Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 30 Martedì calendario

LA VERA POSTA IN GIOCO OLTRE LA RESA DEI CONTI


Non è vero che la riforma dell’articolo 18 sia una questione ideologica che non riguarda quasi nessuno. È una grande questione politica, che può cambiare la vita sociale, la mentalità, la cultura economica del Paese. Proprio per questo, a parte qualche eccezione, il modo in cui la direzione del Pd ha affrontato ieri il tema è apparso un po’ asfittico e autoreferenziale.
Certo, era una riunione di partito. E Renzi, abituato a usare queste circostanze per parlare ai cittadini in streaming più che ai presenti, stavolta ha badato a ricompattare i suoi. Il premier ha cercato di aprire alla minoranza interna. Ha esteso la sfera del reintegro rispetto a quanto era trapela-to. Ha rilanciato un vecchio cavallo di battaglia del centrosinistra Anni 90, il Tfr in busta paga. Ha parlato di salario minimo e di risorse per ammortizzatori sociali e scuola. Soprattutto, si è detto disponibile a ricevere Cgil-Cisl-Uil a Palazzo Chigi, come finora non aveva mai fatto. Non a caso, più della sua relazione è stata contestata la sua intervista della sera prima a Fabio Fazio; e al di là della stizza di D’Alema, cui non si è accodato neppure l’ex portavoce Orfini, si intravede un compromesso interno, in attesa magari di un nuovo scontro in Senato. Ma la vera questione non è ammorbidire i contrasti interni a un partito; è portare il Paese a cogliere le opportunità che la riforma del mercato del lavoro porta con sé, accanto ai prezzi da pagare, che pure ci sono. Superare l’articolo 18, nella versione dello Statuto dei lavoratori e in quella uscita da una faticosa mediazione due anni fa, implica un’assunzione di responsa-bilità da parte di tutti. Dei lavoratori, cui si chiede di rinunciare a una tutela magari antistorica ma di sicuro comoda. Dello Stato, che oggi non forma e non ricolloca chi il lavoro l’ha perso o non l’ha mai avuto. E anche degli imprenditori, che talora si sono adeguati a uno scambio al ribasso, garantito dai sindacati, tra bassa produttività e bassi salari; ti chiedo poco e ti do poco. Il governo, oltre a convincere l’ala sinistra, apparsa animata pure da risentimenti personali, dovrebbe ambire soprattutto a guidare questo cambiamento. Quel che non può certo riuscire a una persona sola, può arrivare dallo sforzo comune dei produttori e delle parti sociali, ieri rimesse in gioco (si vedrà se sul serio o per tattica): far imboccare al Paese la strada della merito-crazia e della competitività. Costruire un consenso nella società e suscitarne le energie è compito più complesso che mediare con i giovani turchi e rintuzzare la vecchia guardia, e molto più difficile che ricorrere alla retorica delle «trame dei club e dei salotti»: un espediente che fa parte di quei riti della vecchia politica che Renzi vorrebbe superare.