Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 01 Mercoledì calendario

LE MANI DEL CALIFFO SUL GREGGIO L’IRAQ REAGISCE, TOCCA ALLA SIRIA


C’è una seconda guerra nella guerra che sconvolge Iraq e Siria. Non è certo nuova in Medio Oriente: da circa un secolo si chiama «guerra del petrolio». La sua centralità è stata ricordata sin dal terzo giorno di bombardamenti aerei della coalizione internazionale guidata dagli americani contro la dozzina di pozzi e raffinerie gestiti dallo Stato Islamico a sud di Raqqa e nel deserto attorno a Deir ez Zor (in Siria). Attentati agli oleodotti, raid aerei e battaglie campali come quelle per la raffineria di Beiji sono eventi quotidiani. I governi di Bagdad e Damasco mirano a controllare il territorio. Gli americani invece distruggono le infrastrutture che contribuiscono all’economia dei jihadisti sunniti. Le autorità irachene temono più che mai l’inasprirsi della guerra del petrolio da quando, ormai quasi un anno fa, si resero conto che dall’altra parte del confine il governo siriano l’aveva già persa, con esiti gravissimi per tutta la regione.
Arrivando tra le raffinerie e gli oleodotti di Kirkuk se ne comprende bene il significato. Ai primi di giugno le avanguardie jihadiste dalla città di Mosul puntarono velocissime su questo che è il polo petrolifero più importante del nord Iraq. Quando fu poi evidente che l’esercito regolare non reggeva arrivarono i peshmerga: da allora la città e l’area petrolifera sono annesse alla regione autonoma curda. In pochi giorni Bagdad perse il 10 per cento del suo prodotto. Un incubo per Haidar al Abadi. Il nuovo premier iracheno sa bene che perdere i propri centri petroliferi significherebbe la bancarotta. L’export dell’oro nero assicura infatti oltre il 90 per cento delle entrate dello Stato. E i potenziali sono immensi. Le riserve sono stimate a 140 miliardi di barili: se fossero ben sfruttate, questo che è oggi il settimo Paese produttore al mondo potrebbe superare i russi e sfiorare l’export saudita.
Bagdad mira quindi a rilanciare le esplorazioni con la speranza di giungere ad estrarre 12 milioni di barili al giorno. Per adesso però le strutture obsolete e le incertezze regionali costituiscono limiti invalicabili e ciò nonostante la massiccia presenza delle grandi compagnie straniere. Shell, Total, Bp, Gazprom, Lukoil, ExxonMobil, Cnpc, Eni hanno progressivamente ricominciato ad operare in Iraq dopo la caduta del regime di Saddam Hussein 11 anni fa. Nel 2013 la media quotidiana di barili estratti era stata 3,08 milioni; nel primo semestre del 2014 è salita a 3,32. Al netto del consumo nazionale, l’export quotidiano medio è di 2,5. E sino ad ora la capacità estrattiva non è stata praticamente intaccata dalle battaglie contro lo Stato Islamico. «I nostri centri petroliferi sono concentrati nel Sud sciita, dove le milizie sunnite non sono mai arrivate. E l’export avviene tramite i terminali di Bassora, nel Golfo. In maggio abbiamo raggiunto il risultato massimo di 2,58 milioni di barili esportati. Ad agosto c’è stata una lieve flessione e siamo scesi a 2,3 ma la guerra non c’entra. Il brutto tempo sul mare ha frenato l’attività delle petroliere», minimizzano al ministero del Petrolio di Bagdad. Presso i pozzi di Zubair, poche decine di chilometri a nord di Bassora, opera anche l’Eni (in cooperazione con americani e coreani), che controlla il 33 per cento della produzione di 200 mila barili quotidiani.
Completamente diverso è però lo scenario siriano, dove oggi l’aviazione alleata opera indisturbata. Se sino al 2010 qui le capacità estrattive superavano i 385 mila barili quotidiani e rappresentavano oltre un quarto del budget per il regime di Bashar Assad, oggi i militanti dello Stato Islamico si sono impadroniti delle regioni petrolifere principali e controllano gran parte dei pozzi. Nel caos, le capacità estrattive, oltreché di raffinazione e trasporto, si sono ridotte. A Damasco sostengono che sarebbero scese al 10 per cento di quelle precedenti l’inizio delle rivolte nel 2011. Tuttavia, i media regionali e gli esperti del settore stimano che prima dei bombardamenti alleati della settimana scorsa la produzione e raffinazione artigianale del greggio in loco valessero circa 100 milioni di dollari al mese e costituissero le entrate principali per le finanze dell’auto-proclamato «Califfato». Questi fondi sarebbero gestiti direttamente da Abu Omar al Shishani, noto capo militare delle brigate jihadiste locali.
La svolta per lui e i suoi uomini è avvenuta pochi mesi fa, quando sono riusciti a sconfiggere in combattimento i miliziani islamici del gruppo siriano Al Nusra e soprattutto le varie tribù locali, che con lo sfaldamento dello Stato centrale avevano assunto il controllo dei pozzi sul loro territorio. Così, per esempio, attorno a Deir ez Zor la resa della tribù degli Al Ghedat aveva portato al controllo sui pozzi di Al Malah, con l’annessa raffineria elettrica. Non lontano erano stati presi i pozzi di Al Omari, che garantivano 30 mila barili al giorno. Lo stesso è avvenuto nella regione di Raqqa, dove è situata la capitale amministrativa dello Stato Islamico. L’assassinio dei leader della tribù dei Granij aveva permesso di mettere le mani su altri 1.500 barili. Un bottino tutto sommato ricco, ma anche controverso: pare infatti che una parte di quel greggio sia comprato tramite intermediari in Turchia e Libano dallo stesso regime di Assad. Non stupisce che i jihadisti cerchino di allargare la produzione. Da settimane mirano a conquistare anche i pozzi di Remilan (produzione stimata 90 mila barili al giorno), che si trovano nelle zone dei curdi siriani presso il confine con l’Iraq.