni? Qualcuno si scandalizzava per il biliardino negli oratori o nelle sezioni comuniste? Mi chiedo come si faccia a non capire che queste cose sono sante. Che preservano un senso di collettività che si sta perdendo. L’occupazione illecita di spazio pubblico, semmai, è quella che governa la logica dei Teatri Stabili».
La compravendita non sarà il motore unico ma non è neanche tanto da disprezzare.
«C’è l’economia ma c’è anche la morale. E la soddisfazione personale del saper fare, e poi del donare. Nel mestiere di medico è più importante salvare vite o far vendere prodotti farmaceutici? Nel piccolo rivendico la bontà delle occupazioni in quanto spazi dove non c’è da comprare e vendere. Il segreto sta qui: mentre ci si abitua sempre più a essere clienti, in queste iniziative si partecipa e ci si mette a disposizione, non si è clienti. Come altri colleghi coltivo un impegno con i detenuti. Lo faccio perché da quell’esperienza prendo più di quanto do. Non capisco perché l’Italia debba diventare la Svizzera quando si tratta di punire l’irregolarità di iniziative come le occupazioni, mentre altrove si è capacissimi di chiudere un occhio. Senza capire che certe esperienze, magari improvvisate e ingenue, sono un investimento. E non vedo che contraddizione ci sia tra fare il mestiere di attore e lavoratore dello spettacolo, ed essere cittadino e dunque partecipare da cittadino. Ma forse dobbiamo parlare di Leopardi...».
Parliamo di come si sposano preparazione tecnica e coinvolgimento emotivo, confronto con la biografia e con l’opera di questa figura reale, e interpretazione. O bisogna dire anche invenzione?
«Diciamo per cominciare che io credo in questo: l’attore è una spugna che prima assorbe (si prepara) e poi restituisce. Ed è funzionale soltanto quando, alla fine, sparisce: la recitazione non si vede e diventa tutt’uno con il ruolo. Deve risultare come a un lettore un libro che gli piace e lo prende proprio perché la scrittura non si sente. Così l’attore ti fa vivere, entrare, ti apre finestre, in questo caso sulla poesia di Leopardi. Ma non devi sentire lui e la sua interpretazione. Tra l’altro non mi soddisfa la parola italiana “recitare”, il francese dice jouer e l’inglese play. Credo che l’attore debba guardarsi prima, quando si prepara, ma che non debba guardarsi mentre interpreta: deve essere. Ci sarò riuscito, con Leopardi?».
Si sente la passione investita nell’entrare in questo eccezionale personaggio. Sul quale la scuola ha formato in tutti noi un cliché, e sul quale pesano le idee che tutti ci siamo fatte a proposito della sua deformità.
«Lo so. Il vero Leopardi, quello che a Napoli chiamavano ranavuottolo, per quanto ne sappiamo, con l’avanzare delle malattie era probabilmente una specie di mostro. Ma è anche vero, e noi abbiamo molto contato su questo, che appena parlava incantava tutti. La mia interpretazione è certamente passata per il corpo, il suo corpo. Parte di un’accumulazione e di un bagaglio che comprende naturalmente i suoi testi. Poi la selezione. Alla fine sono io che scelgo tra i suoi gesti e le sue parole. E a proposito della deformità: la progressione del suo accorciarsi e rannicchiarsi io l’ho vissuta senza vedermi, lo vedo solo ora a posteriori».
Insomma quale sarebbe il succo del suo modo di essere attore e di essere Leopardi?
«Il presupposto è lanciarsi. Rischiare l’errore. Pensare il meno possibile».
Applicato a questo caso?
«Altro presupposto: cominciare con il sapere che si poteva affrontare Leopardi solo in modo parziale. Il materiale è enorme. Non il materiale biografico ma di vita interiore espressa attraverso la sua opera. Giacomo, con la sua enorme voglia di vivere, era uno scienziato dell’anima. E dico che il film è riuscito perché è così aperto. Perché va lì dove lui ha abitato: l’anima, non la realtà. Perché è un film libero. Aggiungo, un po’ è una battuta e un po’ no, che poteva essere un fantasy. Come Il signore degli anelli . E mi sono messo dentro lui e gli ho dato carne e l’ho vissuto come un bambino che quando legge i fumetti s’immedesima e vuole essere l’eroe».
Aggiungiamo pure che tra i rischi c’era in agguato quello della caricatura e del ridicolo.
«Di più: l’interpretazione, la libertà d’invenzione, dovevano esercitarsi su parole scritte e conosciute (potrei dilungarmi sull’ansia da prestazione nel dare voce a L’Infinito ), come fosse Shakespeare. Ma ci viene in soccorso una verità: la natura del cinema, proprio come il patrimonio che ci ha lasciato Leopardi, è quella di affrontare il reale attraverso le illusioni. Sono entrambi viaggi nella libertà».
Una parola su Monaldo, il padre, che appare diverso da come lo abbiamo sempre immaginato. Soffocante ma per amore.
«Monaldo è come quei padri di oggi che seguono ossessivamente i figli alla scuola calcio...».
Paolo D’Agostini, la Repubblica 11/10/2014