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 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

COME VIVERE DI RENDITA? PER CAPIRLO SEGUIAMO LA VITA DI QUELLI CHE CI SONO RIUSCITI, COME AD ESEMPIO I TOP MANAGER

"Se potessi avere mille lire al mese”, cantava l’Italia a fine anni ’30. Oggi con quella cifra (l’equivalente di cinque euro) non si va molto lontano. Il numero dei nostri compatrioti che vivono - o potrebbero vivere - di rendita e campando alle spalle del proprio patrimonio, però, si misura ormai a cinque zeri. Quattrocentoquattro fortunati ce l’hanno fatta investendo solo un euro: hanno comprato una schedina del Win For Life, sono stati baciati dalla dea bendata e si sono portati casa una vincita di 3mila euro al mese per vent’anni. Sono solo la punta dell’iceberg. L’esercito dei ricchi tricolori continua a crescere, malgrado la crisi: nel Belpaese c’erano nel 2013 oltre 203mila persone (28mila più dell’anno precedente) con un patrimonio superiore al milione di euro, calcola Cap Gemini. Cifra che parcheggiata in Btp a 10 anni garantisce da sola interessi netti per oltre 1.700 euro al mese. Un Olimpo dorato al cui apice ci sono tremila individui il doppio rispetto alla media europea - seduti su tesoretti personali superiori ai 22 milioni. Veri e propri Paperoni, per dirla alla Disney. Rentier, come li ha ribattezzati l’economista francese Thomas Piketty, in grado di vivere (in teoria) senza lavorare. Figli naturali - dice lui - di una società “dove il capitale rende più del lavoro” e dove il mondo dei super-ricchi sta cambiando volto. Polverizzando tra mille eredi i tesori delle dinastie industriali del ‘900, aprendo le porte alle new-entry del terzo millennio - milionari della turbo-finanza, manager strapagati e guru delle professioni protette - ma aumentando, invece che diminuirle, le distanze tra chi ha di più e chi di meno.
LA BORSA DELLE FORTUNE L’Italia non fa eccezione: «I grandi patrimoni tricolori sono in buona parte in tasca alle grandi famiglie imprenditoriali. Parliamo di persone che sul conto in banca hanno decine e decine di milioni – conferma Patrizia Misciattelli, presidente dell’Associazione italiana family office, le piccole banche private che gestiscono queste fortune –. In effetti, però, nel mondo della rendita hanno iniziato ad affacciarsi nuove figure». «Sono i working riches, i ricchi che lavorano — li chiama Maurizio Franzini, professore di politica economica alla Sapienza di Roma —. Capaci oggi di accumulare cifre importanti in tempi brevi grazie alla scarsità di concorrenza di alcuni mercati o nella nebbia del mondo grigio delle conoscenze e delle relazioni”.Piazza Affari è il serbatoio più prolifico di questi nuovi Creso. Ogni anno le aziende quotate in Borsa sfornano almeno un centinaio di milionari. Sessanta top manager del listino milanese guadagnano più di due milioni l’anno, qualcosa come 5.500 euro al giorno. Solo in IntesaSanpaolo - ma è più o meno lo stesso per le altre banche - ci sono 82 dirigenti che si dividono una torta di 41 milioni. L’amministratore delegato di una società quotata, calcola R&S Mediobanca, prende uno stipendio pari a 48 volte quello di un dipendente. Multiplo che sale a 84 se cumula pure la carica di presidente. Bruscolini, certo, rispetto alle 331 volte dei numeri uno di Wall Street. Quanto basta però - tra busta paga, bonus e stock-option - per regalare un bottino da 400 milioni di euro l’anno agli uomini d’oro di Palazzo Mezzanotte. In grado, volendo, di smettere di lavorare dall’oggi al domani visto che il loro stipendio annuo medio (4 milioni) investito titoli di stato decennali basterebbe a garantir loro una rendimento di 7.500 euro al mese.«L’Italia su questo fronte vive un paradosso — dice Franzini —: cerchiamo di rendere più competitivo il mercato del lavoro incentivando la concorrenza verso il basso tra chi guadagna meno. E non ci rendiamo conto di come il mondo protetto dei supermanager generi rendite di posizione dorate ». Ultimo esempio, la maxibuonuscita (dalla Ferrari) di Luca Cordero di Montezemolo, un assegno da 13 milioni e un vitalizio ventennale da 58mila euro al mese.
