Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 30 Martedì calendario

VIAGGIO TRA GLI ULTRAS DI KIEV, DOVE COVA ANCORA IL FUOCO

In curva sono tutti in piedi, anche i reduci di guerra che si reggono alle stampelle di legno. Le braccia si agitano seguendo i passaggi di quelli della Dinamo che allo Stadio Olimpico di Kiev il 22 settembre giocano contro il Volyn Luts’k. Una gara senza sorprese: 5 gol, 4 della squadra di casa e vittoria facile. I soli a restare immobili e rigidi sui gradini sono tre ragazzi grossi come rugbisti col passamontagna calato sul volto che stringono una cassetta su cui campeggia il logo del battaglione Azov, una N tagliata verticalmente da una I: «National Idea», slogan che racconta molto della loro visione politica.
Anche allo stadio si raccolgono offerte per sostenere i soldati nell’est. E l’Azov è un gruppo paramilitare con pochi finanziamenti da parte del governo, ma con tanti amici, specie sugli spalti. In buona parte l’Azov è composto proprio da chi va allo stadio ogni settimana, si è battuto in piazza Maidan a febbraio e crede nel nazionalismo e nell’indipendenza dell’Ucraina a costo di impugnare le armi e partire per la prima linea.
Andriy Korenivskii non ha visto nessuno dei gol: per 90’ ha guardato gli spalti appoggiato alla balaustra a bordo campo, agitando il microfono come fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. Da anni è il leader degli ultrà della Dinamo che ha addestrato a rispondere ai suoi comandi allo stesso modo di un generale coi suoi soldati. Sembra un gigante, ma solo fino al fischio finale. Poi, quando lo stadio si svuota, torna a essere un uomo qualunque di 33 anni, con i conti da far quadrare a fine mese e il desiderio di una famiglia. «Ma almeno ora la mia fedina penale è pulita», ride. «Dopo i fatti di Maidan i miei reati sono stati cancellati. C’è stata una sorta di amnistia per chi si è distinto nella protesta e io sono stato uno dei migliori. Sono pronto a dare una mano al mio Paese in un altro modo, anche arruolandomi».
In Ucraina calcio e guerra non sono molto distanti. Sugli spalti della Dinamo spuntano bandiere rossonere di Pravi Sektor (Settore Destro), il gruppo di estrema destra in piazza a Maidan, in prima linea nell’est. Nessuno, al sicuro nella curva, nasconde le proprie simpatie: saluti romani, cori, strette di avambraccio e loghi sulle felpe non lasciano dubbi. C’è un ragazzo che indossa una cintura con la fibbia del «Fronte veneto skinheads». «Siamo in contatto con Casa Pound e altri camerati», racconta Andriy. «Molti di noi sono stati in Italia per raduni organizzati dai movimenti di destra. Abbiamo buoni rapporti anche con alcune tifoserie italiane, ma sono molto diverse da noi. Gli ultrà della Dinamo si sono uniti meno di 10 anni fa, siamo ancora giovani non possiamo paragonarci ai gruppi italiani con una lunga storia alle spalle».
Il rigore è l’uniforme dei soldati dello stadio, l’ordine è il giuramento che hanno fatto entrando nel gruppo degli ultrà: niente alcol né droghe, e chi perde il controllo è subito allontanato. «Non vogliamo pagliacci con noi, il tifo è una cosa seria». Kiev inizia a odorare di vento gelido d’ottobre e l’inverno preannuncia una guerra faticosa, adatta solo a chi è esperto e preparato.
Andriy parla in fretta, non ha tempo. Tra poche ore partirà per un campo di allenamento militare di 5 giorni poco fuori dalla città dove si preparerà all’eventuale chiamata al fronte. La borsa è già pronta, ma i camerati lo aspettano per la cena e poi per un saluto nella loro tana. Il covo ultrà è all’interno di un improbabile ostello chiamato Havana tra i vicoli del centro di Kiev. C’è solo una stanza umida al piano terra. I muri scrostati lasciano intravedere aloni azzurrastri, segno di una vecchia mano di vernice dei tempi dell’Urss.
«Non badate alla confusione, dobbiamo ancora sistemare il carico». Andriy indica gli scatoloni che occupano la stanza: pacchi di caffè, di shampoo, di generi di conforto e, soprattutto, attrezzatura militare, giubbotti antiproiettile, guanti da incursione, maschere contro le schegge, scarponi e impermeabili mimetici. L’equipaggiamento è il frutto delle iscrizioni di un torneo di calcetto tra le varie tifoserie e sarà destinato ai soldati nell’est dell’Ucraina.
A fine gennaio, infatti, mentre Maidan si trasformava in un campo di battaglia, gli ultrà delle squadre di calcio si sono riuniti attorno a un tavolo per firmare la loro pace. «Basta guerra tra tifoserie: uniamo le nostre forze per una battaglia ben più importante, quella contro i filorussi». C’è solo un posto dove è ammesso il corpo a corpo, nei boschi, dove i camerati si trovano per sfogare la rabbia che non può più esplodere allo stadio. «Una specie di allenamento o di gioco». Andriy sistema con cura un’uniforme mimetica, la chiude in un sacchetto. Poi prende una scatola di cartone dalla quale però scivolano a terra decine buste bianche. Sono le lettere che le famiglie dei soldati portano allo stadio agli ultrà così da essere recapitate al fronte. Silenzio. Andriy si piega e le raccoglie soppesandole, come fossero reliquie. Nazione e patriottismo. Rigore e preghiera. E armi. Il capo ultrà solleva uno dei giubbotti antiproiettili. «Roba di qualità, vogliamo che i nostri ragazzi siano protetti. Noi proteggiamo loro e loro difendono la nostra nazione».
La bandiera bianca è solo una scusa, un po’ come la tregua firmata dai piani alti della politica: anche il calcio ha dichiarato la sua tregua alla Russia. Almeno fino a quando la Dinamo non giocherà in casa con qualche club di Mosca. «Difficile prevedere che accadrà – risponde – posso dirti che c’è gente nella tifoseria che li vorrebbe morti. Credo che questo renda l’idea».