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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

L’INFERMIERA DELLA MORTE CHE AMAVA SCATTARE SELFIE CON LE SUE VITTIME

Chissà se è lei l’ultimo «angelo della morte», come le chiamano da quando riempiono le cronache delle loro terribili tristezze, perché una delle prime che scoprirono, Michaela Roeder, lo faceva per pietà, nell’ospedale di Wuppertal, Germania Ovest. Sono quasi sempre donne, infermiere, una volta anche una suora. Daniela Poggiali, 42 anni, è un’infermiera a Lugo di Romagna ed è stata arrestata con l’accusa di aver ucciso Rosa Calderoni, che era entrata in ospedale per un disturbo da poco ed era uscita soltanto per l’ultimo viaggio. Ma da sei mesi magistrati e carabinieri indagano su di Daniela Poggiali anche per altre 38 morti, «dieci delle quali molto sospette», come sottolinea con il lapis rosso il procuratore capo di Ravenna, Alessandro Mancini. Per ora sono solo indizi, anche forti, ma nient’altro.
Certo che se è davvero lei l’ultimo angelo con la falce, non c’è pietà, questa volta. Nell’ordinanza di custodia cautelare viene definita addirittura «una che gode della morte». Un giorno è arrivata a farsi fotografare da una giovane collega davanti al corpo senza vita di un paziente, con il pollice alzato, come facevano i soldati quando tornavano da una battaglia vinta. Per questo entrambe sono state licenziate il 29 luglio di quest’anno. Eppure i vicini di casa dicono che «è una donna molto gentile» e qualcuno di loro racconta che l’hanno sempre vista aiutare gli altri.
La verità è che l’indagine era partita il 10 aprile 2014 proprio su una denuncia della sua Ausl: la morte di Rosa Calderoli, ricoverata per un lieve disturbo e stroncata da un composto di cloruro, simile al veleno utilizzato per le esecuzioni capitali negli Usa, era sembrata subito assurda. Troppo potassio nel sangue, qualcosa non quadrava. E nell’inchiesta sono finiti anche tre medici, che forse qualcosa sospettavano.
E poi i rapporti dell’ospedale con Daniela Poggiali non erano proprio idilliaci. Ora su di lei pendono altre accuse, per dei furti: avrebbe rubato una sportina di medicine per circa 600 euro, e altre 150 euro alla badante di un malato, che ha detto di aver riavuto indietro i soldi solo dopo averla accusata. Lei si difende dicendo che sono calunnie delle colleghe: «Io dico quello che penso in faccia, e ho bisticciato con loro». Loro, le colleghe, avrebbero insinuato che cacciava sempre via tutti i parenti dalle stanze, e forse lo faceva per spogliare le sue vittime. L’immagine che dà se ci parli assieme, a primo acchito, è diversa.
Ieri, quando i carabinieri sono venuti a prenderla, è rimasta algida e impassibile, senza una parola, mentre scendeva le scale della palazzina popolare alla periferia di Lugo, con le sue mura trasandate e le sedie e i giochi dei bambini abbandonati nel cortile scalcinato, stretto fra la campagna e il paese che comincia davanti, oltre la strada. Non c’era nessuno a guardarla andare via.
In ogni caso non sono tutti così, gli angeli della morte, duri e freddi, come sembra Daniela Poggiali. Sonya Caleffi, cinque morti accertate all’ospedale di Lecco, è una figura solitaria e melanconica che leggeva Paulo Coelho, e come il personaggio di Veronika, che decide di morire, aveva tentato di togliersi la vita un mucchio di volte, prima di passare ai pazienti. Al processo disse: «Mi dispiace molto per quello che è successo, e chiedo perdono, se è possibile. Non volevo che finissero così, quei pazienti. Io praticavo quegli interventi perché mi piaceva che tutti accorressero in tempo per salvarli». Da adolescente era anoressica e soffriva di depressione. Ora,in carcere, dice che va tutto bene fino alle sei di sera, quando non c’è più il lavoro e non puoi più fingere di essere normale, di avere una vita come gli altri. Waltraud Wagner, Lainz General Hospital, Vienna, invece cominciò a uccidere i suoi vecchi malati con overdose di morfina, poi preferì farli affogare nell’acqua perché così non lasciava prove. «Mi sono divertita a giocare a Dio tenendo premuto il potere di vita e di morte nelle mie mani». Aveva 23 anni quando uccise la prima volta, e continuò fino a 29. Convinse altre tre colleghe a partecipare a questa strage: Maria, Irene e Stephanija. Non le avrebbero mai scoperte, forse, solo che una volta qualcuno le ascoltò in una taverna a tirar giù pinte di birra e a vantarsi delle vittime che dipendevano da loro.
Non sappiamo se Daniela Poggiali ha qualcosa di queste, la follia, o la disperazione di Michaela Roeder, e il suo senso della vita come una sconfitta. Lei diceva: «Non riuscivo a vederli soffrire. Per questo li aiutavo a morire».
Pierangelo Sapegno, La Stampa 11/10/2014