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 2014  settembre 30 Martedì calendario

IN SENATO LA MAGGIORANZA È APPESA A 7 VOTI


ROMA La vera resa dei conti, se ci sarà, comincia mercoledì, quando il Jobs act approderà nell’aula del Senato. Mentre ieri, durante la direzione, il barometro dello scontro segnava picchi altissimi, erano in molti alle prese con il pallottoliere (magari, qualche renziano, con strumenti più moderni, tipo Excel). Perché il futuro del Jobs act — ma anche e soprattutto del governo e del premier Matteo Renzi — è tutto in un pugno di numeri: quei sette voti di scarto, che potrebbero venire a mancare per via dei dissidenti del Pd.
Scomporre il puzzle del Partito democratico non è facile. Perché la geografia è complessa: risale a un’epoca pre renziana, ma ha visto riallineamenti, piccoli movimenti tellurici che hanno allontanato e avvicinato le faglie dall’epicentro. I renziani «puri» (quelli della prima ora) sono scesi a 12 (Isabella De Monte è andata in Europa). Se a questi si aggiungono gli esponenti di AreaDem (Dario Franceschini), si arriva a una quarantina. Nella maggioranza vengono normalmente conteggiati anche i cinque «Giovani Turchi» (vicini a Matteo Orfini e Andrea Orlando). E con qualche maldipancia dovrebbero comunque votare a favore del Jobs act. Ci sono poi quelli che vengono indicati come lettiani (anche se Enrico Letta ha sciolto la sua corrente): sono tre.
Sul fronte opposto, ci sono i duri e puri che dovrebbero votare no, senza se e senza ma. Tra questi si possono annoverare Corradino Mineo, Walter Tocci e Maria Grazia Ricchiuti. Il quarto è Felice Casson, tra i senatori più critici: qualche voce maligna lo dà verso un riallineamento, che sarebbe favorito anche dalla prospettiva di avere il via libera del partito per diventare sindaco di Venezia. Poi c’è l’ampia pattuglia dei bersaniani e dei cuperliani: una quarantina di senatori. Qui bisogna puntare gli occhi sulla componente chiamata Area Riformista, nella quale c’è un nucleo di irriducibili, guidato da Alfredo D’Attorre, deputato. È un’area poco omogenea e lancia segnali contraddittori. Vannino Chiti, per esempio, potrebbe aver gradito i messaggi lanciati dal segretario: tra questi la nuova legge sulla contrattazione e la riapertura del tavolo verde per la concertazione.
Ma al di là degli schieramenti ufficiali, bisognerà vedere cosa accadrà nel percorso del Jobs act. Perché sono stati presentati 689 emendamenti: meno dei 7.000 della riforma costituzionale, ma quanto basta per rischiare di far tornare in auge il discusso meccanismo del «canguro». Alla fine ne resteranno sui 300 e su molti si ballerà. A parte le prevedibili proteste di Cinque Stelle, è possibile che i malumori democratici si riversino a macchia di leopardo sugli emendamenti. Ed è altrettanto possibile che qualche senatore di Forza Italia arrivi in aiuto di Renzi. È il famoso «soccorso azzurro». Porrebbe un problema politico se arrivasse sul voto finale, ha ammesso lo stesso Renzi. Ma non è escluso affatto che qualche «aiutino» arrivi sui singoli emendamenti.