Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 30 Martedì calendario

JOBS ACT, RENZI MEDIA SULL’ARTICOLO 18

ROMA
«Dobbiamo andare all’attacco. In questi anni la Repubblica non è stata fondata sul lavoro, come dice l’articolo 1 della Costituzione, ma è stata affondata sulla rendita». E ancora: «Interveniamo sul lavoro per dignità, perché siamo passati dal 7 al 13% di disoccupazione e senza un intervento sulle regole del mercato del lavoro non si va da nessuna parte: a chi dice che togliendo l’articolo 18 togliamo un diritto costituzionale rispondo che il diritto costituzionale sta nel fatto di avere un lavoro. E comunque, se l’articolo 18 è un diritto costituzionale, perché i sindacati e i partiti hanno fatto a meno dell’articolo 18 pur avendo più di 15 lavoratori?». Matteo Renzi parte «all’attacco» nel suo atteso discorso alla direzione del Pd convocata a discutere e votare sul Jobs act dopo giorni di polemiche e divisioni interne. Non arretra, il premier, sulla strada del superamento del dualismo del lavoro tra garantiti e non. Difende la sua linea, ribadisce che quello dell’articolo 18 è un «totem», spiega che la direzione dovrà «votare con chiarezza» anche per dare risposte ai cittadini, evoca anche la troika avvertendo che «o il Pd cambia oppure ci affideremo per sempre al predominio della tecnocrazia». Eppure qualche apertura Renzi la fa. Su due fronti: partito, che pure alla fine si spacca con 20 voti contrari, e sindacato.
Alla minoranza del partito offre un passo in più rispetto al mantenimento del reintegro per i soli licenziamenti discriminatori, mai stato in discussione: «Io credo che l’attuale reintegro vada superato, certo lasciandolo per il discriminatorio e il disciplinare». Ecco, è questo riferimento ai licenziamenti disciplinari lo spiraglio dell’intesa con la minoranza. Certo le fattispecie – spiegano i collaboratori del premier e recita lo stesso dispositivo finale – andranno individuate con precisione in modo da dare certezza alle imprese. Ma l’apertura c’è. C’è poi il riconoscimento del ruolo del sindacato quando Renzi a sorpresa annuncia di essere «disponibile a riaprire la sala Verde, a confrontarmi dalla settimana prossima con Cgil, Cisl, Uil e tutte le sigle». La sfida è su tre punti: una legge sulla rappresentanza sindacale, salario minimo, collegamento con la contrattazione di secondo livello.
Aperture e toni diversi da quelli degli ultimi giorni, non c’è dubbio. Un po’ è la tattica politica di Renzi: alzare l’asticella al punto massimo per giungere poi a un compromesso che salvi i principi intoccabili, come avvenuto per la riforma del Senato. Certo ha contribuito il lungo scambio di vedute in mattinata con il Capo dello Stato Giorgio Napolitano (si veda l’articolo in pagina). La posta in gioco è altissima, e una frattura insanabile nel Pd potrebbe avere conseguenze immediate sul governo, visti i numeri risicati della maggioranza in Senato. Da qui, anche, l’invito di Napolitano alla «prudente ragionevolezza» per evitare rotture nel Pd e recuperare il sindacato.
Alla fine le aperture ad alcune delle richieste della minoranza del Pd (oltre al reintegro per i licenziamenti disciplinari, anche l’abolizione dei co.co.pro) e i toni diversi, molto apprezzati da tutti, ottengono un mezzo risultato e non evitano al Pd di spaccarsi: la direzione vota il dispositivo finale illustrato dal responsabile economico Filippo Taddei con 130 sì, 11 astenuti e 20 contrari. Si astiene «per sottolineare le parziali aperture» una parte della minoranza con il capogruppo alla Camera Roberto Speranza e i nuovi membri della segreteria Enzo Amendola e Micaela Campana; vota contro («ma assolutamente non è un voto contro il governo», sottolinea Alfredo D’Attorre spiegando la decisione) quella parte della minoranza che si può definire più "bersaniana". Compreso Gianni Cuperlo e gli stessi Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema che in direzione hanno guidato la carica antirenziana. Bersani ha parlato di «metodo Boffo» nel Pd contro «chi dice la sua», D’Alema ha contestato i troppi «spot e la scarsa attenzione alla realtà». Lui, Renzi, va avanti. Intanto la minoranza si è divisa, non è un monolite. E comunque, intesa o meno, la direzione ha deciso e «da oggi tutti dovranno adeguarsi».
Emilia Patta, Il Sole 24 Ore 30/9/2014