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 2014  settembre 30 Martedì calendario

NEL CODICE DUMAS IL SEGRETO DEL ROMANZO

Cos’è il “romanzesco”? In cosa consiste? Quando abbiamo il diritto di usare questo termine, fuori e dentro la letteratura? Calma, lettori: non ho intenzione di propinarvi una lezione di retorica e teoria letteraria. Vorrei soltanto esporvi qualche piccolo senso, che ho ricavato dalla rilettura recentissima, estiva, del colossale monumento alla “realtà romanzesca” (nel duplice senso che l’espressione comporta) che è Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1803-1870), ripubblicato, con meritoria audacia, da Einaudi nella bella traduzione di Margherita Botto.
Sul Conte ha scritto cose bellissime Umberto Eco ( Il superuomo di massa , 2001). Ma forse qualche corollario si può aggiungere alla sua nobile canonizzazione. Vediamo, ripartendo dall’inizio.
Il conte di Montecristo fu scritto e pubblicato intorno al 1844.
Pressoché contemporaneamente, quella poderosa macchina di produzione letteraria, che era Alexandre Dumas padre, concepiva e realizzava i capolavori della saga moschettiera, I tre moschettieri, Vent’anni dopo , Il visconte di Bragelonne. Ma il Conte è su di un gradino superiore, più ambizioso per l’impianto e per la quasi contemporaneità degli eventi rispetto ai suoi lettori di quel tempo.
In estrema sintesi: il protagonista del romanzo, Edmond Dantès, è all’origine un giovane marinaio, molto esperto nel suo lavoro e profondamente onesto, il quale, per le mene congiunte e in parte involontarie di tre perfidi personaggi, – Fernand Mondego, Gérard de Villefort e Danglars – viene imprigionato nel terribile carcere francese denominato Chateau d’If, e vi trascorre alcuni anni in una segregazione pressoché assoluta e nella disperazione estrema (siamo in piena Restaurazione, Dantès viene accusato di bonapartismo, non è escluso perciò che Dumas lasci calare sulla narrazione qualche veleno antiborbonico). Lì, avventurosamente, conosce un altro prigioniero innocente, l’Abate Faria, sbucato nella sua cella, dopo aver scavato, con disumana sofferenza, un tunnel sotterraneo, che avrebbe dovuto portarlo all’aperto e invece, per un calcolo sbagliato, lo conduce proprio nella cella di Edmond. Dall’Abate Faria, prete italiano colto e, per così dire, di orientamenti risorgimentalisti, Edmond apprende molte cose; ma soprattutto viene a conoscenza, prima che Faria muoia, dell’esistenza di uno sterminato tesoro nascosto sul- l’isola (anch’essa italiana, e non è una combinazione) di Montecristo. Edmond, fuggito dal Chateau d’If con un espediente tanto macabro quanto ingegnoso, s’impadronisce del tesoro e inizia una nuova vita. Nella seconda parte del romanzo Edmond passa da un travestimento all’altro, alla ricerca però di un’unica fondamentale forma di riscatto, e cioè la vendetta. L’opera tuttavia ha un lieto fine, in conseguenza del quale Edmond recupera il proprio umano diritto a perdonare e amare.
Il conte di Montecristo ha subito negativamente nel tempo la taccia di essere un romanzo d’appendice, votato essenzialmente alla causa della commerciabilità del prodotto ovvero, come si dice oggi comunemente, alle “leggi del mercato”. Non c’è dubbio che sia così all’origine. E tuttavia il risultato che ne scaturisce torna a sembrare oggi degno di qualche maggiore attenzione.
Proviamo a ricollegarci alle domande iniziali. Il “romanzesco” 1) è una narrazione forte e complessa, che non può (ripeto: non può) non assumere grandi dimensioni; 2) parte da una singola storia, ma ne racconta molte; 3) è fatto di personaggi che sono portatori ciascuno di un “destino” particolare, il quale però s’intreccia, appunto, a quello di molti altri; 4) contempla e rappresenta costitutivamente un sistema di rapporti fra reale e immaginario, fra il possibile e l’inverosimile – ossia fra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il quale diventa anch’esso a un certo punto ciò che è.
Ora, Il conte di Montecristo presenta senza ombra di dubbio tutte queste caratteristiche. Ma non si potrebbe fare lo stesso discorso per un’altra opera, a giudizio comune, di portata enormemente superiore come Guerra e pace? Sì, certo, si potrebbe. Qual è la differenza, allora? Temo che la differenza sia, come si diceva una volta, nei “contenuti”.
Il peso logico, sentimentale, ideale di Guerra e pace non teme confronti rispetto a quello espresso dall’inizio alla fine dal Conte di Montecristo.
E tuttavia, detto questo, tutto il resto rimane valido anche per Il conte di Montecristo, e cioè che la sua macchina narrativa possiede una vitalità così prodigiosa da valere per sé, ossia per il godimento disinteressato e magari un po’ frivolo del lettore, e, aggiungerei, anche e forse soprattutto per il lettore di oggi. Lettore di oggi, il quale non ha più bisogno che gli si dica che deve leggere un testo perché gli sarà “utile”, gli basta sapere che sarà appassionante e divertente.
Da questo punto di vista Il conte di Montecristo riserba sorprese che difficilmente – duole dirlo – le opere della nostra contemporaneità in genere ci fanno sperimentare: è facilmente provabile, se se ne fa esperienza diretta, che, una volta intrapresa la lettura del testo all’inizio di un suo qualunque capitolo, sia impossibile staccarsene un attimo prima che quel capitolo sia concluso. L’esperienza dei primi lettori del Conte, i quali lo compulsavano ogni settimana in appendice a un organo giornalistico del tempo, e a quanto sembra esprimevano l’attesa ansiosa che questo accadesse, può essere rivissuta dai lettori di oggi, i quali faticheranno non poco a staccarsi dal testo nei punti nodali della narrazione, per tornare alle loro, molto più banali, fatiche quotidiane.
Il fatto è che il “romanzesco”, quello autentico, è anche un’altra cosa rispetto a quelle che abbiamo già elencato. Esso è la proiezione di una visione del mondo che non ci sarebbe se quel romanzo non ci fosse. Illusorio è in ogni caso cercare i riscontri reali a quello che vediamo raccontato. Quello che vediamo raccontato è anch’esso un reale – un reale che si distingue nettamente da quello che, supinamente, continuiamo a credere e chiamare “il reale”.
Da questo punto di vista Il conte di Montecristo è un vero scrigno di ricchezze – ricchezze certo illusorie, ma destinate meravigliosamente a incrementare il nostro bisogno di una realtà “altra”, non meschinamente ridotta a quella di cui facciamo esperienza tutti i giorni.
Alberto Asor Rosa, la Repubblica 30/9/2014