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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

PATRIZIO OLIVA “DA PUGILE AD ATTORE ECCO COME NON MI SONO ARRESO MAI” “LE MIE VITTORIE FUORI DAL RING”

Ci sono storie che sembrano inventate, vergate dalla fantasia degli scrittori. Quella di Patrizio Oliva è esattamente una di queste, dove la realtà supera la fantasia, incastrando il puzzle come neppure il migliore sceneggiatore avrebbe saputo fare. «Per questo ho voluto il libro, che io peraltro non riesco a rileggere, proprio non ce la faccio. Vorrei fosse un messaggio per i giovani, questi giovani intrappolati dalla crisi e da loro stessi. È che arrivi ad un certo punto della vita e senti che devi lasciare qualcosa, un indizio per non smarrire la via maestra».
Da lontano sembra una classica storia di pugilato e di riscatto sportivo e sociale. Lo è, ma nel caso di Oliva non c’è violenza o vendetta. Nonostante «quando mi allenavo scorrevano davanti ai miei occhi le lunghe file per le vaccinazioni, le persone che reclamavano una vita migliore, le voragini in strada dopo un’alluvione, le rapine, la mensa dei bambini proletari, le sigarette di contrabbando, il mare inquinato, le fogne collassate, i giorni del colera».
Ma, per una volta, come Patrizio dixit, il destino ha deciso una trama diversa, il cui finale probabilmente è ancora da scrivere. «La mia storia conferma che c’è sempre un’altra scelta, un’altra possibilità. Lo dico ai ragazzi di oggi, troppo esaltati».
Una cosa è sicura, leggendo la biografia di Patrizio Oliva ( Sparviero, Sperling & Kupfer, in uscita martedì 14 ottobre): siamo di fronte al racconto di un personaggio unico, sicuramente irripetibile. E non vi è dubbio che il fato si sia “sfiziato” con lui, per usare un termine caro alla città d’ambientazione, Napoli. Sebbene la scena madre sia quella di una campagna calabrese, Polistena. Dove vive una famiglia di contadini fino al giorno in cui il fratello maggiore (il nonno di Patrizio) sorprende una delle due sorelle con uno sconosciuto. Affronto insopportabile che finisce nel sangue, con l’abbandono della propria terra.
MA dove finisce la famiglia Oliva? A Napoli (piuttosto che Reggio Calabria, o Catanzaro, o la Sicilia). È qui che nasce Patrizio Oliva — e soltanto molti anni dopo apprenderà appieno la tormentata storia familiare del padre — crescendo insieme ai suoi fratelli, sette, ammucchiati nella stessa stanzetta di Poggioreale, uno sopra l’altro. Ma non è certo la mancanza di spazio a rovinare sogni e buonumore di un ragazzino che ancora oggi è rimasto scugnizzo, nel senso più meraviglioso del termine latino (il cui significato letterale è rompere con forza): curioso della vita, appassionato, voglioso di fare oltre i propri limiti.
Un libro che ha poi un valore aggiunto, scritto da uno zio e da un nipote (Fabio Rocco Oliva, bravissimo), diventato man mano un album alla ricerca delle origini della famiglia stessa e del loro riscatto. «Avrei potuto farlo con chiunque altro, ma avevo biso- gno di qualcuno che mi capisse al volo, intimamente, che tirasse fuori il sangue della famiglia ».
E chi se non il figlio di Pietro, il fratello silenzioso della famiglia? Solo così, di fronte ad uno di famiglia, Patrizio Oliva ha potuto mettersi a nudo con più facilità, tirare fuori dalla pancia le sofferenze dei primi anni di vita, i ricordi di un padre all’inizio violento — preso e intorcigliato dai legacci e dai retaggi calabresi (quei famosi fatti di Polistena, il paese natìo) — e poi recuperato, catarticamente, grazie ai successi sportivi di un figlio. Solo così il flashback è apparso sopportabile: «Io rivedo ancora tutto come fosse ieri, le immagini della mia vita, che è stata come avevo sognato, sono troppo vivide».
