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 2014  ottobre 10 Venerdì calendario

QUEGLI AGENTI DIVENTATI PADRINI IN CELLA


Quattro torri grigie, di cemento e di sbarre, con un piano profondamente nero. Dove non comandava più lo Stato ma una gang incredibile di guardie e detenuti, pronta a tutto. Il Due Palazzi di Padova è sempre stato un carcere modello, ma con una crepa profonda. Non più quella che venti anni fa permise a Felice Maniero, il re della mafia del Brenta, di uscire dal portone principale distribuendo mazzette e minacce. La trama che ha trasformato le celle di massima sicurezza in un supermarket di droga e privilegi è storia recentissima, smascherata nello scorso luglio grazie alla caparbietà di altri funzionari onesti. Che si sono trovati a fare i conti con una banda tanto organizzata quanto spietata. Finora tra guardie penitenziarie e reclusi sono state arrestate quindici persone mentre altre cinquanta sono indagate. Ma l’indagine del pm Sergio Dini potrebbe allargarsi, a partire dal suicidio di un agente alla vigilia dell’interrogatorio e di un detenuto che aveva cominciato a collaborare.
Quella dei Due Palazzi è una struttura costruita negli anni Sessanta, tutto sommato in buone condizioni. Trecento tra agenti e impiegati custodiscono 870 condannati, tra cui una settantina di ergastolani. Negli ultimi anni è diventato un laboratorio per offrire una prospettiva diversa ai reclusi: dalla cooperativa Giotto (vedi box) alla squadra di calcio Pallalpiede che partecipa ai campionati regolari fuori dalle mura. Insomma, qualcosa di molto diverso dalla pessima fama di quel sistema carcerario che ha fatto condannare l’Italia più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ma la luce di queste iniziative non arrivava al quinto piano. Lì a dettare legge erano “il Grande Capo”, “il Condor”, “Bambolo”, “‘u Cafone”, “il Pittore”, soprannomi finiti nelle intercettazioni e poi identificati dalla Squadra Mobile. Agenti che potevano far entrare in cella ogni genere di droga, ma anche cellulari e computer perfetti per continuare a dirigere le attività criminali anche dal carcere. E gli abbonati al servizio non erano figure di secondo piano: da Gaetano Bocchetti, uno dei padrini dell’Alleanza di Secondigliano che ha dominato lo spaccio nelle piazze di Napoli, a Cristian Pepe e Ivan Firenze, boss di rilievo della mafia salentina. Persino un criminale di guerra serbo era riuscito a farsi consegnare un telefonino mentre Sigismondo Strisciuglio, il viceré di Bari Vecchia, si consolava con l’hashish, mai meno di un etto per volta.
A gestire la rete, stando all’accusa, Pietro Rega: assistente capo della polizia penitenziaria, anzi “il Grande Capo” come lo chiamavano i suoi affiliati. Il graduato era già finito sotto processo a Napoli nel 2001, con un’incriminazione dei magistrati antimafia per i favori concessi ai camorristi detenuti. Con l’assoluzione in appello era arrivato il reintegro in servizio e il trasferimento a Padova. In breve nell’istituto veneto ha trovato compari in uniforme, che consumavano e vendevano droga. «Si vedeva benissimo che erano fatti», ha messo a verbale uno dei testimoni. Sniffavano persino durante i turni di vigilanza. Già, ma nessuno li ha fermati. Nonostante «il generale atteggiamento di spregiudicata complicità tra i vari agenti indagati», scoperto dall’inchiesta.
La figura più surreale è quella di Pietro Giordano, “il Pittore”: una guardia che aveva ambizioni da pornodivo. Con amiche compiacenti girava filmini erotici casalinghi. Un diversivo prezioso per chi è obbligato a vivere tra le sbarre: i video dell’agente hard core sarebbero stati venduti ai reclusi, assieme a ecstasy, eroina, cocaina. Lo scorso agosto, poche settimane dopo la retata, la procura l’ha convocato per un interrogatorio. Ma la sera prima della deposizione i suoi colleghi l’hanno trovato sul pavimento dell’alloggio, vicino al Due Palazzi, con la gola tagliata: si sarebbe suicidato con una lametta.
Invece Giovanni Pucci era un detenuto con un compito speciale: poteva muoversi nella prigione per servire i pasti o consegnare i viveri acquistati nel negozio interno. La gang lo aveva ingaggiato per distribuire i suoi prodotti, che poteva smerciare senza provocare sospetti. Poi a luglio quando sono cominciati gli arresti ha deciso di parlare con i pm. C’è stato un pestaggio: pugni e calci per convincerlo a tacere. Un avvertimento che non lo ha intimidito: il 24 luglio davanti al pm Dini ha messo a verbale nomi e cognomi. Il giorno dopo è stato trovato morto in cella, impiccato con una cintura.
«All’inizio è stata un’istruttoria difficile», spiega a “l’Espresso” un investigatore: «Una diffusa omertà rendeva impermeabile l’ambiente». Poi, una volta scattate le manette, sul tavolo della procura sono arrivate decine di lettere firmate da reclusi che chiedevano di essere ascoltati. Ma in tanti continuano a trincerarsi nel silenzio: «Non siamo infami, non parliamo» hanno replicato agli inquirenti. Vendette e minacce sono frequenti. Neppure il trasferimento in un altro penitenziario è servito a proteggere uno dei detenuti che ha accettato di deporre: «nelle carceri italiane le voci corrono veloci e anche nella nuova sede è stato subito etichettato con il marchio di spia».
