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 2014  settembre 30 Martedì calendario

LAVORO, LA VITTORIA DI RENZI “L’ARTICOLO 18 VA SUPERATO” SI DIVIDE LA DIREZIONE PD

[2 articoli] –
ROMA.
Matteo Renzi vince la sfida in Direzione sul Jobs Act, ora la battaglia si sposta in Parlamento. Il premier si augura che dopo una discussione che definisce «bella», ma che in realtà è stata una resa dei conti, alle Camere «si voti uniti». Difende il suo governo: «È contro la realtà continuare a dire che è solo slogan». Ne rivendica le scelte, a cominciare dall’abolizione dell’articolo 18.
Attacca «le responsabilità drammatiche dei sindacati» e dice che il Pd deve avere anche la rappresentanza degli imprenditori. Alla fine è provato. Una mediazione minimalista l’ha tentata. A sera fa capire che andrà avanti come un panzer. L’ok alla riforma del lavoro passa con 130 sì, 11 astenuti (parte di Area riformista, la corrente di Roberto Speranza) e 20 contrari tra i quali D’Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Fassina, D’Attorre.
Nel parlamentino del Pd va in scena uno scontro drammatico su articolo 18, identità della sinistra, rapporto con l’impresa. Il conflitto tra la “vecchia guardia” e Renzi ha toni mai raggiunti.
Eppure l’inizio della riunione è soft. Il segretario-premier si mostra determinato sull’abolizione dell’articolo 18: «No ai compromessi a tutti i costi, però questa è una riforma di sinistra, se la sinistra serve a difendere i lavoratori e non i totem, a difendere tutti e non qualcuno già garantito». Poi Renzi annuncia un incontro con i sindacati e fa delle aperture sul “reintegro” non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli disciplinari. È una delle richieste della corrente dei “giovani turchi”, che infatti vota a favore della riforma. Quando Massimo D’Alema però prende la parola, denunciando che Renzi fa «molte parole senza fondamento» e rincara con l’accusa di una «oratoria non attinente alla realtà», condendo l’attacco con sarcasmo e ironie, il Pd si ritrova in piena burrasca. Una tempesta nel partito che cresce con l’intervento di Pierluigi Bersani. Dall’ex segretario dem un j’accuse: «Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18. Ci andiamo per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la dignità». La platea renziana rumoreggia.
Roberto Giachetti contrattacca sul “metodo Boffo”, usato casomai - sostiene - contro Renzi da D’Alema con l’accusa al premier di farsi «istruire da Verdini». «Citami una frase mia...» ribatte Bersani. Brusio, commenti. Sarà poi Renzi a scherzarci su: «Io adopero casomai un metodo buffo...». Non basta ad alleggerire il clima. L’affondo di Civati è senza sconti: «Ho sentito Renzi dire cose di destra...». Cuperlo corregge Renzi: «Non sono 44 anni come i 44 gatti che non si tocca l’articolo 18 ma solo due». Fassina ammette che il momento è delicato e che il disaccordo con Renzi è totale. Lo spettro della scissione ritorna. Anche se tutti negano. Il ministro Poletti si mette d’impegno a spiegare il cambio d’epoca nel mercato del lavoro. Però la ricetta renziana ha contro i leader storici democratici.
Giovanna Casadio, la Repubblica 30/9/2014


