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 2014  settembre 29 Lunedì calendario

“SOLI CON BOKO HARAM: 57 GIORNI NELLA SAVANA”

[Gianantonio Allegri] –
Porte e finestre sfondate. Ci troviamo dentro casa un commando di una quindicina di uomini armati di fucili. Mi sono detto ‘questi non possono essere ladri’. Sapevamo che esponenti di Boko Haram gironzolavano dalle nostre parti già da qualche giorno. In fretta e furia ci hanno fatto salire in macchina ed è cominciato un lungo viaggio notturno di 11 ore”. Cominciano così i cinquantasette giorni di terrore vissuti tra lo scorso 4 aprile e il 1° giugno da don Gianantonio Allegri, 57 anni, fidei donum di Vicenza. Siamo nella piccola parrocchia di Tchere, nella diocesi di Maroua-Mokolo, all’Estremo Nord del Camerun, 100 chilometri dal confine con la Nigeria. Una zona che Gianantonio conosce bene. Aveva già trascorso undici anni in missione e nell’ottobre 2013 ha deciso di tornare in Africa, memore di una “bellissima esperienza di convivenza serena e di una proficua collaborazione” sia con i musulmani che con gli animisti. “Con me in macchina quel giorno c’era il mio compagno di sventura, don Giampaolo Marta, anche lui originario di Vicenza. In un altro veicolo l’anziana suora canadese Gilberte Bussiere, della congregazione di Nostra Signora. Nella nostra sfortuna, essere stati rapiti in tre è stato un grande miracolo” ci dice Gianantonio.
“Mi orientavo con le stelle”
“Quella notte sono riuscito a orientarmi e a capire dove andavamo guardando le stelle attraverso il finestrino. Una mia passione da sempre. Il Grande Carro e la Stella Polare. Prima ad est, poi a nord e a sud-ovest. Alla prime luci dell’alba siamo arrivati in piena savana nigeriana” si ricorda il fidei donum.
“Siamo rimasti tutto il tempo nello stesso posto, sotto un albero di tamarindo, guardati a vista da ragazzi molto giovani che facevano a turno. Una stuoia e una coperta a testa. Durante il giorno ci spostavamo di qualche metro per ripararci dal sole, a 45 gradi. Di notte faceva freschetto, 18 gradi. Per fortuna abbiamo avuto solo otto giorni di pioggia” ci confida Gianantonio. Per passare il tempo e combattere la noia, oltre che insetti di vario genere, i tre ostaggi si ingegnano a cucinare con i pochi ingredienti messi a disposizione dai rapitori.
“Ci consegnavano spaghettini nigeriani tagliati e riso. Una tanica di acqua di 30 litri. Noi raccoglievamo la legna e ci preparavamo la minestra. Qualche volta ci mettevano dentro un pugno di niebe o una scatola di sardine. Poi c’erano lunghe ore di preghiera e meditazione. A turno recitavamo a memoria la parola di Dio per darci conforto e trovare un senso a questa esperienza. Si può dire che abbiamo vissuto una grande Quaresima”, prosegue con voce carica di emozione, “Tra di noi abbiamo parlato tantissimo, sia delle nostre paure che dei nostri desideri. Si è creato un rapporto fraterno e anche questo ci ha aiutato tantissimo sia durante la prigionia che dopo la liberazione, per superare il trauma”. Gianantonio, Giampaolo e Gilberte sono stati sostenuti, a distanza, anche dalle preghiere della comunità musulmana di Maroua.
“Eravamo merce di scambio per ottenere le armi”
Con i rapitori di Boko Haram (gruppo armato nato nel 2002 nel nord della Nigeria, in lingua locale significa “L’educazione occidentale è peccato”) poche e brevi comunicazioni in inglese. Il primo giorno, quando i combattenti hanno chiesto agli ostaggi due numeri di telefono da contattare per formalizzare le proprie rivendicazioni. “Abbiamo capito che ci hanno portati via in quanto bianchi e non in quanto religiosi, per avere indietro un grosso carico di armi che era stato intercettato dalle forze di sicurezza camerunesi a Maroua. Così nel mio cellulare ho recuperato il numero del vescovo e quello dell’ambasciata italiana a Yaoundé” ci racconta Gianantonio.
“Poi, all’improvviso, il capo del gruppo, che veniva nel campo due volte a settimana, e di solito rimaneva in silenzio, ci ha detto ‘good news’. Così è cominciato un altro viaggio in senso contrario. Quella notte è stata quella più difficile e angosciante. Avevamo paura che alla fine saltasse l’accordo raggiunto dopo lunghe trattative, di cui non conosciamo i dettagli. Tra il 31 maggio e il 1° giugno siamo stati consegnati sulla linea di confine alla Brigata di intervento rapido del Camerun. Due giorni dopo siamo atterrati all’aeroporto di Ciampino” ci dice con sollievo il fidei donum, tornato a Vicenza. Aggiunge: “Noi siamo tornati, ma il pensiero va spesso ancora là, ai dieci cittadini cinesi rapiti dopo di noi. Con quelle persone abbiamo condiviso un periodo di prigionia, abbiamo mangiato insieme. E loro sono ancora nella mani di Boko Ha-ram”.
Quegli altri rapiti ignorati dal mondo
“Di notte dormo. Per fortuna non ho subito violenze né traumi. Il nostro rapimento ha avuto visibilità perché siamo occidentali. Rapiti più preziosi ma non per questo più importanti. Siamo solo la punta dell’ iceberg di una realtà fatta di sequestri, uccisioni, arruolamenti forzati, violenze fisiche e distruzioni ai danni di camerunesi e nigeriani, vittime silenziose di Boko Haram” denuncia Gianantonio. Ma non dimentica chi è ancora nelle mani dei suoi sequestratori: “In Nigeria come in altri paesi del mondo ci sono tanti ostaggi di gruppi armati”. Un fenomeno che richiede anche risposte pazienti, di lungo respiro: “ I governi devono puntare su istruzione, lavoro dei giovani, giustizia sociale, tolleranza e dialogo interreligioso per arginare gli estremismi”.
Véronique Viriglio, il Fatto Quotidiano 29/9/2014