Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 01 Mercoledì calendario

SI DICE PADRONE O IMPRENDITORE?

Con un occhio rivolto alla tenuta del governo e un altro all’abolizione dell’articolo 18, nel Partito democratico il signor padrone dalle belle braghe bianche non va più chiamato «padrone», ma «imprenditore». E gli imprenditori, ha chiarito con serenità il segretario- presidente nel corso dell’ultima direzione, «non sono dei padroni, ma dei lavoratori» e comunque «la sinistra si candida a rappresentare anche loro». Per la verità domenica sera, nel salottino di Fazio, Renzi si era spinto ancora più in là: «Se l’imprenditore deve fare a meno di alcune persone – aveva premesso – siccome l’imprenditore non è uno cattivo...». Siccome: sintomatico inciso.
Ora, sulla naturale benevolenza della classe imprenditoriale, così come sulla sua congenita malvagità, ciascuno pensi un po’ quello che gli pare. Tant’è che ieri sul blog di Grillo, dove pure i riferimenti alla lotta di classe non è che abbiano gran diritto di cittadinanza, a sorpresa è comparso un post intitolato: «Il ritorno dei padroni».
Ma certo quando D’Alema nel suo intervento ha usato quel termine, più di un renziano è insorto e lui stesso ha dovuto poi emettere una messa a punto. Dopo di che il democratico Soru, nella doppia veste di politico e imprenditore, ha potuto twittare: «I padroni lasciamoli nel secolo scorso».
Eppure, fino a tre anni fa, non suonava così improprio sostenere che l’Italia era guidata dal governo alla cui testa c’era appunto un padrone, con tanto di conflitto d’interessi acclarato e manifesto. Del padrone archetipico, a cominciare dal physique du role, Berlusconi aveva moltissimo se non tutto: istinto, sveltezza, sensibilità, rapinosa insolenza, perfino i gusti, e infatti mai si sarebbe definito in tal modo; anzi, con una congrua dose di furbizia e d’ipocrisia gli seccava addirittura che chi lavorava nelle sue aziende fosse qualificato come suo «dipendente». Preferiva «collaboratore», nel lessico del Cavaliere, insomma, il padrone non esisteva proprio. Ma in quello della sinistra pre-renziana ancora sì.
Adesso, dopo la militanza, la falce e martello e l’appellativo «compagno» dovrebbe finire malinconicamente al museo anche il termine che designava gli avversari storici, i capitalisti, ma al tempo stesso la parola comprendeva qualcosa di più. Un’idea ben radicata nel profondo della storia e dell’immaginario da cui riemergeva in forma di canzoni («Sciùr padrùn», appunto), letteratura, poesia, arte visiva, basti pensare alle vignette di Scalarini sull’ Avanti! o in seguito ai quadri di Maccari, che come Grosz raffiguravano padroni grassi e tronfi, con il cilindro in testa e il bavero di pelliccia, recando cannoni e ciminiere sotto il braccio.
L’origine del vocabolo padrone, oltretutto, è antica e nobile, viene dal latino medievale, «patronus». Nel corso dei secoli l’hanno usata Dante e San Bernardino da Siena, nei «Promessi sposi» se ne trova un uso fantastico, quando di un personaggio minore scrive Manzoni che il prima possibile aveva capito che ai padroni «bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano fare del gran male e del gran bene». Le ricadute, in termini di potere, valgono anche oggi. Da un lato la dignità, dall’altro il servilismo.
Inutile attardarsi sugli innumerevoli automatismi della pubblicistica marxista, così come sulle ottuse litanie scandite dall’ultrasinistra. Senza alcuno scandalo nel 1994 Occhetto parlò di padroni in tv, poco dopo Prodi disse che non ne aveva, mentre l’ex sindacalista Bertinotti finì per trovarseli sul divano in qualche salotto. Ed erano padroni, francamente, più che imprenditori.
Il politically correct made in Renzi pretenderebbe di cancellare, in nome della post-politica, un conflitto che molto a fatica si riesce a considerare estinto. Lontano da qualsiasi paturnia collettivistica, ma deciso a dimostrare le complicità degli imprenditori con il fascismo, alla metà degli anni 50 Ernesto Rossi pubblicò «I padroni del vapore» dedicandolo a Carlo e Nello Rosselli.
C’è forse in quel testo più di quanto gli innovatori lessicali renziani potrebbero aspettarsi. Ma leggere costa pur sempre fatica – e da che mondo è mondo i padroni preferiscono governanti ignoranti per farsi meglio gli affari loro.