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 2014  ottobre 11 Sabato calendario

QUEL GAP NON SI CHIUDE

A poco più di sei anni dal default di Lehman Brothers c’è ancora qualcosa che non funziona nel sistema bancario globale e condiziona la ripresa in molte aree geografiche, a cominciare dall’Europa. Il modo più sintetico per capire di cosa si tratta è guardare il grafico in pagina, che confronta il rendimento sul capitale di 300 grandi banche mondiale con il ritorno atteso degli investitori. Ne emerge che, nonostante il tempo passato dall’apice della crisi, il buco di redditività del sistema è ancora ampio: più grande è il divario tra roe e costo del capitale, meno le banche sono capaci di attrarre capitali e fare credito per supportare l’economia. Il problema è finito sotto la lente del Fmi, che nel rapporto sulla stabilità finanziaria globale ha sottolineato: «Le banche devono cambiare il modo in cui operano per assicurare di poter creare e mantenere riserve di capitale senza assumere rischi eccessivi, tali da soddisfare la domanda di credito».
Il gap tra roe e costo del capitale è un problema diffuso: riguarda banche che detengono l’80% dell’attivo globale. Quali sono le ragioni del divario? Innanzitutto vanno analizzate le cause che hanno frenato il roe, che è lievemente salito rispetto ai tempi di Lehman Brothers ma fatica a salire sui livelli pre-crisi, ancora molto lontani. Indubbiamente pesano ragioni legate al ciclo economico: lo sanno bene le banche in Italia, dove la recessione prosegue e colpisce tanto gli utili che la qualità dell’attivo. A livello globale, però, il calo della redditività è stato in gran parte il prezzo da pagare per rendere il settore più sicuro. Dopo la crisi gli istituti hanno scelto modelli di attività meno rischiosi, quindi meno redditizi. Inoltre hanno rafforzato il capitale, che è il denominatore nel rapporto roe (return on equity).
A fronte della flessione strutturale della redditività rispetto agli anni pre-crisi c’è stato un aumento del costo del capitale, ovvero del rendimento che gli operatori di mercato chiedono per investire nelle banche: questo valore viene calcolato aggiungendo ai rendimenti risk-free un premio per il rischio sulla base di alcuni modelli matematici (come il capital asset pricing model). Secondo le stime di Bloomberg, dopo un aumento nel 2010 il costo del capitale di 300 grandi banche è sceso al 13%: un valore che però è ancora superiore di circa il 5% al livello pre-crisi e al roe attuale. Il costo del capitale continua a mantenersi elevato perché riflette la preoccupazione per gli utili futuri, l’opacità dei bilanci bancari, le possibili multe in arrivo così come l’incertezza sull’impatto della nuova regolamentazione.
Come uscire da questa situazione? Dopo una fase durata alcuni anni, nella quale le banche si sono concentrate sulla solidità, ogni istituto sta cercando ora la strada per tornare a una redditività più vicina alle attese di mercato. La tabella a pagina 16 mostra le mosse di alcuni dei principali istituti in Europa e negli Stati Uniti. Naturalmente non c’è una ricetta buona per tutti, ma ci sono tre elementi comuni nei piani industriali. Innanzitutto, molte banche globali stanno uscendo o riducendo le attività sul capital market, in particolare nel ramo Ficc (reddito fisso, valute e materie prime). Solo poche grandi investment bank potranno mantenere una presenza rilevante in queste attività. In secondo luogo, la maggior parte dei grandi istituti si sta spostando da modelli di attività capital-intensive a settori più basati sulle commissioni, come l’M&A, l’asset management o il private wealth management. Infine, le maggiori banche stanno riducendo la presenza internazionale e si stanno focalizzando sull’attività commerciale nei mercati domestici e regionali dove possono vantare una posizione di leadership. «Le banche hanno molto più capitale rispetto a prima della crisi, ma molti istituti non hanno un modello di business sostenibile», ha osservato il Fmi. Secondo l’organismo guidato da Christine Lagarde, non sono in grado di spingere la ripresa banche globali che detengono il 40% degli asset (70% in Europa). Questi istituti «hanno bisogno di una riorganizzazione più profonda, che includa il repricing di linee di business esistenti, la riallocazione del capitale, il consolidamento o il ridimensionamento delle attività». Secondo il Fmi, l’esame Bce dei bilanci bancari nell’Eurozona «fornisce un importante punto di partenza per questi cambiamenti tanto necessari nei modelli di business». Si vedrà cosa accadrà dopo il 26 ottobre, quando saranno comunicati i risultati di asset quality review e stress test. Per il Fondo di Washington, le banche dell’area euro sono quelle che hanno più bisogno di ristrutturarsi. E i gruppi italiani? Secondo Andrea Maechler, vice capo della divisione mercati monetari e dei capitali del Fmi, «hanno effettivamente rafforzato i bilanci e siamo in attesa dei risultati delle valutazioni complessive della Bce. Chiaro che devono affrontare dei venti contrari, come la scarsa domanda. Al tempo stesso, il livello delle sofferenze è ancora alto». Mentre l’Italia deve fare i conti con una ripresa che non arriva, a livello globale secondo il Fmi «c’è squilibrio tra un’assunzione insufficiente di rischi su consumi e investimenti, mentre crescono gli eccessi nei rischi finanziari che possono minare la stabilità in futuro, come mostrano i valori elevati di diversi asset finanziari». Di conseguenza c’è un nuovo squilibrio globale: non c’è sufficiente assunzione di rischi a sostegno della crescita, ma ci sono crescenti eccessi nell’assunzione di rischi finanziari, soprattutto nelle zone ombra del sistema, più opache e meno regolate.
Francesco Ninfole, MilanoFinanza 11/10/2014