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 2014  ottobre 01 Mercoledì calendario

GIORNALISMO, LA STARTUP NON VA

Le startup sono una delle ragioni del successo che Internet ha avuto negli ultimi venti anni. Piccole società diventate colossi, come Google, Facebook o Twitter, sono alla base della profonda trasformazione che il web ha portato in quasi ogni attività umana, con un meccanismo di rottura degli schemi che gli americani chiamano
disruption. Ma c’è un ambito che al momento sembra offrire alle startup solo fallimenti: il giornalismo. Tre nuove iniziative partite dagli Usa sembrano confermare la tesi.
Sono giorni complicati per un terzetto di personaggi della Rete, Nate Silver, Glenn Greenwald e Ezra Klein, e per le imprese in cui si sono lanciati. Silver è il giovane esperto di numeri e statistiche che nel 2012 aveva stupito tutti, dal suo blog sul New York Times, azzeccando ogni previsione sull’esito delle elezioni presidenziali. Dopo il trionfo, Silver ha rotto con il quotidiano accusandolo di essere troppo radicato nelle pratiche del «vecchio» giornalismo. Grandi attese hanno accompagnato la sua nuova impresa, il sito FiveThirtyEight.com (538, il numero dei «voti elettorali» necessari per la Casa Bianca), dedicato a informare attraverso l’analisi di dati e statistiche. Ma UsaToday ha appena rivelato che i vertici di Espn – il network sportivo che ha sostenuto la creatura di Silver – considerano ormai l’avventura «un disastro» per mancanza di traffico, pubblicità e interesse dei lettori.
Fatica invece a decollare The Intercept, l’iniziativa editoriale che Greenwald ha deciso di lanciare dopo aver lasciato il britannico The Guardian sulla scia della fama conquistata per il caso dell’ex agente della Nsa Edward Snowden, di cui il giornalista e blogger è stato l’interfaccia mediatica. Greenwald ha ricevuto i finanziamenti del miliardario Pierre Omidyar, il fondatore di eBay, che intorno a lui ha costruito una startup giornalistica, First Look Media. Obiettivo dichiarato: portare una profonda disruption nel mondo dell’informazione. Dopo dieci mesi di progetti e annunci, però, Omidyar adesso frena e ridimensiona le aspettative su First Look Media, mentre Greenwald stenta a trovare un proprio percorso che lo traghetti oltre il grande scoop su Snowden.
Non decolla neppure Vox.com, la testata creata da Klein, che ha lasciato il Washington Post promettendo di rivoluzionare il modo in cui viene narrata la politica.
Quando si tratta di media, le startup faticano a diventare grandi. Le eccezioni sono rare. Ha funzionato The Politico, ormai diventato una solida organizzazione giornalistica che si appresta anche a sbarcare in Europa alleandosi con gli «old media» del gruppo tedesco Axel Springer. Funziona Buzzfeed, che però si vanta di essere in primo luogo una società tecnologica avanzata che si occupa di giornalismo. E poi funzionano realtà come la francese Mediapart, il cui modello è stato raccontato su La Stampa domenica da Cesare Martinetti: giornalismo «vecchia scuola», caccia alle notizie, niente pubblicità e contenuti a pagamento sul web. Una ricetta che assomiglia più al Financial Times o alle testate del gruppo News Corp di Murdoch, che all’idea di una web company basata su traffico e social media.
Non stupisce quindi che i protagonisti mondiali della politica e dell’economia vadano in pellegrinaggio nella Silicon Valley a visitare le società più innovative, ma poi quando si tratta di media finiscano per recarsi sempre nelle redazioni del New York Times, Wall Street Journal, Bloomberg o The Economist (come nel caso di Matteo Renzi in questi giorni), percependoli ancora come i luoghi capaci di influenzare l’agenda e il dibattito internazionale.
Un effetto positivo però le startup del giornalismo lo stanno ottenendo, anche quando non riescono a decollare: sono diventate laboratori di idee che ora vengono raccolte e sviluppate nelle redazioni «tradizionali», portandovi una ventata di innovazione.
Marco Bardazzi