Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

LA SENTENZA SU DE MAGISTRIS DURISSIMA: CON LE INTERCETTAZIONI ILLECITE «ERA IN CORSO UN PREORDINATO DISEGNO DI ELUDERE LE PREROGATIVE COSTITUZIONALI, DI REALIZZARE L’EVENTO DEL REATO SENZA CURARSI DELL’INUTILIZZABILITÀ PROCESSUALE DEI DATI DI TRAFFICO»


Nell’inchiesta «Why not» condotta dall’allora pubblico ministero Luigi de Magistris «risulta che il fine principale perseguito non fosse la ricerca della prova, bensì l’uso strumentale delle tecniche d’indagine telefonica in danno dei parlamentari e a fini privati, d’inserimento nel cosiddetto “archivio Genchi” e d’ulteriore trattamento non autorizzato». È questo il motivo principale che ha convinto i giudici del tribunale di Roma a condannare lo stesso de Magistris e il consulente Gioacchino Genchi a un anno e tre mesi di reclusione per abuso d’ufficio. E così aprire la strada alla sospensione dalla carica di sindaco di Napoli poi sancita dal prefetto.
Le 97 pagine con le quali il collegio ricostruisce il processo terminato il 24 settembre scorso sono un durissimo atto d’accusa per i metodi utilizzati nelle indagini svolte quando era in servizio presso la Procura di Catanzaro. Lui reagisce in maniera altrettanto forte: «È una sentenza ingiusta, intrisa di violazioni di legge a iniziare dalla competenza».
Nell’elenco delle parti civili ci sono numerosi politici: Sandro Gozi, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Francesco Rutelli e Giancarlo Pittelli. Secondo il tribunale «i due imputati hanno perseguito pervicacemente l’obiettivo immediato e finale di realizzare la conoscibilità dei dati di traffico dei parlamentari, non chiedendo l’autorizzazione alla Camera di appartenenza pur di acquisire con urgenza i tabulati, viene desunta non da meri sospetti e illazioni, ma proviene da un contesto univoco, comprovante l’intesa raggiunta e la messa in atto di una violazione comune e consapevole delle disposizioni di legge».
I giudici sono dunque convinti che de Magistris sapesse a chi appartenevano i numeri di telefono sui quali aveva deciso di svolgere accertamenti. E per sostenerlo citano l’interrogatorio dello stesso ex pm che aveva spiegato come la sua idea fosse che «l’analisi dei tabulati dovesse andare di pari passo con l’analisi dei flussi economico-finanziari». Per questo ritengono che «la lettura complessiva dell’intero compendio probatorio dimostra come gli elementi a carico sono dotati di tale certezza e intrinseca valenza indicativa da perdere l’ambiguità che avrebbero se isolatamente considerati».
Ai due imputati il collegio attribuisce ruoli diversi ma complementari: «Il pm era dominus delle indagini in assoluta autonomia quanto a scelte investigative, puntualità delle deleghe, strategie da perseguire; il consulente come massimo esperto informatico creatore di un sistema operativo di indubbia efficienza e decisività, accreditata ancor prima dalle esperienze professionali note, di spiccato intuito investigativo».
La conclusione è lapidaria: «Era in corso un preordinato disegno di eludere le prerogative costituzionali, di realizzare l’evento del reato senza curarsi dell’inutilizzabilità processuale dei dati di traffico illegittimamente acquisiti pur di arrivare a conoscerli».