Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

«PER LA CGIL L’IDEOLOGIA CONTA PIÙ DEI LAVORATORI»


È il centauro del sindacato. Il fondista delle trattative aziendali. Ruggisce come le sue moto, specie se gli si chiede di parlare di Renzi. Raffaele Bonanni da Bomba, provincia di Chieti, classe 1949, dopo aver guidato la Cisl per otto anni e mezzo, si è rottamato con un anno d’anticipo. I pensionati vanno ai giardinetti. Lei invece si darà al karaoke. È vera la storia del megaimpianto stereo nella sua taverna? «Tutto vero. Canto con i miei amici nel tempo libero. E suono anche. Ma cantavo già prima di entrare nel sindacato. Da ragazzo avevo una band in Abruzzo. Ci chiamavamo “I Re della valle”». Nome ambizioso. Il leader era lei? «Sì. Io ero il cantante e suonavo la chitarra. Genere Otis Redding, rhythm and blues". Sindacalista, cantante, chitarrista. Che altro? «Harleysta. A 20 anni comprai una Harley Davidson che ho ancora. C’andai fino in Germania». Con la fidanzata? «No, con gli amici. Le fidanzate all’epoca le trovavo per strada». La sua prima tessera sindacale? «Entrai nella Cisl a tempo pieno nel ’73». Perché proprio la Cisl? «Era l’unico sindacato che non ti chiedeva appartenenze partitiche». Per chi votava allora? «Per il Psi. Ma non mi sono mai piaciuti i partiti». Si è discusso tanto dei rapporti tra le confederazioni negli anni di piombo. Come erano veramente? «Ci sono sempre stati contrasti, perché la Cgil era forte espressione della sinistra, mentre la Cisl, pur rappresentando l’area moderata, aveva provveduto da tempo a rendere incompatibili le cariche sindacali con quelle di partito. Ma i sindacati confederali furono molto compatti dinanzi all’attacco brigatista, che veniva anche da dentro». C’erano frange terroristiche anche nella Cisl? «Sì, pure da noi c’era qualche delegato che dialogava con le organizzazioni terroristiche. Qualcuno addirittura ne faceva parte. Furono tutti espulsi». Da manovale edile studiava già da leader della Cisl? «Ero un attivista sindacale, quindi tenevo un rapporto forte con la gente. Ma non lavoravo a tempo pieno per la Cisl, figuriamoci se pensavo di guidarla». Il suo primo sciopero? «Lo organizzai nel 1972 da delegato Cisl nel cantiere della superstrada di Val di Sangro. Non ci davano le scarpe antinfortunistica e non c’era la mensa». Lei deve tutto a Sergio D’Antoni. «Ho lavorato sin dall’inizio nella sua squadra. La mia esperienza sindacale è strettamente legata alla sua». È lui il suo idolo? «Sarò banale, ma il mio modello è stato sempre il fondatore della Cisl, Giulio Pastore. Uno che non aveva paura di dire verità scomode, come “guai a quel lavoratore che prende un salario superiore a ciò che si può permettere l’azienda”». Quindi è a Pastore che lei ha rubato il motto «non ci sono lavoratori se non ci sono le aziende». «Certo. Se crolla l’azienda, viene meno il posto di lavoro e crolla quindi anche il salario. L’imprenditore è prima di tutto un lavoratore». Che fa adesso, parla come Renzi? «Queste cose io le dico da tempi in cui era pericoloso sostenere la linea degli accordi aziendali. Renzi non esisteva neanche quando siglammo l’accordo con la Fiat. A Torino per poco non mi dettero fuoco. In Piazza del Popolo, a Roma, quando dissi “una, cento, mille Pomigliano”, mi urlarono di tutto». Lei è stato uno dei grandi difensori della concertazione. Al punto da venire accusato di essere troppo prono verso il governo. «Si deve avere il coraggio di essere impopolari se questo serve a risolvere i problemi del Paese. La Cisl lo fu 30 anni fa, sfidando l’opinione pubblica sulla scala mobile. Abolendola poi nel 1992 la tenaglia dell’inflazione si spezzò. La concertazione è indispensabile per far fronte a crisi come quella attuale, in cui ognuno deve rinunciare a qualcosa. Questo non vuol dire essere proni. Anzi: significa portare a casa risultati». Quanti accordi ha fatto senza la