Marco Belpoliti, La Stampa 30/9/2014, 30 settembre 2014
TATUAGGI. IL DIRITTO ALLA PAROLA DEL CORPO
Il corpo parla, non può fare a meno di farlo. Parla attraverso i gesti, le posture, le espressioni del viso, gli abiti. Tutto in noi è linguaggio, che gli altri decifrano mediante i segni intellegibili che appartengono alla cultura comune, condivisa. Di epoca in epoca il linguaggio del corpo si modifica. Settant’anni fa era molto raro vedere in Occidente uomini coperti di tatuaggi. Solo i marinai, i carcerati o i reietti, persone che si trovavano ai margini della società, usavano tatuarsi braccia o il petto. Quasi nessuna donna portava tatuaggi, forse solo le prostitute, ma spesso neppure loro. Poi di colpo, due decenni fa i giovani di ambo i sessi hanno cominciato a coprire il proprio corpo di segni, scritture, oggetti. Il piercing è diventato una consuetudine, come l’Helix alle orecchie maschili e femminili. Tutto questo non è più un segnale di marginalità, ma un modo per esprimere la propria personalità su quell’interfaccia che è la pelle, confine tra il mondo interno e quello esterno. Come ha spiegato lo psicoanalista francese Didier Anzieu, la pelle è parte della stessa identità psichica degli individui, e perciò ogni azione che si compie su di essa, come l’iscrizione, il taglio o l’attraversamento, diventa un’azione compiuta sulla struttura stessa dell’Io, e manifesta perciò un bisogno di ridefinizione di sé. Un modo per far sapere che sotto non c’è il nulla, bensì «qualcosa». Per quanto legato a una moda, il tatuaggio ha oggi la prerogativa di mostrare sulla superficie del corpo ciò che è profondo: pensieri, emozioni, traumi, violenze, piaceri. Erdogan, leader massimo della Turchia odierna, proibendo il piercing e il tatuaggio ai ragazzi che frequentano le scuole, e imponendo il velo alle ragazze, agisce su una forma espressiva primaria, cerca di purificare i loro corpi, di allontanare ogni forma di scrittura di sé. Un’azione destinata probabilmente a fallire, come molte delle proibizioni legate all’espressione individuale. Non è meno importante del diritto alla parola, anzi oggi lo è forse di più.
Marco Belpoliti, La Stampa 30/9/2014