LA SINISTRA CERCA LA RIVINCITA. MA IL PREMIER: “CON ME L’80%. LA PARTITA È CHIUSA, ADEGUATEVI” –
ROMA.
Renzi dice che il caso è chiuso, che alla fine «Bersani e D’Alema hanno fatto una brutta figura perché è finita 80 per cento a 20 per me» e quindi «la minoranza dovrà adeguarsi in Parlamento». La battaglia non si trasferisce in aula, secondo il premier, per il semplice motivo che gli oppositori della riforma del lavoro non hanno né i mezzi né gli uomini. «I gruppi parlamentari cambiano la decisione della direzione? Ma scherziamo! Che fanno, mandano sotto Speranza e lo costringono alle dimissioni?». In realtà qui si sta parlando di una sfida campale in cui la vittima designata, semmai, è proprio lui. Sono le sue dimissioni a essere in ballo. «Ma dove vanno Massimo e Pier Luigi? Fanno la scissione, un nuovo partito o addirittura un nuovo governo? E come? Con 20 voti, un altro governo muore prima di nascere», dice beffardo Renzi ai suoi collaboratori.
Ma ieri, nella direzione riunita all’attico di Largo del Nazareno, si è respirata l’aria dello scontro definitivo, quello da cui usciranno solo vincitori e vinti. Il premier è convinto di essere già nella prima categoria «perché si doveva spaccare la maggioranza e invece si è divisa la minoranza». Gli 11 astenuti provenienti dalle file dei bersaniani sono già un primo successo, a sentire Renzi. Al Senato però i numeri sono diversi. La legge delega sulla riforma e sull’articolo 18 arriva in aula domani per la discussione generale. Le votazioni potrebbero cominciare già giovedì o al massimo martedì della prossima settimana. Ci sono 7 emendamenti che smontano la riforma del governo e puntano conservare la regola così com’è seppure dopo una periodo di contratto a tutele crescenti. Le firme sotto questi emendamenti sono tra le 30 e le 40. Una cifra in grado di mandare abbondantemente in minoranza l’esecutivo costringendolo a cercare i voti di Forza Italia. «Non vogliamo buttare giù il governo — dice Stefano Fassina — ma obbligarlo a correggere la rotta». E se non c’è la correzione? «Ogni giorno ha la sua pena», risponde Fassina non smentendo una rottura definitiva.
Francesco Boccia e lo stesso Fassina hanno messo agli atti, in direzione, il documento alternativo a quello di Renzi. In cui si accettano l’estensione dei diritti e le tutele crescenti ma si mantiene l’articolo 18 riformato dalla legge Fornero. Soprattutto si collega la legge delega alla legge di stabilità perché il punto debole dell’operazione, secondo i dissidenti, è quello. Il tallone di Achille di Renzi che lo costringerà a «riflettere per non andare a sbattere». Anche sui licenziamenti. Ma dietro gli attacchi feroci di D’Alema e Bersani, c’è anche chi vede un disegno di più lungo orizzonte. Da giorni l’ex premier racconta agli amici che lo vanno a trovare alla fondazione Italianieuropei delle visite che riceve da parte di alcuni imprenditori. «È venuto Della Valle», diceva. Ma a sorpresa, in una pausa sul terrazzo del Nazareno, ieri ha tirato fuori un altro nome forte del renzismo. «È venuto a trovarmi Oscar Farinetti. Anche lui è molto deluso da Renzi perché promette molto più di quello che fa».
Come possa nascere e reggere un’asse tra la sinistra del Pd, i cosiddetti poteri forti e gli orfani del renzismo delle origini, a oggi, è un mistero. Però gli oppositori dicono che Bersani e D’Alema non sono «emotivi», se hanno usato quei toni è solo perché sono sicuri o di piegare la resistenza del premier o perché hanno in mente soluzioni diverse. «Scordatevi le soluzioni diverse », ripete Fassina. «Vogliamo evitare, visti i numeri, il disastro che si prepara con la manovra», gli fa eco Boccia. Aiutare, correggere, migliorare. Sarebbero queste le buone intenzioni della minoranza.
Ma il clima dentro il Pd è di totale sfiducia, di volti che si guardano in cagnesco. Un piccolo episodio è rivelatore. Il sindaco di Crema Stefania Bonaldi, elettrice di Renzi alle primarie, demolisce l’azione di governo e la proposta sul lavoro. Dalla platea la rimbrottano e lei per rispondere usa il lei anziché il tu. Altro che compagni. Renzi può aver vinto la partita dell’articolo 18, ma i suoi oppositori sono convinti che avrà molte difficoltà a partorire una Finanziaria efficace e concreta. D’Alema lo ha spiegato: «20 miliardi prendendone uno qua e uno là, così si rischia di fare una manovra sbagliata». Come dire che l’autunno caldo il premier deve aspettarselo più dentro le aule parlamentari che nelle piazze. Una minaccia che non scuote Renzi. Anzi, ne esalta la voglia di confronto muscolare. E nei suoi discorsi non manca mai di accennare all’ipotesi finale. «Rompono? E dopo? Vogliono andare a elezioni? E con quali voti?».
Goffredo De Marchis, la Repubblica 30/9/2014