Cgil? «Molti. E mai perché io volessi andare contro la Cgil. Erano spesso loro che non erano disposti a conciliarsi con gli altri». Ha avuto spesso l’impressione che la Cgil dicesse “no" perché metteva l’ideologia prima della tutela dei lavoratori? «È capitato a volte. In un caso fu proprio eclatante, quando con Prodi, nel 2007, siglammo l’intesa su tasse e pensioni. Mi colpì che il premier offrì soluzioni senza chiederci nulla in cambio. Epifani, però, disse “no” lo stesso». Con quali motivazioni? «Si appellò al programma dell’Ulivo e rinfacciò a Prodi di non rispettarlo. Un atteggiamento, mi dispiace dirlo, da militante politico, non da leader sindacale». Crede che la Cgil sia stata un freno per il Paese? «Sì, è indubbio che la Cgil può aver ostacolato in questi anni la crescita dell’Italia». Renzi dice che il sindacato «deve cambiare». «Tutti devono cambiare, non solo il sindacato. Ma il fatto che chi governa oggi scarichi per puro opportunismo tutta la colpa sul sindacato mi sembra veramente un atto becero, offensivo anche della democrazia». Per questo lei ha lasciato la guida della Cisl? «Sono abituato ad avere un altro rapporto con il governo. Non mi ero mai trovato in una situazione in cui le rappresentanze sindacali fossero così poco considerate. Ho lavorato sempre per trovare soluzioni insieme agli altri e non me la sono più sentita di andare avanti. Poi, avendo guidato la segreteria dal 2006, proprio perché è giusto cambiare, volevo dare discontinuità alla Cisl e ho indicato Anna Maria Furlan per la successione». Insomma, per lei è andata meglio con Berlusconi che con Renzi. «Con Berlusconi e Sacconi ci si è sempre confrontati in modo leale. Il governo alla fine cambiava la sua posizione e il sindacato pure. Quando Renzi si rifiuta di incontrare le rappresentanze, naturalmente mortifica i lavoratori, ma anche la sua funzione di premier». Com’erano le trattative col Cav a Palazzo Chigi? «Berlusconi si comportava come ogni vero leader moderato d’Europa. Aveva le sue opinioni, ma capiva che con il sociale doveva raccordarsi. Ci sentivamo rispettati. Era così anche con Prodi e Letta, e persino con Monti». A Elsa Fornero, ministro di Monti, si deve la tragedia degli esodati. «Ha commesso un grave errore per la presunzione di poter agire senza i sindacati». Martedì vedrete Renzi. «La Cisl è pronta da tempo con le sue proposte. Ma sia chiaro che non siamo scolaretti e non andiamo lì a prendere lezioni. Finora Renzi si è sempre rifiutato di vederci. In tutta Europa non c’è leader istituzionale che non pratichi il dialogo sociale. Renzi, invece, non solo non si confronta con le rappresentanze, ma fa di tutta l’erba un fascio sui sindacati. C’è una evidente deriva personalistica». Ma il premier ha ragione o no quando dice di voler riscrivere l’articolo 18? «L’articolo 18 è stato riscritto efficacemente da Monti due anni fa con il nostro contributo. Prima di intervenire nuovamente ci portino i dati di quanti lavoratori hanno avuto il reintegro con una sentenza: sono pochissimi casi. Alle aziende non importa nulla dell’articolo 18. È la politica che lo usa in maniera ideologica come uno specchietto per le allodole». Con Poletti, attuale ministro del Lavoro, come vi trovate? «Con lui abbiamo fatto un buon lavoro. A differenza di Renzi è una persona equilibrata, che riconosce il valore delle rappresentanze». Per la guida dell’Inps si è fatto a lungo il suo nome. Poi il Rottamatore, per venire incontro all’opposizione interna, ha designato Treu, che ha 10 anni più di lei. «Io non sono mai stato candidato all’Inps e Treu è uno dei miei maestri. Ha una grande esperienza, che è quello che serve in questo momento». Come tutti i sindacalisti in disarmo, anche lei si butterà in politica. Con chi? «Il problema non esiste. Resterò nei paraggi, ma continuerò ad occuparmi di sociale». Non scenderà in campo? «Perché, scusi, oggi esiste un campo politico?».