DINASTIE E PROFESSIONISTI I working riches, ovvio, non sono ancora riusciti a scalzare le grandi famiglie come gli Agnelli e i Berlusconi dalla cima della hit parade dei rentier: i nove rami dinastici degli eredi dell’Avvocato si sono spartiti negli ultimi cinque anni una rendita di 150 milioni in dividendi della cassaforte di casa. L’ex-Cav e i suoi cinque figli - pur non avendo incassato una cedola negli ultimi tre anni - hanno in banca un miliardo di dividendi Fininvest messo da parte tra il 2005 e il 2010. Dietro di loro però - oltre alle star di Borsa - stanno scalando la classifica dei rentier i titolari delle fortune legate alla proprietà intellettuale (i litigiosi eredi di Lucio Dalla, per dire, si spartiscono un jackpot di 500mila euro l’anno solo in diritti d’autore) e i “Maradona” delle professioni. «Le vere rendite dei secoli scorsi erano in capo ai latifondisti per la scarsità di terra — racconta Franzini —. Oggi le facciamo crescere generando scarsità artificiale con barriere all’ingresso di mercati e mestieri». Un esempio? I grandi avvocati d’affari - un giro di soliti noti da sempre spina dorsale del nostro capitalismo di relazioni - si mettono in tasca ogni anno cifre milionarie. I notai guidano la classifica degli studi di settore con redditi medi tra i 233mila e i 404mila euro.
IL REBUS FISCALE Chi più ha più paga, vorrebbero le regole elementari di giustizia sociale. Invece no. Proprio i “titolari di grandi patrimoni”, certifica Banca d’Italia con buona pace di Piketty, hanno una tendenza quasi patologica a sfuggire al radar del fisco con “l’83,7% di rischio di evasione Irpef“. Qualcuno - va detto - riesce a dribblare l’erario in modo trasparente formando trust o investendo in strumenti finanziari che consentono legalmente di ridurre l’imposizione. Chi bara, anche se non capita proprio spessissimo, rischia di finire nella rete dell’Agenzia delle Entrate. Come è successo ad Angiola Armellini erede dell’omonima famiglia di costruttori - accusata (ha chiuso la partita con un assegno da 47 milioni) di non aver dichiarato per anni la proprietà di 1.243 immobili. L’Europa spinge da tempo perché l’Italia sposti dal lavoro ai grandi patrimoni il carico fiscale. Un percorso iniziato con l’aumento al 26% dell’imposizione sui capital-gain. Una cosa è certa. La metamorfosi dell’identikit dei Paperoni non ha contribuito a distribuire in modo più equo gli 8.452 miliardi custoditi (tra case, titoli e conti correnti) nei portafogli degli italiani. «Le differenze invece di assottigliarsi sono cresciute» dice Franzini. Il 10% delle persone più ricche - conferma Banca d’Italia ha in tasca il 46,6% di questa cifra. «E l’1% al vertice della piramide controlla il 9% dei beni nazionali», calcola il professore della Sapienza. Meno del 21% degli Stati Uniti, dove la finanza e l’hi-tech hanno concentrato molto nelle mani di pochi. Un fenomeno però in costante peggioramento: il coefficiente di Gini - più è alto maggiore è la forbice delle ricchezze - è salito nel nostro paese dal 45 del 2004 al 62,3 del 2010 fino al 64 del 2012. Il patrimonio medio dei lavoratori autonomi tricolori, fatta 100 la media italiana, è cresciuto dal 153 del 2010 al 213 del 2012 (dato Banca d’Italia) mentre quello dei lavoratori dipendenti è sceso da 90 a 72. I soldi, nell’era dei rentier, generano soldi: dal 2009 ad oggi si è gonfiato solo il tesoretto degli italiani tra i 55 e i 64 anni - i più ricchi - balzato da 114 a 125 su 100 e quello degli ultra64enni pensionati (da 98 a 112). Nello stesso periodo il conto in banca degli under 34 è calato da 99 a 89. L’Italia, in fondo, è davvero un paese per vecchi.
Ettore Livini, la Repubblica 9/10/2014