Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

EBOLA, DA NOI POTREBBE SUCCEDERE QUELLO CHE È ACCADUTO A MADRID? UN FINTO MALATO METTE ALLA PROVA L’OSPEDALE SPALLANZANI DI ROMA

Ebola, paziente 0. Quello che da noi non c’è e si spera non ci sia mai. Ma che ieri ha bussato alle porte dello «Spallanzani» di Roma, insieme al «Sacco» di Milano l’ospedale centro di riferimento nazionale per Ebola. Una simulazione per capire se veramente da noi non possa ripetersi quello che è accaduto a Madrid. A guidarci è Nicola Petrosillo, primario della seconda divisione malattie infettive. Uno che Ebola l’ha vista con i propri occhi in Africa.
Ci dirigiamo verso l’accettazione. Fossimo arrivati dall’Africa occidentale in condizioni gravi ci avrebbe portati qui un’ambulanza di bio-contenimento. Intubati su una barella avvolta da un telo di plastica con «braccia» guantate, che consentono di maneggiare il contagiato senza alcuna possibilità di contatto. Ma il paziente 0 accusa solo una febbre insistente e citofona all’accettazione. Non ci aprono ma un infermiere inizia a rivolgerci delle domande. Da dove veniamo, se abbiamo avuto contati diretti con persone con virus conclamato, quali sintomi accusiamo. Dalle risposte capiscono che il rischio c’è. Ci invitano a citofonare a una seconda porta. Aprono, nessun paziente in sala d’attesa perché qui l’isolamento è totale. Entriamo nella stanza, un lettino e un tavolo a due metri di sicurezza dove un medico e un infermiere specializzato ci accolgono con mascherina e guanti già calzati. Iniziano nuove domande. Prima tra tutte se dall’ultimo contatto con una persona infetta sono passati più di 21 giorni. Perché quello è il periodo di incubazione del virus, che prima non si può rilevare, non dai sintomi e, fortunatamente, non si trasmette. Parte il prelievo del sangue per i test su Ebola e malaria. Il responso arriverà entro 6 ore. Nel frattempo veniamo invitati e seguire medico e infermiere sempre a più di due metri di distanza, lungo un percorso blindato dalle guardie giurate dell’ ospedale che bloccano il passaggio ad altri ricoverati e al personale sanitario. Arriviamo in una stanza disadorna e pressurizzata per evitare fuoriuscita di aria. La numero 13, alla faccia della scaramanzia. Ce ne sono altre due in un’ala dell’ospedale per il resto deserta. Un letto, un piccolo armadio, un tavolino, un bagno. «Poche cose per rendere meno complessa la sterilizzazione dopo il nostro passaggio».
Il test dice che è Ebola. Scatta la fase 2. Questa volta i medici e gli infermieri che entrano sembrano usciti dal film «Virus letale» con Dustin Hoffman. Tuta integrale bianca, che lascia visibile solo una piccola parte del viso, coperta comunque da mascherina e occhiali protettivi. Alle mani gli immancabili guanti. Fossimo stati in condizioni più gravi saremmo finiti in una delle stanze super-isolate della terapia intensiva, dove i sanitari, così incappucciati, prima di uscire da una porta del bagno in tuta si fanno la doccia a base di ipoclorito di sodio. Varechina insomma. Perché il momento della svestizione è quello più pericoloso se non si è sterilizzato tutto con cura. Ma il caso è meno grave. Restiamo nella stanza numero 13. Terapie non ci sono, ma si procede con antibiotici ad ampio spettro, sostanze idratanti, farmaci anti vomito. «Tutte cose che nel 70% dei casi aiutano a uscirne vivi» garantisce Petrosillo. Così è per il «nostro» paziente 0, che dopo 3 settimane può tornare a casa. Senza virus e senza averlo trasmesso. Si spera.
Paolo Russo, La Stampa 9/10/2014