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 2014  settembre 30 Martedì calendario

STENDARDO, L’AVVOCATO DIFENSORE

«L’esame orale è du­rato 45 mi­nuti, più re­cupero... E poi le domande, estratte dal bus­solotto: pareva un sorteggio di Champions». Era destino che gli studi si sovrapponessero al calcio fino alla fine. Invece del triplice fi­schio, però, è arrivato l’atteso verdetto: Gu­glielmo Stendardo, difensore dell’Atalanta, da pochi giorni diventato avvocato. Ci ave­va già provato un anno fa, senza fortuna. Non si è arreso, ha riprovato e c’è riuscito. «Solo le sconfitte aiutano a crescere, solo i veri uo­mini si rialzano», dice adesso.
Che fatica, però. Non sgobbava già abba­stanza sul campo?
«Ho la fortuna di avere due genitori che con­siderano il calcio un punto interrogativo e la cultura una certezza. Papà Giovanni è so­ciologo, mamma Anna medico: questo tra­guardo lo dedico a loro. Papà mi ha sempre “ricattato”: se non studi non ti porto all’alle­namento. E io ho continuato a passare i gior­ni sui libri anche quando il calcio è diventa­to un lavoro. Studiavo tre ore al mattino e poi la sera, dopo l’allenamento, ripassavo. Quando arrivi in Serie A però non è facile concentrarsi, perché ti senti appagato. Ma è stato proprio lo studio a sostenermi nei mo­menti difficili».
Di solito i calciatori nel tempo libero fanno altro. Lei lo ha sfruttato bene.
«Siamo fortunati perché ne abbiamo tanto. Qualche sera fa ero in un ristorante ad A­gropoli, a gustarmi un ottimo piatto di spa­ghetti ai ricci di mare. Ho voluto conoscere la cuoca, bravissima. Mi ha detto che lavora di sera e di giorno studia ingegneria. Ecco, per lei è sicuramente molto più dura...».
Adesso che ha superato l’esame, però, ap­penderà finalmente i libri al chiodo.
«No, perché dovrò tenermi aggiornato. E poi mi piace leggere, soprattutto di filosofia. Car­tesio è il mio preferito: cogito, ergo sum. Fonda il suo pensiero sul dubbio, come Socrate, che sa di non sapere. Anch’io mi ritengo ignorante di molte cose, nel sen­so che sono consapevole di non cono­scerle. Diffido, invece, delle persone che hanno solo certezze».
Gli altri calciatori la guarderanno come un alieno...
«Al contrario, nello spogliatoio erano tutti felici per me. Ci tenevano moltissimo. E an­che la società. Il presidente Percassi mi ha chiamato, ha voluto sapere cosa mi aveva chiesto la commissione. Ora festeggeremo».
C’è più tensione prima di una partita o pri­ma di un esame?
«Sono situazioni diverse. Se sbagli una par­tita sai che la settimana dopo hai tempo di rifarti, se fallisci un esame devi rimetterti a studiare tutto daccapo. Un po’ come nel mi­to di Sisifo».
Adesso i compagni le chiederanno con­sigli legali.
«A volte ci confrontiamo su alcuni aspetti del diritto di famiglia e del regime patrimo­niale. Con Cigarini e Raimondi spesso par­liamo dei casi di cronaca: io rispondo sem­pre che prima di pronunciarsi bisogna co­noscere gli atti. In tv si fanno troppi proces­si virtuali basati sul nulla».
Lei è un calciatore atipico. Non twitta nemmeno...
«Non escludo di farlo, ma ai social network preferisco sempre un buon libro. E poi guar­datevi intorno: sul treno la gente non si par­la, concentrata com’è sul telefonino. Va be­ne la tecnologia, ma ci vuole equilibrio. In o­gni cosa la saggezza sta nel mezzo».
L’Atalanta ha introdotto il codice etico, un bel passo in avanti per il calcio.
«Credo sia una scelta costruttiva. Il diritto pervade ogni contesto, compreso lo spo­gliatoio. Ci sono sempre regole da rispetta­re, in campo come nella vita. In Italia non sempre lo comprendiamo. La crisi non è so­lo economica, ma anche morale e culturale. Il calcio dovrebbe veicolare valori positivi, soprattutto ai giovani: noi giocatori in primis, ma anche la stampa. Invece in giro vedo po­chi opinionisti seri e molti esperti di fanta­calcio ».
Ha messo il dito nella piaga.
«Serve un cambio di mentalità. Ci diamo troppa importanza e viviamo solo in fun­zione del risultato. Sento citare spesso il mo­dello Germania. Allora iniziamo a imitare i tedeschi nella loro dote principale, la serietà. Devo dire che negli ultimi anni su questo punto non è andata molto bene...».
Cosa farà da grande?
«Voglio continuare a giocare fino a 40 anni, perché il calcio è la mia passione. Poi si ve­drà. Potrei restare nell’ambiente, oppure fa­re l’avvocato di diritto sportivo. Ma non so, nella vita tutto cambia velocemente. L’uo­mo propone, Dio dispone».
Lei è credente?
«Credere nell’esistenza di Dio è una presun­zione, ma lo è altrettanto pensare che non ci sia. Io credo profondamente, ma non ri­nuncio a farmi delle domande. La vita ri­mane un grande mistero».
Lei arrivò all’Atalanta dopo il caso scom­messe. Difenderebbe un calciatore squali­ficato per combine?
«Come dice il direttore generale Marino, chi vende le partite uccide il calcio. Ma la pos­sibilità di difendersi va garantita a chiunque, anche a chi commette reati gravissimi. Co­me tutti, i calciatori hanno i loro doveri, ma pure i loro diritti».
Lei ne sa qualcosa, visto che vinse la causa per mobbing con la Lazio. Quanto è diffuso nel calcio questo problema?
«Molto più di quanto emerga. Tanti sono in­timiditi e non denunciano. Il mobbing si ma­nifesta in modi sottili quando c’è di mezzo una trattativa. Non ti fanno giocare e parla­no di “scelta tecnica”, come capitò a me. Poi al posto mio, di Pandev e Ledesma convo­cavano dei ragazzini della Primavera per l’Europa League. Ora, ridendo, dico che quel­la è stata la mia prima causa vinta. Ho dato i soldi in beneficenza, era una questione di principio. L’ho fatto perché nel calcio non succedessero più certe cose: i calciatori re­stano la parte più ingenua e pulita di questo ambiente. Per risolvere le cose basta il buon senso. Ma quando qualcuno ha deliri di on­nipotenza è dura...».