Dei sette fratelli lui è quello diventato campione olimpico e mondiale.
Quello più inatteso che oggi, con Primo Carnera e Nino Benvenuti, è ancora presente nell’immaginario popolare degli appassionati di boxe e non soltanto.
«Quando combattevo in televisione avevo lo stesso share della nazionale di calcio».
Il destino, ironico, ha preteso il bimbo più gracile — per farne un campione dello sport più virile — e a otto anni, attraverso una foto-ricordo, gli ha regalato la via di Damasco. La foto del fratello Mario (il vero pugile della famiglia all’epoca) che ispira il piccolo Patrizio davanti a uno specchio. Un ragazzino dalle idee chiare, che non vuole «il sangue lo vogliono gli altri. Io no, voglio il bello. Non temo i pugni altrui, né la morte. L’ho già vista negli occhi di mio fratello e da allora la sua vita è nelle mie mani». Eccolo, l’interprete moderno della tradizione pugilistica più vera, «quella della nobile arte descritta dai grandi letterati del passato». Radici antiche, ereditate da un ragazzino di otto anni. A Napoli.
E allora, se è questo che sei, se è questo che hai in testa, «non puoi essere solo un atleta in cerca di medaglie e di riscatto personale». Patrizio Oliva ha capito, voluto e accettato il peso di essere emblema, simbolo, icona. Ancora oggi, trent’anni, non ha cambiato il suo approccio alla vita. È ancora in cerca. «Io mi informo, telefono e chiedo alle federazioni degli altri sport di indicarmi le loro giovani promesse. E cerco di aiutarli scrivendo articoli, organizzando eventi per destare attenzione, segnalarne i meriti». Solo questa sua atipicità lo ha aiutato nel sopravvivere alle difficoltà familiari, all’andirivieni del padre dalla casa e, soprattutto, alla perdita di Ciro, il fratello più talentuoso della famiglia.
«Era mancino, tirava punizioni di calcio a foglia morta come Mario Corso. Per non apparire piagnone non disse mai nulla ai miei, e quando scoprimmo la malattia fu troppo tardi». Un’amputazione (della gamba) non poteva battere il cancro, a quei tempi. L’addio di Ciro avrebbe potuto spaccare la famiglia, ma a mia madre e mio padre ho ricordato «come al profondo dolore segue sempre la gloria». Accelera le energie, la soglia della sfida, l’andare oltre, non appagarsi mai. Il non lasciarsi andare. «La vita di Ciro è risorta nei miei guantoni».
Il viaggio di Patrizio Oliva è parte della storia di Napoli. Un figlio che la ama e la difende. « Questa città non è il mostro che dipingono, che vogliono far credere. Ogni cosa qui è amplificata, Napoli fa da capro espiatorio alle altre città, maschera le magagne dell’Italia».
Una maschera, come quella che gli ha ritagliato il regista Capponi, felice d’aver trovato «il Pulcinella perfetto, cercato per trent’anni». Un ruolo teatrale trovato casualmente durante una partita di calcio per solidarietà, e per il quale non ha avuto bisogno di corsi di recitazione. «La mia naturalezza, il mio essere hanno convinto il regista ». Eccola di nuova, l’unicità di Patrizio Oliva. Che è stato anche cantante, commissario tecnico dell’Italia. Mille mestieri, mille luci: sembra la Napoli di Pino Daniele, più o meno suo coetaneo, descritta nei suoi dischi. Camorra compresa, che ha provato a sfiorarlo, ma che ha saputo schivare manco fosse sul ring.
«Vorrei che Gomorra non avesse avuto il successo che ha avuto. Perché alla fine ti ritrovi a fare il tifo per dei cattivi, ragazzi definiti boss a 15 anni. Non va bene, proprio no». Lo scugnizzo di 55 anni, l’uomo che s’è diplomato per scommessa (con la figlia), che ama leggere e divorare qualsiasi pagina gli finisca sotto mano, ancora si indigna. Ancora ha progetti. La biografia andrà aggiornata.
Paolo Rossi, la Repubblica 11/10/2014