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 2014  settembre 30 Martedì calendario

IL VIZIO DELLA DEMOCRAZIA CONTRO I TIRANNI COMUNISTI


Due buone notizie da Hong Kong: la prima, ovvia, è che la sete di democrazia germoglia ovunque, ed è davvero un bel vedere quella folla immensa che chiede elezioni vere e non la farsa preparata dal partito comunista cinese. In tempi di Califfi neri è un piccolo sollievo. La seconda, quasi più importante, è che il modello cinese non regge, quantomeno, scricchiola. È un modello che ha sinora smentito tutte le regole, le sociologie e le ideologie elaborate in occidente. Il più grande Paese del mondo è infatti diviso in realtà in due immense nazioni. In una, la più grande, si produce poco - ma comunque si produce - secondo le fallimentari regole dell’economia socialista. Nella «seconda Cina», una nazione di più di 200 milioni di abitanti, invece, si produce, si guadagna, si concentra e si specula secondo le più sfrenate regole del capitalismo. Hong Kong è la punta di diamante, la capitale morale della Cina e dei cinesi capitalisti, per la semplice ragione che sino al 1997 è stata sottratta all’incubo comunista, era inglese e fu restituita a Pechino con un grado di sviluppo capitalistico eccezionale. Il vero e incomprensibile «miracolo cinese» impostato da quel genio di Deng Tsiao Ping, è che su tutte e due queste «nazioni» cinesi, così diverse, regna e comanda il Partito Comunista Cinese. Insomma, in Cina c’è la piena libertà di mercato e di impresa, ma non c’è la minima libertà politica. Come questo sia possibile non è dato di capire. Né il marxismo, né il pensiero liberale, socialdemocratico, verde, sociologico, strutturale o spirituale che sia, prevedono che sia possibile questa incredibile situazione. Ma in Cina così è. L’unica, analisi che tenta di dare una risposta è l’intreccio tra il confucianesimo, di cui è intrisa la società cinese E che da millenni trasmette l’obbedienza cieca a uno Stato autoritario, e una grande malleabilità di un pur corrotto partito comunista che, nel complesso, riesce a farsi concavo, quando la società diventa convessa e protesta. Nel campo sindacale è sicuramente così: alle recenti ondate di scioperi nelle immense fabbriche dalle condizioni inumane ha risposto sì la repressione, ma anche forti concessioni salariali e normative. In campo politico però, sinora, dopo aver bastonato e massacrato a migliaia 30 anni fa la protesta di Tien An Men, il Pc cinese è riuscito a tenere saldamente il comando senza eccessive proteste. Ma ora, i giovani di Hong Kong, nati nel comunismo, fanno di nuovo scricchiolare questo innaturale edificio. Ricordano al mondo, anche ai politically correct italioti, che purtroppo il comunismo vive, vegeta e opprime un miliardo e mezzo di umani. Ma anche che non c’è comunismo che tenga: per astuto che sia, non riesce a sradicare nell’animo umano la voglia di libertà.
Maurizio Stefanini

Ormai, è la Tien An Men di Hong Kong. Oggetto della protesta: le elezioni del 2017, quando in teoria gli abitanti del Territorio potranno scegliere per la prima volta liberamente il Chief Executive del governo locale. Una possibilità che però Pechino intende limitare prima di tutto stabilendo che i candidati non potranno essere più di due o tre e poi nominando una commissione elettorale di 1400 membri col potere di vagliare le candidature, e nel caso cassarle. Occupy Central with Love and Peace, sigla Oclp, abbreviato Occupy Central, è il nome del movimento che fu lanciato nel gennaio del 2013 da Benny Tai Yiu-ting, docente di Diritto all’Università di Hong Kong, per difendere la libera elezione. «Occupate Central con Pace e Amore»: da Central, la ex-Victoria City dei tempi della colonia, il centro degli affari dove sono anche concentrati i principali uffici del governo. «Almeno 10.000 persone scenderanno in piazza», aveva minacciato. È andato ben oltre, visto che ben 792.808 persone dal 20 al 29 giugno sono andate alle urne al referendum autogestito per scegliere tra tre differenti proposte per selezionare i candidati. Un honkonghese su cinque. Centomila persone secondo il governo, mezzo milione secondo gli organizzatori sono poi scesi in piazza il primo luglio nell’anniversario del passaggio di Hong Kong alla Cina, con un intervento della polizia che ha provocato 500 arresti. Poi sono stati gli studenti e gli insegnanti ha annunciare una protesta a oltranza. Sabato l’occupazione di Central è effettivamente partita. Malgrado i duri interventi della polizia con gas lacrimogeni e manganelli, migliaia di persone continuano a rimanere nelle strade preparandosi a trascorrere una seconda notte all’addiaccio, e il loro numero continua a crescere di ora in ora. In un estremo tentativo di sedare gli animi, il capo dell’esecutivo Leung Chun-ying ha annunciato il ritiro degli agenti dalle strade, smentendo anche le voci circolanti sui social media su un imminente intervento dell’Esercito Popolare di Liberazione. Ma la leadership del movimento protestatario non sembra intenzionata a mollare. «Chiunque abbia una coscienza dovrebbe vergognarsi di essere associato a un governo che è così indifferente all’opinione pubblica», recitava l’ultimo comunicato di Occupy Central, che chiede ormai a Leung di dimettersi. Come ex-potenza coloniale che consegnò Hong Kong alla Cina nel 1997 anche il Regno Unito è intervenuto, chiedendo il rispetto dei «diritti fondamentali e dalle libertà». Una nota che ha ulteriormente accesso le preoccupazioni di Pechino, come dimostrano i toni durissimi della risposta del Ministero degli Esteri. «Hong Kong è cinese. È una regione cinese ad amministrazione speciale e gli affari di Hong Kong sono esclusivamente affari interni cinesi». Anche gli Stati Uniti e altre nazioni sono stati avvertiti di «non immischiarsi».