Per scardinare la cupola del Due Palazzi è stato necessario l’intreccio di due istruttorie. Una nata in città da un giro di piccoli spacciatori, l’altra della procura antimafia di Lecce su alcuni boss pugliesi che continuavano a dirigere i clan anche dalla prigione veneta. Le perquisizioni hanno permesso di sequestrare una manciata di telefonini nascosti nelle celle. Il primo passo per ricostruire il catalogo hi-tech offerto dai secondini corrotti: smartphone, dispositivi usb, hard disk. L’evoluzione telematica dei pizzini. Ad esempio, i due capi salentini Pepe e Firenze sfruttavano i computer - messi a disposizione dei detenuti nelle aule didattiche - per mantenere il controllo della famiglia criminale. Con una delle chiavette fornite dalla gang riuscivano a entrare su Internet: su Facebook avevano creato alcuni gruppi chiusi, riservati agli altri boss ancora sul territorio. Così con pochi click venivano informati sugli affari del clan e potevano trasmettere ordini. Un sistema quasi perfetto per mantenere lo scettro, senza dovere ricorrere alle complesse gestualità durante i colloqui con i parenti e senza neppure rischiare intercettazioni telefoniche. Pure il camorrista Bocchetti si era accaparrato un cellulare e un hard disk, per uso personale. Un servizio riservato ai vip, che costava parecchio caro. Per gli altri, la gang aveva inventato un call center in subappalto: gli agenti consegnavano gli apparecchi a detenuti romeni e albanesi, che li prestavano in cambio di soldi o altre regalie. In pratica, tutti potevano telefonare.
La droga però era il business più lucroso. «Oggi facciamo festa», era l’annuncio che apriva l’asta degli stupefacenti. Con una variante: se era disponibile soltanto il metadone allora lo slogan diventava «Il metano ti dà una mano». La banda poteva procurare di tutto. «Una volta Rega aveva un sasso di eroina. Mi disse che erano 90 grammi», ha raccontato Fabio Zanni, uno dei pentiti: «Quando aveva la droga lo faceva sapere agli altri anche tramite me, poi quando ne faceva uso perdeva un po’ il controllo e diceva tutto a tutti».
C’era un marketing molto efficace per incentivare i consumi: «La prima volta ti veniva regalata una riga di eroina o una canna e ti veniva detto: “Tieni fai festa”. Così da quel momento capivano che eri diventato loro cliente». Il pagamento avveniva in contanti o attraverso vaglia postali inviati alla moglie di Rega. In altri casi, invece, i pusher del quinto piano si facevano saldare in natura, cioè con pillole e altri narcotici consegnati sia all’esterno dai complici dei detenuti sia dai reclusi stessi. Anche Zanni dopo l’avvio delle indagini è finito nel mirino della banda, che si è data da fare per spingerlo a tacere. Ha detto di essere stato picchiato più volte, in un caso personalmente dal “Grande Capo” in uniforme: una mossa preventiva, nel tentativo di garantire l’impunità della squadra deviata.
Le provviste avvenivano in città. C’era un fornitore principale, chiamato “l’Uomo Nero”, a cui si rivolgeva la gang penitenziaria. Spesso gli agenti andavano da lui a fare compere in uniforme, riempiendo le tasche di cocaina, eroina, allucinogeni o metadone. In alcuni casi, si fingevano malati e si assentavano dal servizio per rimpinguare le scorte. E questo è il nuovo fronte dell’inchiesta, meno inquietante dello spaccio e della corruzione, ma comunque pesante: l’assenteismo dal reparto, con l’ipotesi di truffa allo Stato. Che non riguarderebbe soltanto i membri della pattuglia deviata.
«Fatti gravi», scrive il giudice negli ordini d’arresto, «soprattutto perché vanificano la finalità rieducativa della pena sancita dalla Carta costituzionale: i detenuti sono addirittura sollecitati a commettere ulteriori crimini dopo essere stati agganciati con offerte di dosi di stupefacenti, proprio da quei soggetti che dovrebbero controllarli e rappresentare lo Stato italiano all’interno della struttura».
«È una brutta pagina da archiviare al più presto», osserva il direttore della casa di reclusione Salvatore Pirruccio, che chiosa:«Il Due Palazzi non è quello descritto negli atti della magistratura. È altro. È lavoro, è opportunità di reinserimento, è la squadra di calcio Pallalpiede che milita in un campionato della Figc. Un episodio non può cancellare il grandissimo lavoro fatto in questi anni. Per questo abbiamo dato il nostro contributo alle attività della Squadra mobile». Insomma, per il direttore si tratta solo di un pugno di mele marce. Quelli che il giudice ha definito«soggetti privi di qualsiasi senso del dovere come dimostrano le false malattie inventate, l’uso personalistico dei mezzi di servizio e il fatto di recarsi a comprare la droga addirittura in divisa».
Il responsabile del penitenziario non è preoccupato nemmeno per i possibili sviluppi delle indagini sul filone dell’assenteismo. «Per noi è tutto formalmente in regola», spiega: «abbiamo sempre inviato le visite mediche ispettive, e credo che non ci sia una situazione molto diversa da quelle delle altre amministrazioni pubbliche, qui da noi i permessi per malattia sono nella media, non superano la soglia del 4,5 per cento».